La crisi sembra un elemento ineluttabile e fondante la vita umana in ogni suo aspetto. Nel suo presentarsi, essa spezza le sicurezze dell’uomo, aprendo all’angoscia. Essa è davvero un elemento negativo nel procedere della vita?
La pandemia Covid, la guerra in Ucraina, il rincaro dei prezzi, il riscaldamento climatico: questi e molti altri sono gli argomenti, tutt'altro che piacevoli, che riempiono o hanno riempito le pagine di notiziari o i post social negli ultimi anni. Tutte tematiche riassumibili nella categoria di crisi.
Si è in un'epoca di crisi globale, che sembra colpire da più lati, quali quello economico (col progressivo dilagare della povertà o la mancanza di condizioni lavorative adeguate), quello politico (con l'instabilità dei governi, il fallire della diplomazia internazionale e il polarizzarsi dell'opinione pubblica su alcuni temi), finanche quello culturale (con la ben nota crisi dei valori e la percezione postmoderna di non vivere in un orizzonte di senso.
Al di là delle sfumature che tale concetto può avere, la crisi si può concepire, in senso generale, come un "crollo delle fondamenta". Lo smarrimento e il senso di decadenza che ne derivano sono infatti il risultato della differenza fra il ricordo del passato rassicurante – quando la propria vita era impostata e sorretta da convinzioni e condizioni consolidate e sicure – e il terrore di un futuro incerto, non più categorizzabile e vivibile secondo le coordinate di una volta. Che sia la perdita del lavoro (e della stabilità economica), la perdita di passione nella relazione amorosa o il disinteresse verso le passioni di un tempo, il significato è lo stesso: il modus operandi passato non ha più efficacia. Sono mancate sotto ai piedi quelle fondamenta che indicavano verso che direzione e in che modo muoversi.
In sintesi, tale concetto sembra allacciarsi a un significato puramente negativo, disgregatore, di decadenza rispetto a prima. Se guardiamo alla sua etimologia, crisi deriva dal greco κρίσις, che significa "separazione", "scioglimento" (da un passato in cui si viveva nell'agio e sicuri di sé?), ma anche "decisione", "esito", "risoluzione". È secondo questa accezione che si deve analizzare il termine in questione, se non si vuole fermarsi alle apparenze.
Una delle caratteristiche di tutte le narrazioni di successo (che siano libri, serie tv, film o altro ancora) è quello di non rappresentare – si scusi l'ovvietà – vicende banali, vite di persone piatte, che non dicono nulla. Specie nelle narrazioni che finiscono con un finale piacevole, di quelli che il lettore/lo spettatore volentieri vorrebbe vivere in prima persona, è importante che i protagonisti non siano contenti e felici dall'inizio alla fine della storia. Affinché i fatti raccontati siano avvincenti, dev'esserci un sali-scendi ben congegnato, che faccia penare i personaggi della narrazione, facendoli passare per un travaglio doloroso, che metta in questione il loro credo, la loro stabilità. In conclusione, per arrivare al lieto fine bisogna prima di tutto passare per il momento della crisi.
Per quanto le storie narrate abbiano un che di inventato, è anche vero che esse nascono dalla penna di esseri umani e si ispirano ad alcuni degli elementi caratterizzanti la vita umana. Che la crisi permei ogni storia sottolinea come essa permei ogni vita umana, nel suo essere tanto momento di decadenza, quanto fase di rinascita.
Come detto, la crisi è spesso, almeno inizialmente, vissuta secondo l'accezione negativa di rottura di uno stato di benessere. Una rottura che nasce da delle contraddizioni che hanno mostrato la precarietà della stessa, precedente, agiatezza: si era convinti che quel rapporto funzionasse, eppure qualcosa lo minava alla base e alla fine ha portato alla crisi; quei valori che guidavano il proprio agire, di fronte al confronto serrato con chi è più esperto, si sono sbriciolati e ora non è più possibile crederci.
Questa rottura, sintomo della contraddizione, crea una dissonanza cognitiva dolorosa: come muoversi ora che si hanno perso le coordinate? Si vive il dolore del passato perso, il presente è desolante, il futuro incerto. Proprio guardando al futuro, però, si apre l'accezione di crisi come "risoluzione".
La rottura delle convinzioni, della sicurezza passata non è solo dolore: è anche apertura al nuovo, alla possibilità di superare la contraddizione che attanaglia il proprio io. La ricerca di una nuova stabilità è la ricerca di un equilibrio nuovo rispetto al precedente, di coordinate che guidino il proprio agire in modo meno contraddittorio rispetto alle precedenti – le quali, come si è visto, hanno portato allo smarrimento, sgretolandosi per la loro inconsistenza.
Senza crisi, la vita sarebbe piatta, perché equivarrebbe alla mancanza di crescita, che non si dà se non si passa per il negativo. Per migliorare e stare bene, è necessario riconoscere che qualcosa non va (che si sta male) e dev'essere cambiato. Proprio da questa consapevolezza può partire la lotta per il cambiamento, la fase positiva della crisi quale "risoluzione" nella direzione di una maggiore stabilità, secondo una tensione che non potrà mai concludersi finché si vivrà.
Per questo motivo, meglio non avere una concezione puramente negativa della crisi. Essa è la fase negativa che ci apre a un'orizzonte di senso migliore del precedente. A volte, purtroppo, la crisi può volgere in tragedia, nel momento in cui non si riesce a uscirne. Al contempo, però, non volerla affrontare per paura del dolore obbligherà a vivere in un limbo che non porterà da nessuna parte.
15 dicembre 2022
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