La disoccupazione giovanile è un problema serio, che forse oggi è passato in secondo piano a causa della pandemia e del conflitto rosso-ucraino che ci hanno colpito. In particolare, proprio il nostro Belpaese sembra quasi essersi dimenticato di tutti quei giovani adulti in cerca di occupazione.
di Riccardo Nalesso
Quante volte nella nostra vita ci siamo sentiti dire quella frase, tanto sintetica quanto maledettamente efficace, in grado di stendere al tappeto tutte le nostre aspettative peggio di un montante di Cassius Clay, la quale risuona più o meno così: «Mi dispiace, ma non sei ancora pronto»? Tante, forse fin troppe. E sapete qual è il periodo in cui quelle parole ci vengono ripetute più volte? Purtroppo da giovani, mentre si cerca di affacciarsi al mondo del lavoro. Andando infatti ad analizzare la situazione nel nostro Paese, i dati ci mostrano come essa sia preoccupante e come sembri non migliorare, nonostante nel mondo, ma anche nella stessa Europa, non manchino esempi virtuosi.
Per far capire veramente cosa stia accadendo in Italia conviene snocciolare qualche statistica per i più diffidenti. Guardando i numeri del 2019, fino ad arrivare a quelli del 2020, leggiamo che un giovane su tre è disoccupato, per un totale di due milioni di persone, che va a costituire un tasso di disoccupazione giovanile (quindi per coloro che hanno tra i 15 e i 24 anni) del 29,4%. Questo aumento di percentuale, il quale ci è costato la non troppo invidiabile terza posizione in Europa (dietro solo a Grecia e Spagna), riguarda anche e soprattutto i laureati, dei quali solamente poco più del 50% riesce a trovare un impiego a tre anni dalla laurea, mentre nel resto dell’Unione Europea siamo attorno all’80%. Insomma, in parole povere, la disoccupazione giovanile in Italia è doppia rispetto a quella europea.
Questo quadro che viene a crearsi porta ad una diretta conseguenza: un numero crescente di giovani italiani che abbandonano l’Italia per cercare nuove opportunità all’estero. Perché, d’altronde, che vantaggi porta rimanere in un luogo dove non è possibile mettere alla prova le proprie qualità o semplicemente fare esperienza? Infatti, guardando una classifica stilata nel 2018 in cui vengono analizzate ben 64 nazioni, che si basa sulle opportunità di lavoro e sull'indice di soddisfazione dei giovani, l’Italia è solamente trentaduesima, a evidenziare il malcontento che si respira proprio tra coloro che un giorno dovrebbero prendere in mano il nostro Paese. A dominare nelle prime posizioni invece vi sono i Paesi scandinavi, ma anche la Svizzera, i Paesi Bassi, l’Australia e la Germania.
Del timore per potenziali attriti tra generazioni abbiamo testimonianza fin dall’antichità, quando per esempio Platone dipingeva così un possibile scenario di deriva democratica nella Repubblica:
« Oggi il padre teme i figli. I figli si credono uguali al padre e non hanno né rispetto né stima per i genitori. Ciò che essi vogliono è essere liberi. Il professore ha paura degli allievi; gli allievi insultano il professori. I giovani esigono immediatamente il posto degli anziani. »
La domanda che però sorge quasi spontanea è: perché gli altri sono stati in grado di trasformare questa forza ribelle nel motore principale della propria economia, mentre noi no? Cos’hanno fatto di diverso per arrivare ad ottenere quei risultati?
Un'ipotesi di risposta potrebbe riguardare la fiducia. Proviamo ad analizzare cosa non sta funzionando all’interno della nostra penisola. Volendo tralasciare il cosiddetto gap generazionale, ovvero la disparità che c’è tra gli stipendi dei lavoratori giovani rispetto ai colleghi senior (che qualcuno può ritenere anche giusto, in quanto si può pensare che il dipendente più anziano sia in grado di eseguire le richieste in maniera migliore, vista la sua maggiore esperienza), i punti principali su cui soffermarsi sono sia la crescita a rilento della produttività del Paese e soprattutto il mito degli studenti “pronti all’uso”.
Il primo problema riguarda appunto il PIL dell’Italia, che tra il 2000 e il 2017 ha fatto registrare un aumento di valori reali dell’appena 2,6% rispetto al 25,9% della media europea, di cui risente di pari passo l’occupazione. Insomma, detto banalmente, meno crescita comporta meno posti di lavoro, sia per la gente in generale sia per coloro che hanno concluso gli studi.
Il secondo invece interessa il vecchio ostacolo della transizione scuola-lavoro. Infatti l’Italia è uno dei pochi Paesi UE in cui a un laureato, ma anche uno studente appena uscito da un istituto professionale o tecnico, occorre diverso tempo (più di un anno) per farsi assumere. Questo accade per via del mancato dialogo tra istruzione e mondo aziendale: quest’ultimo infatti richiede ai neolavoratori di essere già in possesso di tutte le qualifiche richieste dalle aziende, alle quali però nessuno li ha preparati. Detto ciò si ritorna al punto: la fiducia. Perché, infatti, gli altri Stati, a differenza del nostro, si fidano della propria gioventù e lo mostrano investendo su di essa e accompagnando i giovani nell’intero percorso di formazione al lavoro in maniera accurata. A sostegno di questa tesi troviamo gli esempi di Germania e Norvegia.
In Germania vengono spesi 5 miliardi di euro nel “supporto all’impiego”, a differenza dei nostri 200 milioni, ai quali si aggiungono altri 11 miliardi indirizzati ai servizi per l’impiego. Queste cifre permettono ai tedeschi di mantenere in piedi il loro programma di alternanza scuola-lavoro, iniziato nel 1969, che dà la possibilità di intraprendere dai 16 anni in poi un percorso di formazione professionale sia teorica sia pratica, con una divisione equa tra ore sui banchi e tirocini in azienda, che ha contribuito ad abbassare la disoccupazione giovanile tedesca al 6,2%. Considerato questo, possiamo capire come mai il nostro sistema duale non possa reggere il confronto.
La Norvegia è il maggior produttore di petrolio dell’Europa occidentale. Per legge però non può spendere più del 4% di ciò che ricava dalle estrazioni, così la restante parte va nel fondo sovrano nazionale, il più ricco del mondo. Di questo denaro, dal 2013 ad oggi, più di 221 miliardi sono stati utilizzati a sostegno di economia, occupazione, istruzione; mentre l’enorme quantità restante non viene toccata perché destinata alla tutela e alla costruzione del benessere finanziario delle future generazioni. Questo “giocare in anticipo”, investendo su coloro che possono continuare questo trend positivo, ha permesso ai millennials norvegesi di stare meglio di anno in anno dal punto di vista socio-economico. Ad oggi infatti, nel Paese scandinavo, il primo stipendio atteso dai neolaureati è in media di 4.800€ al mese.
È quanto mai necessario, ed urgente, prendere spunto da questi modelli, in modo da iniziare a valorizzare appieno le risorse fisiche e mentali dei giovani che il nostro Paese offre, per giovarne poi nel futuro più prossimo. Per dirla con le parole che Giacomo Leopardi annotò nello Zibaldone il 15 giugno 1821:
« L’ardore giovanile è la maggior forza, l’apice, la perfezione, l’ἀκμή [acme] della natura umana. Si consideri dunque la convenienza di quei sistemi politici, nei quali l’ἀκμή dell’uomo, cioè l’ardore e la forza giovanile, non è punto considerata ed è messa del tutto fuori del calcolo […]. »
1° maggio 2022
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