Convivere con se stesso è forse il compito più arduo che a ogni uomo spetti: società e giustizia potranno anche imprigionarci e punirci ma la più grande condanna di noi uomini sarà eternamente quella di convivere con il nostro peccato. È possibile una terza via alla sconfitta o all’assoluzione?
Il Processo è una delle opere più importanti dell’intero Novecento: ancora oggi il romanzo di Franz Kafka viene riconosciuto come uno tra i più rappresentativi e complessi della sua produzione letteraria, tanto da essere posizionato da “Le Monde” al terzo posto nella classifica dei cento libri migliori del XX secolo.
Il destino dell’opera però era quello di essere distrutta e fagocitata dal tempo: da un lato non ci appare difficile comprendere l’ultima volontà del suo autore, consapevole di aver dato luogo ad un’opera frammentaria che troppo mette a nudo i nervi scoperti di uno scrittore e di un’umanità intera, mentre dall’altro ci appare estremamente condivisibile, già ad un prima lettura dell’opera, la scelta dell’amico di Kafka, Max Brod, di venir meno a questa volontà per consegnare al palcoscenico letterario e filosofico una tra le opere più straordinarie e grandiose che siano mai state elaborate.
Come da consuetudine nei racconti e nei romanzi kafkiani, la trama muove le proprie mosse partendo da un primo elemento assurdo e irrazionale che renderà tale tutta la narrazione: Josef K, procuratore in un istituto bancario, viene arrestato nella propria abitazione e condotto a processo, senza mai venire a conoscenza delle motivazioni che hanno determinato lo stravolgimento della sua vita; libero di recarsi a lavoro e di continuare le attività della propria quotidianità, dovrà di tanto in tanto presentarsi in tribunale per difendere se stesso da accuse mai proferite: su consiglio dello zio si affiderà all’aiuto più consapevole di un avvocato esperto, ma tutto sembrerà essere destinato al silenzio e all’incomprensione.
Quella che Kafka ci narra non è tanto la storia di un processo, quanto più profondamente l’articolazione di un autoprocesso dal soggetto per il soggetto stesso: non vi è possibilità per nessun uomo di sottrarsi al processo della propria ragione e della propria psiche e ogni intervento esterno sembra essere assolutamente vano e illusorio.
Tutto ciò viene ampiamente confermato dall’impianto narrativo del romanzo: l’arresto avviene a casa del protagonista (nel luogo tipico del proprio essere privato), coloro che arrestano K dichiarano di non sapere nulla e di essere del tutto simili a lui (parti dalla sua psiche), il processo si sviluppa in un palazzo residenziale a contatto con la vita comune e coloro che lavorano nel palazzo asseriscono di essere essi stessi imputati da giudicare e da processare.
Considerati quindi avvenimenti e dettagli la cui unica funzione potrebbe essere quella di rendere ancora più assurda la trama, ci appare però già più chiara e lineare la scelta dell’autore di attribuire al protagonista, seppur in maniera velata, il proprio stesso nome: Franz K è indubbiamente una forma rappresentativa del Kafka uomo ancor prima di quello scrittore, ma è anche e soprattutto una rappresentazione dell’umanità intera. Ciò è possibile grazie alla decisione di attribuire al protagonista un nome comune e un cognome ancora più generale ed indefinito, rendendo concreta la possibilità che il discorso sia più generale e aperto a tutti gli uomini e permettendo all’autore di esprimere l’inconoscibilità dell’uomo stesso e la sua impossibilità di trovare una matrice concreta al peccato per il quale egli cerca di giustificarsi.
Quello che Kafka ci narra è quindi il tentativo dell’uomo di convivere con il proprio peccato: nel capitolo dedicato al bastonatore, K mostrerà pietà per i due ufficiali che gli avevano notificato l’arresto e che, a causa delle critiche al loro comportamento esposte dal protagonista stesso durante il corso di un’arringa, dovranno necessariamente essere puniti e frustati.
K mostrerà quindi pietà per gli altri, ma non si dimostrerà minimamente capace di perdonare se stesso e dovrà continuamente venire a patti con il proprio senso di colpa; tutto ciò ci viene chiarito nel capitolo sette quando il pittore, altro personaggio imprecisato, esporrà al protagonista la possibilità di scegliere tra tre tipi diversi di assoluzione: quella vera e impossibile da ottenere, mediante la quale ci si affida alla propria innocenza, quella apparentemente data dalla possibilità che gli altri definiscano la nostra innocenza e il differimento che prevede piccoli ma continui processi, tanto all’uomo quanto alla sua coscienza.
Un allontanamento definitivo dell’uomo dal proprio senso del peccato è impossibile: egli può però considerare l’opinione labile degli altri e assopire le proprie colpe, può ancora nasconderle nel divertissement pascaliano e nelle azioni banali e quotidiane o ancora può accettare la propria condizione di colpevolezza e scegliere di scontrarsi giorno dopo giorno con la propria consapevolezza.
Tutto ciò però non costituisce nessuna possibilità definitiva per l’uomo di liberarsi dal proprio peccato e dal proprio dolore; in un certo senso per l’appunto, nella grande opera kafkiana è possibile riconoscere i tre stadi della vita o le tre vie di liberazione dal dolore proprie della filosofia di Kierkegaard e di Schopenhauer: vi è una via estetica e dell’esaltazione del piacere, una etica del rapporto con gli altri e una religiosa (che però nel romanzo kafkiano costituisce più una condanna che una dichiarazione di salvezza) o ancora vi è l’esperienza estetica, quella della morale e quella dell’ascesi (intesa però come liberazione definitiva dalla sensibilità e dalla facoltà di emettere giudizi).
Di fatto però ogni via è percorribile solo per brevi tratti e tutto sembra sfociare nel sentiero più buio e nell’ultima condanna: al compimento del trentunesimo compleanno K viene prelevato da due uomini e, perfettamente consapevole di ciò che sta avvenendo, viene scortato in una cava di pietra, luogo in cui verrà giustiziato, subendo due profonde e nette coltellate al cuore.
Negli ultimi istanti della propria vita e della propria razionalità k pensò di star per essere ucciso come un cane e gli parve che il senso di vergogna dovesse sopravvivere anche alla sua morte; l’uccisione del protagonista termina quindi con una condanna definitiva all’umanità intera: i peccatori potranno anche morire, ma il peccato resterà eternamente intrinseco alla condizione umana.
12 dicembre 2022
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