Nello scenario di guerra sul suolo ucraino siamo stati in grado (e lo siamo ancora) di vedere in opera l’esercito russo, considerato da molti quale il più solido ed equipaggiato dopo quello americano. Tuttavia, almeno per ora, l’armata rossa pare aver deluso le aspettative sul suo conto: la prospettiva di una ‘guerra lampo’ auspicata da Putin non si è verificata non solo per l’eroica resistenza ucraina, ma anche per l’inaspettata inefficienza e disorganizzazione manifestata dai soldati russi.
di Michele Ciraci
In seguito all’invasione ucraina, è lecito porsi domande sulle effettive capacità dell’esercito russo: il mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati dal Cremlino sono veramente causa del dispiegamento di grandi quantità di truppe di leva, troppo giovani e non pronte per affrontare un conflitto armato? Oppure, all’interno della struttura militare russa vi è una reale incapacità, mascherata negli anni recenti dalla propaganda del Cremlino? E ancora, dopo le tragiche immagini di Bucha, è altresì opportuno porsi dei quesiti sull’umanità dei soldati di Putin e, oltretutto, su quanto questi crimini si potessero prevedere.
Le risposte ai primi due quesiti potrebbero essere ambedue affermative, però, se la prima si può basare sulla mera soggettività individuale, data l’impossibilità di verificare quali siano le forze dispiegate a causa della mancanza di informazioni neutrali in un periodo di guerra così caldo, alla seconda, invece, si può rispondere avvalendosi di informazioni concrete, accessibili grazie allo straordinario lavoro condotto da diversi giornalisti negli anni precedenti al conflitto attuale. In particolare, la giornalista russa Anna Politkovskaja, ha pagato con la vita la sua scelta di rivelare ai suoi concittadini, ma anche a noi occidentali, il vero volto di Vladimir Putin e del paese da lui governato nel suo La Russia di Putin, oltre che nei suoi articoli per Novaja Gazeta. Proprio nel suo libro, vi è una descrizione accurata e sincera dell’esercito russo, presentato quale una struttura chiusa, all’interno della quale «la vita è una vita da schiavi». Infatti, all’interno di quest’ultimo vige una vera e propria anarchia: gli ufficiali hanno il diritto di fare ciò che vogliono dei soldati semplici e di tutti coloro che sono di grado inferiore, in qualsiasi momento, e restare comunque impuniti. E il presidente, peraltro Comandante Supremo dell’Esercito, cosa fa per limitare un tale abuso di potere da parte della quasi totalità degli ufficiali? Assolutamente nulla. Del resto da Putin, un ex ufficiale, non ci si poteva certamente aspettare un tentativo di porre un freno al potere dei suoi colleghi. Dal canto suo, il predecessore di Putin, ossia El’Cin, provò a ridimensionare lo status degli ufficiali; tuttavia, abbandonò ogni genere di tentativo dal momento che lo Stato Maggiore esercitò forti pressioni e il suo potere cominciò ad essere in discussione. Ragion per cui, ci troviamo in una situazione in cui gli ufficiali hanno totale carta bianca, e fanno di tutto per dimostrarlo: solo nel 2002, le Forze Armate hanno perso più di cinquecento uomini, non per la guerra, bensì per le percosse inflitte ai soldati.
Nelle guerre cecene, in special modo nella seconda, la brutalità degli ufficiali nonché l’incompetenza dell’esercito in generale si sono manifestate in tutta la loro grandezza. In una lettera del 24 gennaio del 2000 inviata ai genitori, il tenente russo Pavel Levurda, coinvolto nel secondo conflitto in Cecenia, scrive così: «L’ufficiale che comandava il plotone prima di me è saltato su una nostra granata. E quando mi sono presentato, il comandante della mia compagnia ha preso male il mitra e gli è partita una raffica. I colpi si sono conficcati a terra a pochi centimetri da me. È un miracolo che non mi abbia preso» (La Russia di Putin). Levurda morirà in battaglia nei giorni seguenti, ma la bara con i resti del tenente non giunse mai a casa dei genitori. A tal proposito, Anna Politkovskaja, sempre nel suo La Russia di Putin, affermò che «nell’esercito manca un sistema preciso di controllo e di responsabilità nei confronti delle famiglie [...]. Gli unici fortunati sono quelli che possono contare su un comandante che sia "di suo" una brava persona e che perciò non tolleri che si dimentichino dei soldati sul campo».
Per non parlare, poi, degli innumerevoli crimini di guerra compiuti dai soldati russi, per la maggior parte ufficiali, ai danni della popolazione cecena. Difatti, torture e stupri erano all’ordine del giorno e, cosa ancor più grave, tali azioni restavano completamente impunite. Solo in alcuni casi, più unici che rari, i responsabili venivano legittimamente considerati per quel che erano e condannati per i loro crimini. L’esempio più noto è quello dell’ex colonello russo Jurij Budanov, responsabile, nella notte del 26 marzo del 2000, del rapimento ed assassinio della giovane cecena El’za Kungaeva. In seguito a tre anni di procedimenti giudiziari di dubbia neutralità e perizie psichiatriche realizzate ad hoc per scagionare Budanov e, al contempo, mantenere sana l’immagine dell’esercito russo, finalmente si giunse ad un evento inaspettato: il colonello, che aveva svolto tutte le sue azioni con la convinzione che quest’ultime rimanessero impunite, il 25 luglio 2003 venne condannato a dieci anni di carcere duro. Per la sua unicità, questo evento fu considerato come una vittoria, ed è certamente legittimo; tuttavia, è doveroso tener conto del fatto che per reati di tale entità, Budanov meritava più di trent’anni di carcere. Ad ogni modo, tornato in libertà agli inizi del 2009, l’ormai ex colonello fu vittima di un’imboscata nella quale rimase ucciso, il 10 giugno 2011.
Solo dopo l’invasione ucraina, l’opinione pubblica e i leader occidentali si sono svegliati dal loro lungo stato di letargo: un periodo di sonnolenza che ha fatto sì che i crimini compiuti dalla Russia di Putin non fossero neppure menzionati e tirati in ballo nelle discussioni internazionali. Al contrario, invece di porre l’attenzione su tali questioni, alcuni leader hanno fatto di tutto per dimostrare il loro appoggio al presidente Putin, ognuno a modo proprio: chi indossando una maglietta ritraente un giovane Putin del KGB, chi additandolo come “difensore dei valori europei e dell’identità cristiana”. Non solo, vi è addirittura chi ha stretto una solida amicizia con il capo del Cremlino, foraggiata da feste in ville e yacth di lusso, nonché da asserzioni non poco discutibili, del tipo: “Putin è un dono di Dio”. Salvo, poi, dopo l’invasione, aver manifestato tutta la sua delusione in merito alle azioni militari da parte dell’amico intimo, dimenticando, però, l’operato del presidente russo negli anni corrispondenti al rapporto di amicizia: quasi a voler intendere che fino a che le azioni criminali del suo regime si fossero limitate ai confini russi, o che quantomeno non avessero toccato il suolo europeo, tutto andava bene. Dimostrando, in tal modo, ipocrisia e mancanza di onestà intellettuale, così come gli altri leader succitati. Ma alle caratteristiche poco onorevoli dei nostri leader, avremmo dovuto aver già fatto un bel callo. E sono contento di aver sviluppato questo tipo di callo, dal momento che vi è molta gente che, sottoposta alle volontà del tanto ammirato Putin, ne ha sviluppati di ben peggiori.
30 maggio 2021
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