Amore o giustizia?

 

Tra amore e giustizia pensati come principi normativi della prassi c’è, ci può essere o ci deve essere una dialettica, oppure sono vicendevolmente escludenti? 

 

di Fausto Trapletti

 

E. Schiele, "L'abbraccio" (1917)

 

Amore e giustizia è un breve libello pubblicato da Paul Ricoeur nel 1990. Sarà il principale polo dialogico per la riflessione che segue. 

 

Il testo è organizzato in tre capitoli, preceduti da un’introduzione. Essi sono rispettivamente dedicati alla «poesia dell’amore» (Amore e giustizia, 1990), alla «prosa della giustizia» (ivi) e alla «dialettica amore-giustizia» (ivi). Il nucleo problematico che muove il «pensiero meditante» (ivi) è delineato da Ricoeur stesso concludendo l’introduzione: 

 

« Il problema è tutto qui: l’amore ha, nel nostro discorso etico, uno statuto normativo comparabile a quello dell’utilitarismo o anche dell’imperativo categorico? » (ivi).

 

La risposta è chiara fin dal principio, ed è negativa. Resta, allora, da capire il perché della differenza fra amore e qualsiasi fonte di normatività del discorso etico e se fra queste due dimensioni si possa dare solamente mutua esclusione, oppure se si possa instaurare una qualche interazione. 

 

L’amore è, per Ricoeur, altro dalla giustizia, altro dall’etica in sé e per sé, perché «l’amore parla, ma […] in un’altra specie di linguaggio rispetto alla giustizia» (ivi). La diversità è data dalla «stranezza, o la bizzarria (oddity), del discorso d’amore» (ivi). Il discorso d’amore è innanzitutto un inno di lode, ponendosi, così, di fatto già su un piano diverso rispetto alla rigorosa analisi etica. L’imperatività dell’amore, poi, è irriducibile a qualsiasi prescrizione etico-morale: il comandamento d’amore è «un comandamento che contiene le condizioni della sua propria obbedienza» (ivi); non è un comandamento che obbliga, ma che implorando sussurra «Amami!». Il discorso d’amore, infine, è un’infinita fonte di significato, grazie alla sua «potenza di metaforizzazione» (ivi): l’amore, già sempre, significa più che sé stesso. 

 

Se, quindi, l’amore assume tinte chiaramente poetiche, al contrario la giustizia si mostra in tutta la sua prosaicità. Per il filosofo francese essa può essere in larga parte identificata con la giustizia distributiva, indi per cui idealmente essa è fautrice di «una ripartizione equa dei diritti e dei benefici a vantaggio di ciascuno» (ivi). Niente di più, niente di meno. 

 

Ora, di primo acchito amore e giustizia, come presentate in questa sede da Ricoeur, sembrano così diversi da non aver nulla in comune. La totale esteriorità dell’una con l’altro, e viceversa, risolverebbe di per sé qualsiasi tipo di problema prima ancora che possa porsi: due realtà vicendevolmente indipendenti si ignorano. Di fatto, però, così non è. Il terreno condiviso che permette l’instaurarsi quanto meno di una tensione è dato dalla comune pretesa di essere principi normativi dell’agire umano (per usare terminologia e concetti prosaici, che si addicono all’amore solo metaforicamente): «amore e giustizia si rivolgono all’azione, ciascuno a proprio modo: l’uno e l’altra la rivendicano» (ivi).  

 

È evidente che la tensione che nasce da questa rivendicazione dovrà essere esiziale per uno dei due principi: l’azione reale può essere guidata in maniera esclusiva o dalla giustizia o dall’amore. O si ama o si è giusti. L’amore è sovra-morale, apre all’economia del dono e chiama alla logica della sovrabbondanza. È, per Ricoeur, l’amore del Discorso della pianura del vangelo di Luca:

 

« Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male » (Lc 6, 27-28).

 

La giustizia, al contrario, non solo rientra nell’etica, ma è forse l’essenza stessa dell’etica; dice eguaglianza, reciprocità. È espressa magistralmente, sempre secondo Ricoeur, nella Regola d’oro, di nuovo nel vangelo di Luca: «E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro» (Lc 6,31). 

