Un intreccio fra etica, tecnologia e vulnerabilità

 

Che cos’è un dispositivo tecnologico e come opera? Secondo quali criteri e principi si sviluppa la sua interazione con l’essere umano? A partire da questi interrogativi, cercheremo di far emergere il concetto di vulnerabilità, strettamente intrecciata al rapporto fra etica e tecnologia.

 

di Lorenzo Carbone

 

R. Magritte, "La battaglia delle Argonne", 1959
R. Magritte, "La battaglia delle Argonne", 1959

 

Anzitutto, per inquadrare il problema è particolarmente significativa la distinzione operata da Adriano Fabris tra tecnica e tecnologia (si veda A. Fabris, Etiche applicate. Una guida). Con la parola tecnica si fa riferimento agli strumenti che prolungano e potenziano l’agire umano. In questo caso, l’uomo controlla dall’inizio alla fine il processo che comporta l’utilizzo di un certo strumento come può essere, ad esempio, un bastone o qualche altro arnese. Ciò consente di sviluppare gli scenari di una possibile applicazione di qualche cosa, trasformando un semplice oggetto in strumento. Inoltre, questo strumento si inserisce in un contesto più ampio di relazioni, dove esso serve ad uno scopo, al raggiungimento di un obiettivo. Nel caso del bastone, esso può essere utilizzato come sostegno durante la camminata oppure in quanto mezzo per cogliere un frutto situato ad un’altezza elevata. Ecco che, attraverso la capacità immaginativa nei confronti del mondo e l’operatività su di esso, il bastone da semplice oggetto si trasforma in strumento tecnico utilizzato dall’uomo per prolungare e potenziare il suo agire. 

 

Il dispositivo tecnologico si differenzia dallo strumento tecnico in quanto è capace di agire autonomamente rispetto al controllo umano, seppur entro certi limiti. Esso, infatti è in grado di autoregolarsi secondo una serie di procedure, ma non può determinare i criteri e i principi in base ai quali è stato programmato. L’apparato tecnologico, tuttavia, acquisisce un grado di autonomia sempre più consistente, così dà autoalimentarsi e interagire con altri soggetti agenti. È il caso, per esempio, della Google Car

 

« La tecnologia è in grado di sviluppare un agire che in buona parte risulta indipendente dall’agire umano e con il quale l’agire umano deve a sua volta fare i conti. Gli apparati tecnologici, soprattutto quelli più sofisticati come i robot, sono infatti capaci di interagire nell’ambiente nel quale svolgono le loro attività. Sono in grado, soprattutto, di prendere l’iniziativa, almeno in vista degli scopi per cui sono stati programmati. Ed è con tutto ciò che l’essere umano deve interagire. » (A. Fabris, Etica per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione)

 

Insomma, ciò che si vuole mettere in evidenza è il fatto che, quando parliamo di tecnologia, abbiamo a che fare con dispositivi, da un lato, capaci di agire con una certa indipendenza rispetto all’azione esercitata su di essi da parte dell’essere umano (ciò che, sostanzialmente, distingue il dispositivo tecnologico dallo strumento tecnico) e, dall’altro lato, interagiamo con apparati in grado di creare ambienti virtuali inediti, dove soggetti agenti, umani e non, si trovano in relazione. 

 

Nella nostra interazione con i dispositivi tecnologici occorre considerare due aspetti in particolare. Oggi siamo abituati a vivere in ambienti online, aperti grazie alla realtà virtuale nella quale siamo immersi, e ambienti offline, caratterizzati dalla realtà materiale nella quale viviamo. Passando da un ambiente all’altro continuamente e senza una riflessione critica a tal proposito, il rischio è di integrare e mettere sullo stesso piano ciò che, in realtà, è differente. La molteplicità di ambienti offerti grazie alle nuove tecnologie consente di sviluppare capacità un tempo impensabili e attivare una rete di relazioni potenzialmente infinita. Tuttavia, ogni potenzialità data dall’utilizzo delle tecnologie rischia di essere fraintesa se tendiamo a sovrapporre o confondere i diversi ambienti nei quali abitiamo.

 

Un altro aspetto da considerare riguarda la distinzione tra naturale e artificiale. Oggi questa differenza è molto sfumata. Pensiamo, ad esempio, agli impianti e ai trapianti che rendono possibile il miglioramento o addirittura la salvaguardia della vita umana. Tuttavia, è proprio grazie alla distinzione tra l’essere umano e la macchina che naturale e artificiale possono interagire tra loro. Ciò presuppone un certo spazio di autonomia da parte degli elementi caratterizzanti la relazione. 

