After Life. L'estetica della ricostruzione di se stessi

 

(Spoiler alert) «L’uomo è quell’animale che crede alle storie che racconta su se stesso», scrive Mark Rowlands ne Il lupo e il filosofo. Nella serie TV After Life questa definizione viene efficacemente declinata nell’elaborazione del lutto in seguito alla perdita della moglie da parte del protagonista. Accadimenti di questo tipo possono essere paragonati ad un’esperienza estetica?

 

di Stefano Vernamonti

 

 

Jean-François Lyotard, nel suo celebre saggio La condizione post-moderna, traccia una demarcazione fondamentale tra l’uomo moderno e l’uomo contemporaneo (o, appunto, post-moderno): il primo ha portato a compimento l’emancipazione di se stesso dalla teologia e dall’ordine divino del mondo, adoperandosi per una costruzione di nuove “grandi narrazioni” (ad esempio il marxismo, o il positivismo), diverse tra loro ma con alla base la stessa convinzione di poter riconsegnare un ordine agli eventi del mondo; l’uomo contemporaneo ha invece visto le ideologie novecentesche sgretolarsi sotto il peso della complessità sociale, con il risultato di perdere anche queste nuove, laiche, grandi (o meta-) narrazioni.

 

La condizione post-moderna, giustamente considerato una pietra d’angolo nello sviluppo del pensiero contemporaneo, ha generato un dibattito intellettuale (e non solo) che è impossibile riportare anche solo per grandi linee in questa sede. Ciò che ci interessa è introdurre per questo tramite la radicalità della posizione espressa, tra gli altri, da Yuval Noah Harari, storico e saggista israeliano, nel suo libro 21 lezioni per il XXI secolo a questo proposito. Harari afferma che, in quanto Homo Sapiens, la nostra è sempre stata “una specie post-verità, il cui potere dipende dal creare narrazioni e dal credervi”. Dall’Età della pietra fino al Positivismo, passando per qualsiasi sfumatura di teodicea laica o divina, i miti e le narrazioni hanno avuto una funzione di “conforto”, di scudo contro una possibile insensatezza del vivere. Siamo gli unici mammiferi capaci di cooperare con degli stranieri perché siamo gli unici capaci di inventare storie e convincere milioni di persone a credervi.

 

Un possibile corollario di questa posizione è che la verità non sia mai stata la priorità nel programma di Homo Sapiens; anzi, al contrario, il potere della cooperazione umana si basa proprio su un delicato equilibrio tra realtà e finzione. Un esempio calzante di questo equilibrio è offerto proprio dallo stesso Harari: se vogliamo godere di una partita di calcio, dobbiamo necessariamente sospendere la nostra consapevolezza che si tratta di regole inventate. Se non facessimo così, guarderemmo solo ventidue persone correre dietro una palla per novanta minuti.

 

L’uomo, più che Homo Sapiens, potrebbe perciò essere definito Homo Narrans, o anche Homo Credens, come suggerito da Jerome Bruner ne La mente a più dimensioni. Vale appena notare come i due participi presenti rappresentino i due poli di questa operazione umana: per ogni uomo che narra, deve esserci almeno un uomo che crede. Le implicazioni politiche, di una concezione di questo tipo sono ovviamente molte e feconde. Ma cosa succede quando la narrazione si dipana tutta nella singola individualità, quando cioè l’Homo Narrans e l’Homo Credens sono la stessa persona? Le storie che noi raccontiamo, non sul mondo ma su noi stessi, hanno la stessa funzione, cioè mantenerci in quel giusto equilibrio tra realtà e finzione, in modo tale da riuscire a dare un senso, una direzione alla nostra storia individuale?

 

 Ricky Gervais, creatore della serie “After Life”
Ricky Gervais, creatore della serie “After Life”

 

La serie TV After Life presenta allo spettatore esattamente questa problematica, mettendo in scena la vita di Tony, reporter di un piccolo quotidiano locale, alle prese con la depressione e l’elaborazione del lutto in seguito alla perdita della moglie, Lisa, a causa di un cancro. Tony ha perso il riferimento più importante della sua vita: l’amore che lo legava a Lisa, sincero e totalizzante, viene meno e la sua bussola perde l’orientamento. Egli cade in depressione, inizia a coltivare pensieri suicidi, la sua vita inizia a ripiegarsi su se stessa. Lentamente, tuttavia, le persone con cui Tony viene a contatto aggiungono, con le loro storie, dei nuovi tasselli alla sua esperienza, aprendolo nuovamente alla possibilità di riprendere le redini della sua esistenza: gli incontri con la vedova Anne, con Emily, infermiera dell’ospizio nel quale si trova il padre di Tony, o ancora il suo altalenante rapporto con Matt, fratello di Lisa e direttore del piccolo quotidiano. Una costellazione di persone che emana una luce tenue ma sufficiente affinché, alla fine della serie, Tony riesca nuovamente ad orientarsi nella sua vita. 

