«Come se gli uomini, obliando del tutto il Divino, versassero nella condizione di appagarsi, come i vermi, di polvere e di acqua» (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito).
È noto lo schema hegeliano, poi ripreso dal pensiero italiano neoidealista, neoclassico e neoparmenideo, per cui si possono rintracciare grossomodo tre momenti nella storia del pensiero filosofico rispetto al problema dell’essere: essi individuano, di volta in volta, il rapporto che intercorre fra il pensiero – la soggettività – e l’essere – l’oggetto; determinando, in questa maniera e ciascuno a suo modo, il “criterio” di validità oggettiva. Ora, è vero che a quel “tridente” si potrebbe aggiungere il pensiero pre-filosofico, e probabilmente sono presenti numerose sfumature interne alla storia della filosofia; è altresì vero che la ricerca non è conclusa e pure l'ultimo punto sembra, per alcuni versi, insoddisfacente. Tuttavia, in questo contesto, vorremmo mostrare quali effetti conseguano dall'ultimo passaggio cui, speculativamente, siamo giunti – passaggio di cui oramai non possiamo più fare a meno. Vorremmo dunque tracciare il percorso della millenaria querelle, di modo da scorgere finalmente l’oggetto in una luce un poco diversa rispetto alla “codifica” cui siamo comunemente abituati.
Il primo momento spetta al pensiero greco, in cui il rapporto fra pensiero ed essere è immediatamente noto. Il greco pensa che tutto ciò che vede, sente, percepisce, enumera, concettualizza sia il vero essere, immediatamente disponibile a farsi cogliere, nella sua nuda essenza, dal pensiero umano. Vale a dire che le categorie ontologiche aristoteliche, per esempio, appartengono alla natura delle cose, e, in un secondo momento, si rinvengono mediante il pensiero e le sue regole (principio di non contraddizione, e via dicendo). Le categorie identificano quelle qualità che sono di tutti gli esseri, cioè di tutte le cose, come la sostanza, la quantità, la qualità; tutte le determinazioni presenti nel mondo sono infatti qualcosa, sono quantificabili, e pure determinabili secondo la loro precisa natura. Un albero è qualcosa, è uno e pure una specie vegetale dalle mille altre proprietà. Ecco allora che il greco è consapevole di attingere alla verità, alle cose, senza inganno alcuno (benché certamente il primo relativismo e il primo scetticismo nascano proprio in Grecia, dacché, non essendo chiarificato il rapporto fra essere e pensiero in modo soddisfacente, era in nuce il passaggio della modernità). Questa è la fase del pensiero definita realismo.
Accade però, nei secoli – un processo che culmina nella filosofia soggettivista moderna –, che ci si interroghi sull’efficacia “prensile” del pensiero: davvero cogliamo la verità delle cose oppure ciò che appare è solo rappresentazione, proprio a causa dell’impossibilità che il soggetto osservante – l’apparire – venga meno? D’altronde, invita a riflettere Cartesio, l’unica verità indubitabile è il fatto di pensare, e perciò di pensare dei contenuti. Nessuno assicura che quei contenuti corrispondano alle cose “là fuori”! I primi tentativi, meno radicali della filosofia cartesiana, a dire il vero spettano a Galileo e a tutti coloro che, con lui, individuano due tipi di categorie: primarie e secondarie, oggettive e soggettive. La scienza empirica ha preso piede anche grazie a questa convinzione, e cioè che ci siano delle qualità davvero oggettive, davvero pertinenti all’oggetto, e delle altre che invece sono solo del soggetto che osserva, e che non si può assolutamente affermare siano anche dell’oggetto. Così il numero, la quantità, il movimento sono reali, oggettivi, veri e cioè indipendenti dal pensiero che li pensa; il colore, il sapore, e tutte le proprietà che derivano dalle sensazioni sono invece del soggetto, che “applica” se stesso, attivamente, nell’esperienza, modificando il dato reale con le sue impressioni. Dio, la verità, parlava dunque il linguaggio matematico.