 

Rispetto a queste situazioni, il problema chiave è legato al fatto che difficilmente ci interroghiamo sugli scopi e sulle conseguenze del nostro uso dei dispositivi tecnologici. Spesso li usiamo e basta, ma non possiamo accontentarci di questo comportamento. È necessario domandarsi che cosa cambia nelle nostre vite a partire dall’interazione con questi apparati e in che modo essi incidono sulle possibilità di pensare, sulle abitudini e sulle scelte che facciamo. 

 

« A partire da qui dobbiamo capire che cosa significa agire bene con essi (in riferimento agli apparati tecnologici), attraverso di essi, interagendo con essi, e giustificare le scelte che in queste relazioni costantemente compiamo. » (ivi, p. 43)

 

Seguendo il ragionamento di Fabris, possiamo osservare che la rete è una struttura connettiva che si espande producendo altre nuove connessioni. Anche l’essere umano è un essere in relazione. L’individuo si esprime attraverso la promozione di ulteriori aperture relazionali. Si rende così esplicito un criterio di orientamento per le nostre azioni, valido sia in internet che fuori: «sono buone, infatti, le relazioni che producono e promuovono altre relazioni» (ivi, p. 106). Ma come consentire una relazione etica tra i diversi ambienti, online e offline? Per farlo occorre rendere conto della responsabilità umana verso il contesto relazionale nel quale operiamo di volta in volta. Allo stato attuale delle cose si tratta di ciò che, in sostanza, distingue l’uomo dalla macchina. Mentre la macchina riconferma, ma non può discutere e mettere in questione la logica del contesto in cui agisce, l’essere umano è tale anche in base alla sua capacità di reinterrogarsi sempre di nuovo e ridefinire le regole del gioco. Da un punto di vista etico, ciò avviene tenendo presente la potenzialità o meno da parte delle tecnologie di promuovere fasci relazionali capaci di espandersi fra le molteplici trame della rete.

 

Umberto Boccioni, "Gli stati d'animo serie II" (1912)
Umberto Boccioni, "Gli stati d'animo serie II" (1912)

 

Le nuove sfide nelle quali siamo immersi tramite la rivoluzione digitale comportano la necessità di confrontarsi con una peculiarità costitutiva dell’essere umano: la vulnerabilità. Se, da una parte, attraverso le tecnologie si ampliano le capacità di azione dell’uomo, che intercettano nuove modalità di creare nodi relazionali sempre più espansivi nello spazio e nel tempo; d’altra parte, si accresce il rischio a cui si è esposti. 

 

« È proprio l’ambito tecnologico ad essere la principale fonte di vulnerabilità per il mondo, sino ai limiti della sua distruzione definitiva. Ciò ha condotto addirittura a parlare di ‘‘Antropocene’’, per indicare proprio l’era geologica in cui le attività umane hanno cominciato ad avere un impatto determinante nell’alterazione degli equilibri del pianeta. » (S. Dadà, Etica della vulnerabilità)   

 

La pervasività del rischio, che oggi assume una portata globale, esercita conseguenze direzionate oltre il tempo presente, con la possibilità di compromettere la stessa possibilità del futuro. Tant’è che lo stato di emergenza sembra diventare la nuova norma. Questa situazione ci pone di fronte a un paradosso: la capacità e la potenza umana aumentano di pari passo alla sua vulnerabilità, che mette a rischio il globo intero. L’uomo si trova così ad esercitare il suo potere, rendendo se stesso estremamente vulnerabile. La vulnerabilità, tuttavia, non è solamente connessa all’idea di ferita e danno. Essa esprime la sua istanza produttiva in quanto si rivela una proprietà della relazione, ciò che dà movimento e dinamicità al mondo, mettendo in evidenza la nostra reciproca interdipendenza. È a partire da questa prospettiva che è possibile esplicitare il legame tra vulnerabilità e responsabilità. Non siamo responsabili solamente di ciò che facciamo e delle sue conseguenze, ma anche di ciò che non facciamo e fa apparire l’altro come vulnerabile. Come sottolinea Silvia Dadà:

 

« Questo aspetto risulta particolarmente importante soprattutto oggi, in cui la tecnologia ci coinvolge sempre di più in una rete di relazioni in cui non possediamo il controllo sulle azioni: ciò che quindi oggi ci viene richiesto è di essere responsabili anche di ciò di cui non siamo responsabili. » (ivi, p. 63)

 

La vulnerabilità, quindi non è solamente esposizione all’offesa e alla sofferenza, ma anche una condizione condivisa che, costitutivamente, crea legame richiamandoci alla responsabilità verso l’altro: «un’assunzione di responsabilità che è singolare e comune allo stesso tempo e nella quale siamo sia soggetti che oggetti, in quanto il nostro destino è, mai come oggi, indissolubilmente legato a quello degli altri» (E. Pulcini, Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale).  

 

23 giugno 2022

 









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