Essere pressato. Oppresso. Qualche volta soppresso. È questo quanto aspetta a un giovane diverso dagli altri, appena dimostra di avere un quid in più. Si pensi, per di più, che tutto questo accade principalmente nella scuola, istituzione che si è sempre dipinta come trait d’union tra il sapere e le generazioni future: ciò non può che far rimuginare sulla società della quale ci troviamo permeati ogni giorno.
di Leonardo Guglielmini
Parlando di pressione sociale, ciò che ci viene più usuale concepire è un naturale sprone all’omologazione (intendendo, con questo termine, l’equiparazione al livello degli altri) verso il negligente e l’inadempiente che, in un modo o nell’altro, non rientra nei canoni arbitrariamente imposti della società contemporanea, quali l'importanza del conseguimento di buoni risultati a scuola o la superiore priorità attribuita agli studi rispetto ad altre attività.
Eppure questo fenomeno è, paradossalmente, più incessante e deleterio in chi, invece, supera in positivo i sopracitati canoni: l’individuo che risulta migliore ed eccelle è soggetto a una pressione molto maggiore se paragonato a chi ritiene, volontariamente o meno, più consono vivere nella quiete dell’omologazione.
Sin da piccole, le persone che si distinguono in positivo vengono immediatamente ammirate da chiunque le circondi e indicate come individui diversi, da cui aspettarsi grandi cose.
Crescendo, conseguentemente, saranno abituate a inseguire unicamente risultati eccellenti e superiori a qualsiasi altro, accrescendo in loro la stima personale di avere, effettivamente, qualcosa in più.
L’azione deleteria di questi atteggiamenti non è qualcosa di così irreale e astratto.
Questo quid in più, spesso, non viene considerato come qualcosa di pienamente positivo e di cui essere ben consapevoli; bensì, come uno strumento da sfruttare e stimolare all’inverosimile, portando uno studente a studiare sempre di più oppure un giovane impiegato a lavorare strenuamente, cercando di soddisfare traguardi personali che diverranno presto, a forza di alzare l’asticella, utopici e irraggiungibili.
Quando ci si abitua (e si viene abituati) al raggiungimento di obiettivi ambiziosi con relativa facilità, si parte, per ogni azione svolta, da una sostanza, come quella teorizzata da John Locke nel Saggio sull’intelletto umano (1690), altrettanto pretenziosa.
Con “sostanza”, il filosofo significava il sostegno supposto ma sconosciuto di quelle qualità che scopriamo esistenti e che sembrano insite in un termine generale: si, legga, in questo contesto, come la base o il punto di partenza dal quale si intende cominciare la nota scalata verso i propri obiettivi.
Secondo l’individuo, di conseguenza, la normalità (ossia la base da cui partire) non consisterà più unicamente nello svolgere l’azione necessaria, ma nell'eccellere nella stessa, dimostrando di aver mantenuto il qualcosa in più che lo distingue e di non averlo smarrito durante il suo percorso di crescita.
La domanda, a questo punto, sembra sorgere spontanea: qual è il fine del giovane prodigio nella società odierna?
Se, come emerge dalla teorizzazione di Giacomo Leopardi nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (1824), il fondamento e lo scopo della società moderna è quello di soddisfare i cosiddetti “bisogni secondi” dell’uomo – ovvero ottenere e consolidare la stima degli altri nei nostri confronti, poiché è la reazione della società rispetto le nostre azioni a decretare il successo o il fallimento (attraverso il cosiddetto “plauso” o meno) –, allora risulta logico come ognuno svolga ogni azione in funzione degli altri, per ottenere il consenso altrui.
Nel caso dell’individuo che venga ritenuto superiore agli altri, il plauso della società risulterà difficilmente ottenibile in modo continuativo poiché, alzando sempre di più l’asticella della sostanza dalla quale partire, sarà di conseguenza sempre più difficile superare sé stessi e convincere gli altri di essere migliori di quanto ci circonda.
Il preconcetto della persona migliore degli altri, principalmente nell’ambiente scolastico e lavorativo, viene spesso travisato, creando l’ideale dell’uomo perfetto e infallibile. Quest’ultimo, non appena cada in errore o incappi in una qualsivoglia défaillance, viene immediatamente colpito da espressioni di stupore e di scherno da parte di chi gli è attorno, creando nella persona in questione un senso di profonda malinconia e una sensazione di completo fallimento, perché incontra, magari per la prima volta in tutta la sua vita, un momento nel quale non ha saputo ricevere il completo plauso e unanime consenso di chi lo circonda.
Conseguentemente, si provi ad immedesimarsi nello studente modello, abituato ad eccellere in qualsiasi materia trattata in ambiente scolastico, nel momento in cui riceve, per la prima volta, una valutazione inferiore alle prospettive.