 

In che senso tutto ciò può essere paragonato ad un’esperienza estetica? Abbiamo già affrontato questa tematica da un’altra prospettiva, a proposito cioè della figura del sognatore in Dostoevskij. Riprendiamo per sommi capi quanto sostenuto. L’esperienza estetica si configura come una sorta di raddoppiamento dell’esperienza che solitamente compiamo. L’esteticità non è fatta di una stoffa diversa dall’esperienza comune, ma è una diversa organizzazione e finalizzazione di quest’ultima. L’esperienza estetica trasporta il soggetto in un mondo parallelo a quello esistente. L’esempio di un film è molto calzante. La fruizione del film risulta un’attività estetica perché ha fatto esercitare “a vuoto” la nostra esperienza: ci ha infatti permesso di creare una riserva di esperienza (siamo entrati in contatto con una situazione che non abbiamo esperito nella realtà, ma che appartiene alla pellicola), ma anche una anticipazione di esperienza (ci siamo confrontati con le varie possibilità che il film ha messo in scena). L’esperienza estetica, insomma, ci ha permesso di provare situazioni e soluzioni possibili a livello conoscitivo ed emotivo: un po’ come far girare la catena della bicicletta tenendo la ruota sollevata.

 

 

In un modo sicuramente più coinvolgente e personale, questa sembra essere la stessa operazione che noi esseri umani compiamo quando siamo messi di fronte a situazioni che ci appaiono invalicabili, che in qualche modo minano alla base tutti i nostri assunti, le certezze sulle quali abbiamo basato la narrazione della nostra vita. Tony cerca un conforto che non può più trovare nei ricordi di Lisa, e inizialmente suo malgrado è costretto a confrontarsi con le nuove possibilità che questo tragico evento gli ha posto davanti: la contemplazione del suicidio (anche l’annullamento di ogni possibilità è essa stessa una possibilità), l’anestesia delle droghe, la superficialità di una vita vissuta senza impegno, la cura verso l’altro. Tony, nel corso della serie, viene a contatto con esseri umani che rappresentano altrettanti diversi modi di vivere il proprio passaggio sulla terra, e da ognuno di loro trattiene per sé una piccola parte. E, di qui, la straordinaria operazione estetica (nel senso da noi indicato): raddoppiare tutte le nostre esperienze in un mondo parallelo, immaginario, metterle assieme, viverle anticipando la vita reale. 

 

Far girare “a vuoto” la ruota della nostra esistenza, nel tentativo di cercare una narrazione che in qualche modo dia una nuova sistemazione al nostro passato e allo stesso tempo soddisfi la nostra ricerca di senso verso il futuro. La nostra capacità estetica ci permette di esperire modelli possibili di noi stessi, ricostruendo di volta in volta tali modelli sulla base di nuove esperienze e scegliendo a quale affidare la narrazione della nostra vita.

 

Appare difficile stabilire precisamente in base a quali criteri operiamo una scelta tra questi modelli possibili, e tale argomento meriterebbe certo una trattazione a sé. Si può però notare che, una volta presa una decisione su quale modello adottare, quest’ultima diviene per noi vincolante, perché riempie nuovamente di senso la nostra esistenza, passata e futura. Se da un lato, nel momento della verifica, i modelli di vita presi in considerazione da Tony rappresentano tutti delle possibilità valide, dall’altro il momento della scelta traccia un solco invalicabile tra ciò che si è scelto e ciò che si sarebbe potuto scegliere.

 

Tale operazione mentale trova un’eco in alcune posizioni di Karl Jaspers, filosofo esistenzialista e psichiatra tedesco. Egli, riprendendo la distinzione kantiana tra intelletto (Verstand) e ragione (Vernunft), associa alla libertà costitutiva di ogni essere umano una costante ricerca dell’assoluto, che chiama significativamente fede. Quest’ultima non ha un particolare contenuto religioso, ma rappresenta la forza suprema dello spirito, capace di dare una direzione alla propria vita attraverso la scelta, rivestendola di un carattere assoluto e trascendente.

 

Karl Jaspers (1883-1696), filosofo e psichiatra tedesco
Karl Jaspers (1883-1696), filosofo e psichiatra tedesco

 

Detto in altri termini: l’uomo, pur nella sua inestirpabile situazionalità, scegliendo una propria visione del mondo si apre all’assoluto. Senza questa apertura, senza la convinzione che il modello di vita che Tony ha scelto sia in qualche modo definitivo, giusto, come potrebbe mai accettare la propria scelta? La fede non è uno stadio preliminare del sapere, bensì un atto che, esso solo, rende possibile e significante lo stesso movimento verso il sapere. 

 

Il “naufragio” è però sempre dietro l’angolo: l’esperienza delle situazioni-limite, come la morte, il dolore, l’ineluttabilità della colpa, mettono in crisi le nostre certezze, e ci spingono a cercare una nuova fede. È molto suggestivo pensare al concetto di esistenza come oltrepassamento della situazione e rapporto con l’assoluto; spesso, quando superiamo un lutto o una perdita, ci sentiamo “tornati a vivere”, cioè ad esistere, quasi come se in quella fase di profondo scacco e dolore, fossimo scomparsi dal mondo, e solo con il recupero di una nuova fede fossimo tornati.

 

Perciò, se volessimo dare un significato filosofico al finale di After Life, nel quale Ricky Gervais svanisce dalla scena durante l’ultima passeggiata con Brandy, potremmo dire che questo accade perché il “mondo” nel quale Tony ha vissuto in tutte le tre stagioni era un mondo tutto interiore, di analisi di sé, di riscatto di senso e direzione della propria vita. Così, dopo aver recuperato una nuova fede, suggellato dall’incontro con un bimbo malato in ospedale che “ferma la sua discesa negli inferi e gli trasmette una causa”, cioè la cura degli altri, dopo tutto questo finalmente Tony può tornare a vivere nel mondo esterno, abbandonando il terreno di scontro più impervio sul quale ognuno di noi si potrà mai trovare a combattere: noi stessi.

 

 26 aprile 2022








  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica