Non si è mai felici, ma innamorati sempre del non essere ancora eterni.
« L'esperienza del vuoto – scrive Cioran – è la tentazione mistica del non credente, la sua possibilità di preghiera, il suo momento di pienezza. »
L’angoscia e la disperazione sono ancora la tentazione di esistere. Lo sono gli esercizi ascetici di separazione e purificazione; lo sono le vie di alienazione e di sublimazione; lo sono gli interdetti della noluntas pessimistica, persino il suicidio è ancora l’affermazione di tale tentazione: insistere.
Cristo insiste per mezzo della croce!
Ogni cellula di questo organismo s’illude e spera di poter esistere senza dover essere compiuta, definitiva; se così non fosse infatti nulla esisterebbe. Nulla può esistere senza perciò insistere nella propria incompiutezza.
Leopardi scrive della sua volontà di insistere come Cioran, Schopenhauer. Essi discutono dell’esistenza con l’ardore dei pornografi. Ne sono assetati. Descrivendola con minuziosa e zelante cura ne provano l’accerchiamento e la cattura: negano l’esistenza con insistenza.
Di ciò si fece edotto Nietzsche che nella sua opera di smascheramento – come egli stesso la definì – non volle fare altro che mettere in evidenza l’ossimoro della negazione.
La negazione è l’essere del non essere e cioè ancora l’essere (antica e dibattuta questione filosofica).
« Non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti al mondo, tornare lì donde si è giunti. » (Sofocle, "Edipo a Colono")
La sentenza sofoclea è perciò doppiamente tragica perché essa non vuole ciò che è necessario che sia e cioè insistere: chi nasce (è nato) non può morire (la morte è).
La lacerazione e l’angoscia della morte sono proprio in ciò, nel non poter morire, essendo.
L’eterno ritorno è il paradiso dei dannati, come lo è anche il paradiso dei cristiani ed il ciclo delle rinascite per gli orientali.
Chi è alla vigilia della propria morte sa di non poter morire. Epicuro infatti per liberarci dal timore della morte ci rassicura sul fatto che la morte sia davvero la noluntas, l’annientamento, che, insomma, la morte sia.
I dannati di Dante invocano la seconda morte di fronte all’eternità della pena, cosi come Dante stesso al cospetto di Dio descrive la beatitudine come la noluntas, l’annientamento mistico.
« A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle. »
I beati come i dannati temono ancora una volta la possibilità che la morte non sia ossia l’eternità del volere.
Il suicida crede, come chi crede, che la morte possa liberarlo, che essa sia l’annientamento della volontà di insistere. Il suicidio e l’eutanasia sono nient’altro che l’esplosione assoluta e perciò paradossale della volontà di insistere. Il suicida è colui che si percepisce come per sempre compiuto, definito; scorge nella morte paradossalmente la possibilità di continuare ad insistere; così come colui che, in previsione della propria morte sa di non poter morire, essendo, soffre la lacerazione dell’angoscia.
Cristo ci libera dalla morte nel senso che rende incompiuta l’eternità, finito l’infinito, possibile l’impossibile: ecco lo scandalo!
Ogni cellula di questo organismo è dedita al consumo, a divorare l’incompiutezza: non si è mai felici, ma innamorati sempre del non essere ancora eterni.
17 agosto 2022