A chi si addosserebbe la colpa di tale azione inaudita? Quanto valgono le aspettative precedenti alla valutazione?
Quanto, effettivamente, ha importanza quella valutazione negativa nella vita dello studente?
La principale criticità della pressione sociale è, logicamente, l’alterazione del peso che le azioni hanno sulle vite degli uomini.
A causa dell’influenza degli altri, si potrebbe essere portati a credere che un fatto infimo rispetto alla durata e alla complessità della vita, come una valutazione scolastica, sia la predominante motivazione per la quale ci si dovrebbe disperare fino al punto di svalutarsi: non è forse paradossale che coloro che hanno qualcosa in più arrivino al punto di credere di essere inferiori agli altri?
Provando ad esemplificare: il ragazzo sempre abituato ad ottenere valutazioni più che buone, fin da piccolo ritenuto uno dei migliori, al livello di un primus inter pares, dopo un “cinque” ottenuto in una verifica, arriva al punto di disperarsi e ritenersi una nullità. Qualcosa che, purtroppo, accade sempre più spesso tra i nostri banchi e le nostre cattedre.
Si noti bene: non perché questi non abbiano più quanto avevano, ma unicamente a causa della pressione esercitata dalle altre persone.
La soluzione, tuttavia, non è così semplice come si potrebbe pensare – ovvero il sempiterno “non ascoltare gli altri” – poiché il modo in cui la società valuta quanto viene pensato e svolto dalle persone che la compongono è ciò che regola la vita nel mondo moderno: si pensi, ad esempio, alla democrazia, basata sul confronto tra idee spesso contrapposte o l’amministrazione della giustizia, fondata su leggi create che rispecchino al meglio quanto ritenuto corretto riguardo al rapporto tra individui, oltre al fondamentale rispetto delle libertà e delle volontà altrui.
Si potrebbe concludere dicendo che quanto accade tutti i giorni a chi vive (o sopravvive) in situazioni come quella qui esaminata, sia da ritenersi il fallimento della società stessa.
Quest’ultima, per definizione, citando l’interpretazione data da Leopardi nel Discorso, è «convitto degli uomini per provvedere scambievolmente ai proprio bisogni, e difendersi da’ comuni danni e pericoli», ossia una società formata per fronteggiare in modo comune le avversità e per progredire come uno dal molteplice (come, per altro, Platone riteneva più efficiente e corretto vivere, secondo quanto teorizzato nel suo ideale dialogo tra Socrate e lo straniero di Elea nel Parmenide).
Basandosi su questa definizione, quindi, l’individuo con il quid in più avrebbe il diritto di essere incluso e sostenuto nei suoi bisogni, oltre che difeso dai danni a lui arrecati: l’unico problema è che, come spiegato, i danni sembra crearli la società stessa.
Perché, dunque, qualcuno bramoso di conoscere sempre di più e predisposto dalla natura per quel fine non dovrebbe finire per deprimersi a causa obiettivi sempre più difficili da perseguire, unicamente per soddisfare più gli altri che sé stesso?
Perché non può vivere la sua vita non tanto come un dovere ma, nei termini in cui la teorizza Friedrich Nietzsche nella Gaia scienza (1882), come esperimento di chi è volto alla conoscenza – ritenendo la vita di tutti i giorni un grande cantiere, dove cercare di conoscere sempre di più, sperimentando come in un grande laboratorio?
Semplicemente perché si fanno pesare in modo decisivo gli altri nelle nostre scelte, quando in realtà andrebbero prudentemente presi in considerazione, dato che le emozioni degli altri sono fondamentali per capire se facciamo il bene o il male.
Un fallimento non dovrebbe portare all’autocommiserazione, ma anzi, dovrebbe fungere da sprone per andare avanti e migliorare ancora sé stessi: quale migliore occasione di eccellere se non quella di dimostrare quanto si è bravi a rialzarsi dopo una caduta?
Per quanto una routine possa essere auspicabile nelle nostre vite, in modo da cercare di prevedere ogni nostra probabile caduta al fine di evitarla, comunque la vita si rivela come un continuo alternarsi di vicende che possono, scambievolmente, essere positive o negative. Ogni difficoltà e ostacolo contro cui dobbiamo lottare tutti i giorni celano uno spunto che può alimentare il nostro miglioramento personale.
Vivere è un continuo di alti e bassi, sì che l’unica soluzione per vivere in modo sereno e volto al miglioramento è ricordare che tutto il percorso in salita che si svolge, soprattutto quello per ricominciare da dove si è sbagliato, è utile e funzionale al nostro essere, poiché è dalle difficoltà che si diviene e si plasma veramente la personalità.
10 marzo 2022