Via via che l’analisi proseguiva, però, anche le categorie primarie vennero a cadere come tali. Anch’esse sono, di fatto, figlie di un metodo soggettivo, che presume di cogliere la verità di qualcosa che sta fuori dal metodo stesso. Kant mostrerà poi che spazio e tempo non sono categorie figlie dell’esperienza, ma condizioni a priori dell’esperienza stessa: che io veda un prima e un dopo non lo imparo dal susseguirsi delle cose, ma vedo il susseguirsi delle cose proprio perché possiedo l’idea di “prima e dopo”. Allo stesso modo, lo spazio, come relazione fra le cose, non deriva dall’osservazione delle cose, ma l’osservazione spaziale delle cose dalla categoria dello “spazio” che già prima possiedo in me. Ciò vale anche per altre categorie, che sistematizzano i fenomeni secondo gli schemi universali del pensiero umano. Ma va da sé che se le categorie con cui pensiamo le cose sono universali, perché valevoli per tutti gli uomini, ma soggettive, come proprietà trascendentali del pensiero, non sono appartenenti alle cose: che io classifichi l’albero secondo le qualità di cui prima si è parlato, non rende quelle categorie ontologiche, appartenenti all’albero. Sono nostre proiezioni sul materiale ricevuto dall’esperienza; materiale che, in sé, cioè a prescindere dal soggetto, rimane oscuro, inconoscibile. Il soggetto, in altre parole, vizia le cose, che non possono essere sapute, perché il sapere si basa sull’osservazione del soggetto umano. La cosa in sé, il noumeno, deriva da queste considerazioni. Di fatto si è solo creata un'universalità interna al sapere umano, che però rimane scisso dalla realtà.
Il terzo momento compie un passaggio tanto scaltro quanto inaudito: l’idealismo, prima con Fichte e poi, più coerentemente, con Hegel, scopre una contraddizione nella concezione della cosa in sé. Nel soggettivismo c’è una grossa falla. Kant dice che le categorie sono apriori, universali ma soggettive. Allora anche il pensiero della cosa in sé è dipendente dalle categorie! Per quanto si vogliano spogliare le cose dalla soggettività, postulando l’esistenza di una materia oscura e totalmente altra, rimane vero che anche così si stanno applicando delle categorie. La cosa in sé è qualcosa, è causa delle impressioni soggettive. Istituendo il noumeno abbiamo comunque utilizzato almeno due categorie: sostanza e causalità. Ma sostanza e causalità sono appunto categorie, cioè qualcosa di pensato, di interno al pensiero stesso. Il concetto di noumeno, come contenuto davvero oscuro, è perciò contraddittorio, impensabile. Non esiste alcuna cosa in sé, perché non appena ne concettualizzo l’esistenza mi contraddico. L'oggetto, dunque, non è indipendente dal soggetto, ma "disponibile" alla coscienza.
Il primo momento voleva l’identità di pensiero ed essere; il secondo ne ha stabilito l’assoluta separazione; il terzo mostra che la separazione è impossibile da pensare perché quella stessa separazione sarebbe opera del pensiero: vale a dire che la cosa là fuori è un postulato contraddittorio, indimostrato. L’essere non è estraneo al pensiero, né il pensiero all’essere. Essi coabitano. L’identità dell’albero di fronte a me che lo osservo è l’intero delle sue relazioni, siano esse il peso, il colore, il numero di foglie, la sua storia o il rapporto con il pensiero che a lui si rivolge. E allo stesso modo il soggetto appartiene alle cose “esterne”: è un fattore che mi determina in maniera decisiva anche l’albero che mi sta dinanzi e che rientra all’interno degli esempi di cui mi avvalgo per formulare queste argomentazioni. Io sono parte dell’albero, come lo è il gatto che vi si arrampica, e l’albero è parte di me. Abitiamo, gli uni con gli altri, l’unico immenso organismo. È un portato del pensiero astratto quello di credere che qualche relazione sia indifferente al tutto; io, nella mia più pura essenza, non esisto senza l’albero, e viceversa. Non è indifferente, rispetto alle dinamiche globali, che veda o non veda quell’albero, che dica o non dica una parola. Sono astrazioni utili, perché che io abbia le scarpe gialle è un fatto meno importante del giardino di cui mi prendo cura. Ma si tratta di relazioni reali, oggettive, vere – di fatti che sono anche pensieri. Il sentimento che provo dinanzi alla montagna più alta, alla neve che cade, al bambino che gioca, sono reali, veri, essenziali, tanto quanto lo sono i metri di altezza del monte, della temperatura e della pressione del pallone preso a pedate. Fingere che non siano reali, definirli meramente soggettivi, significa mutilare l’esperienza. Il neopositivismo che il nostro mondo abita ancora oggi ha questa tendenza meschina, di troncare a metà l'esperienza, tradendone la misura. Che alcune cose siano solo soggettive, che la natura sia indifferente, è un portato del mito moderno, una credenza nefasta che ha già operato troppe esecuzioni sommarie.
21 febbraio 2022