 

È a partire da questa contiguità testuale che il filosofo francese si chiede se davvero non si possa pensare altro che mutua esclusione. La conclusione a cui giunge è che non solo si può pensare una dialettica fra amore e giustizia, ma anzi che si debba farlo per salvare e l’uno e l’altra. Senza l’aiuto della giustizia, infatti, la sovra-moralità dell’amore rischia di trasformarsi in a-moralità e im-moralità; senza la correzione dell’amore, la reciprocità della giustizia tende a divenire un mero calcolo utilitaristico. In questa integrazione bilaterale le differenze fra le due logiche non sono soppresse, ma mantenute in un’unità di senso che le supera conservandole e le conserva superandole (Hegel docet). Una sorta di amore giusto o di giustizia amorevole. 

 

Paul Ricoeur

 

Si possono muovere diverse critiche all’argomentazione di Ricoeur. Nel prosieguo si vuole presentarne qualcuna. Alcune colpiscono determinati presupposti o identificazioni non completamente giustificate, minando così le premesse del procedere ricoeuriano; un’altra aspira a mostrare l’inconsistenza della conclusione a cui giunge. 

 

Il primo aspetto che fin da subito si mostra nella sua gratuità non dimostrata è l’identificazione della giustizia in generale con la giustizia distributiva. Per quanto siano chiamati come suoi testimoni nomi importanti, da Aristotele a Rawls, rimane un’assunzione arbitraria. È vero anche che l’equità distributiva è, con tutta probabilità, l’accezione comune con cui si intende la parola “giustizia” e che permette la comprensione dei rapporti fra società ed individuo nei termini di partecipazione, ma, di nuovo, questo non significa nulla. Trovare una contraddizione fra amore e giustizia, laddove questa è considerata come giustizia distributiva, è una semplice petizione di principio: la si definisce a priori con attributi opposti rispetto a quelli che si sono riconosciuti precipui dell’amore, per poi mostrare come fra i due vi sia un’apparentemente insanabile contraddizione, nel momento in cui entrambi si pongono come valori regolativi della prassi. 

 

Una sfida che potrebbe essere interessante, e potenzialmente feconda, è pensare la giustizia diversamente. Il che non significa muovere dal tentativo di accordarla con l’amore, ma solamente di renderle giustizia (si scusi il gioco di parole) liberandola dalle catene di una sua comprensione che le va troppo stretta. Così facendo, sarà poi possibile constatare la relazione che si instaura fra amore e giustizia, senza presupporla nella definizione dell’uno o dell’altra. A titolo di esempio, una riflessione che si muove in questa direzione è quella di Emmanuel Levinas: amore e giustizia rimangono mutualmente escludenti, ma quest’ultima non è presupposta nella sua dimensione distributiva, bensì emerge da un processo di pensiero come responsabilità per l’altro, per il terzo il cui volto mi chiede conto. 

 

Il secondo aspetto che con facilità si presta ad essere messo in questione è l’interpretazione della Regola d’oro come espressione della logica dell’equivalenza in virtù della reciprocità che insitamente pone (per quanto sia un’interpretazione conforme ad una certa tradizione esegetica). La Regola d’oro non riguarda in alcun modo la reciprocità: non la pone, non la chiede, non la esige. Non afferma di fare agli altri ciò che vorremmo gli altri facessero a noi poiché ci è stato fatto o affinché ci sia fatto. È un principio, sotto molti aspetti formale, che indica in quale forma debba cristallizzarsi l’azione che sorge dal dono di sé all’altro/i. Se l’assolutezza del dono di sé all’altro/i, da un punto di vista per certi versi passivo, si concretizza nell’amore per il nemico, nel porgere l’altra guancia, nel dare la tunica a chi ci ruba il mantello, come può mostrarsi quando non è risposta all’atteggiamento dell’altro/i? Come incanalare lo strabordare del dono? La risposta è data dalla Regola d’oro.

 

Si potrebbe pensare che, pur nella logica della sovrabbondanza del dono, la Regola d’oro stipuli l’uguaglianza degli uni con gli altri. Dicendo di compiere ciò che si vorrebbe fosse fatto a sé, presuppone che ciascuno, nella medesima situazione, desideri le medesime cose, sicché si è tutti uguali. Ed è vero, si potrebbe pensare. Si potrebbe anche pensare, però, che la Regola d’oro sia la più ferma ammissione della radicale e inaccessibile differenza degli uni con gli altri. L’altro/i mi trascende a tal punto da esulare le mie capacità di comprensione dei suoi desideri o di cosa faccia il suo bene, e di conseguenza, pur di non rimanere inerme poiché la marea del dono è inarrestabile, non mi resta che fare ciò che, se mi trovassi nella situazione in cui si trova l’altro/i, vorrei fosse fatto a me. 

 

Ora, si ammetta pure che la giustizia si identifichi con la giustizia distributiva e che la Regola d’oro ne sia un’espressione. Qual è il valore della conclusione a cui giunge Ricoeur, ovvero di una dialettica fra amore e giustizia che conduce ad un amore giusto o ad una giustizia amorevole? Nessuno. Non esiste alcun amore che sia tale ed al contempo distributivamente giusto, come non esiste alcuna giustizia distributiva che sia tale ed al contempo ami. Si è di fronte ad una situazione, qui, che non consente un procedere di tipo hegeliano (che si ammetta o meno di star procedendo in questo modo): la contraddizione non è risolvibile in una sintesi che la superi (nel senso dell’aufhebung). 

 

Giotto, "Iusticia", Cappella degli Scrovegni, 1305

 

Si deve avere il coraggio di accettare la contraddizione in quanto tale, e perciò decidersi per uno dei due poli. Non è possibile salvare entrambi, pena una posizione che verbalmente può sembrare anche raggiunga lo scopo, ma che praticamente è posticcia ed inutile. Non ha alcun senso, da un punto di vista pratico, pensare di poter amare dell’amore del discorso lucano e contemporaneamente rimanere entro i limiti dell’uguaglianza e della reciprocità; così come non ha alcun senso pensare di correggere la tendenza, connaturale alla logica dell’equivalenza, della giustizia a trasformarsi in calcolo utilitaristico integrandovi in una qualche misura l’economia del dono. Non esiste, e non può esistere, alcun amore giusto. Non esiste e non può esistere alcuna giustizia amorevole. 

 

È necessario, quindi, come effettivamente è continuamente fatto, optare o per la giustizia o per l’amore. È evidente che storicamente la prima è sempre, o quasi sempre, stata la favorita. Ed indubbiamente con ottime ragioni, reperibili lungo tutta la storia del pensiero. Ne richiamiamo qui due, che forse sintetizzano tutte le altre. La prima è che la giustizia è giusta. Può far ridere, ma è tutt’altro che una banalità. La giustizia, quanto meno in linea di principio o come obiettivo euristico, permette di creare una società giusta, nella quale si è certi che l’ideale dell’equa distribuzione è rispettato. Equa distribuzione che non riguarda solamente diritti, privilegi e doveri, ma anche ruoli e compiti, in una rigorosità proporzionale. La seconda è che la giustizia è più facile. Sembra, di nuovo, di essere di fronte ad un’assurdità: esser giusti è tutt’altro che facile. Ciò è abbastanza indubbio, ma è in ogni caso più facile, perché la giustizia risponde egregiamente e con naturalezza all’istinto umano di socialità, che sembra obbligare a stabilire un ordine. Ed un ordine giusto è l’ideale che si cerca. In poche e semplici parole: la giustizia è rassicurante.

 

Si è detto che la giustizia è più facile, ma più facile di cosa? Più facile di amare. L’amore, concepito come viene comandato nei passi evangelici poco sopra citati, è radicale, assoluto, totale e totalizzante. E se si vuole preferire l’amore alla giustizia non si può che abbracciarlo in tutta la sua forza destabilizzatrice: non ha alcun senso cercare di mantenerlo addomesticato, sotto forma di istanza che impedisca alla giustizia (distributiva) di trasformarsi in ciò che in fondo davvero è: calcolo utilitaristico, do ut des

 

Quello che rimane da chiedersi, allora, è: può l’amore, in tutta la sua ingiustizia e sovra-moralità, essere il fondamento di ogni agire, individuale e sociale? I fallimenti della giustizia, per quanto essa sia virtuosa, sono evidenti e continui ormai da secoli: perché, invece di cercare di salvarla in qualche astruso modo, non la si abbandona definitivamente trovando nell’amore ciò che essa non ha mai saputo dare? Al solo pensiero il terrore attanaglia le viscere, e una prospettiva omnicomprensiva torna a farsi seducente, eppure, se si riconosce l’insufficienza della giustizia, non rimane che attraversare questo pensiero: donarsi all’amore, e con l’amore donarsi. 

 

2 giugno 2022

 








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