Ci meritiamo le disuguaglianze?

 

C’è un principio che stabilisce quanta ricchezza ci meritiamo. Se il mondo ne avesse contezza, si vedrebbe per quel che è: insensato fino al ridicolo.

 

Illustrazione di Christine Roy

 

Non bisognerebbe tassare le fatiche imprenditoriali, le ore ulteriori di lavoro, le energie spese per coltivare grandi idee, visioni, sogni. Più sei stato lì sul pezzo, tutto volontà e genialità, o magari tutto testardaggine e tenacia, forse ricolmo di stralunata passione – insomma, più sei riuscito a distinguerti da ciò che è comune e più hai ottenuto, più ti vorrebbero tassare, disincentivare, toglierti quel che ti sei meritato; e te lo sei meritato – perché le tue azioni sono state le più meritevoli.

Così si dice. E così si ha ragione. Quelle ore che sono le ennesime, quelle notti che la nostra idea e il nostro obiettivo ci rapiscono dalla media, dal solito, dalla ripetizione – quelli sono i momenti che valgono, più di tutti, e reclamano di essere valorizzati. Ore, energie, stress vanno riconosciuti, e ricompensati adeguatamente; tutto ciò che è di più, va premiato e pagato di più. Certamente non di meno.

Per questo – se ne fa conseguire – non bisognerebbe tassare i grandi patrimoni; per questo la flat tax premierebbe il merito: a chi fa di più non dovrebbe essere tolto proporzionalmente di più con una tassazione che aumenti progressivamente, abbattendosi su quanto di eccezionale si è fatto.

Ma questa deduzione è falsa, perché è falsa la premessa implicita: che i grandi patrimoni costituiscano il guadagno meritato proporzionalmente alle ore, alle energie, allo stress impiegato – rispetto a quello dagli altri. I grandi patrimoni mostrano come il principio sia ignorato, negato.

Riconoscerlo è facile, facilissimo. Anche se, al momento, non nel dettaglio. Questa mancanza è ciò che rende così profondamente ingiusta la società globalizzata del XXI secolo. Se questo fosse il principio, tutto il nostro sistema sociale ed economico dovrebbe prodigarsi per individuare un insieme (anche complesso) di parametri che sia in grado di riconoscere a ciascuno ciò che gli spetta. Ma non lo fa.

Il nostro sistema sociale ignora il principio meritocratico della proporzione alla base, per poi introdurre una sua versione stravolta – quella della tassazione progressiva –, che non fa che negarlo ulteriormente: perché, appunto, più si fa, meno si dovrebbe essere tassati.

Il riconoscimento della sua negazione sta nei dati sulle disuguaglianze, sempre più noti, chiari, inequivocabili. Oxfam spiega:

 

« Se avessi risparmiato 10.000 dollari al giorno a partire dalla costruzione delle piramidi egiziane, oggi avresti un quinto del patrimonio medio dei 5 miliardari più ricchi. »

 

Il nostro principio meritocratico è così ridicolizzato con l’umiliazione di questa sconfinata sottrazione di ricchezza.

Ecco un’altra proporzione assurda, che mostra come la proporzione meritocratica non sia tenuta in alcuna considerazione:

 

« Se tutti si sedessero sulla propria ricchezza sotto forma di una pila di banconote da 100 dollari, la maggior parte dell'umanità sarebbe seduta al suolo. Una persona della classe media di un Paese ricco si siederebbe all'altezza di una sedia. I due uomini più ricchi del mondo sarebbero seduti nello spazio. »

 

Ricordando banalmente che una giornata è composta di 24 ore, per quanto si possa lavorare per più ore e spendendosi all’inverosimile per ciascuna di quelle ore, come è possibile che il contributo di tempo, energia e stress possa essere riconosciuto superiore di cinque, dieci, decine, centinaia, migliaia di volte? Se si lavorassero 16 ore invece di 8, si raddoppierebbe; se a quelle ore si calcolasse la fatica delle seconde 8 ore, si potrebbe grosso modo triplicare il riconoscimento; se il lavoro fosse particolarmente spossante o stressante, per un lasso di tempo limitato e necessario lo potremmo pure quadruplicare. Vogliamo ulteriormente onorare l’eventuale genialità, capacità, abilità, competenza, abnegazione? Sia pure. Tre-quattro volte la media e un premio ulteriore? Sì, agli eccezionali, riconoscimenti eccezionali.

Cosa potrebbe invece giustificare retribuzioni superiori o di molto superiori a quelle finora tratteggiate – cioè quanto accade ordinariamente nella nostra società in una tendenza che perdura da anni?

 

 

Nel nostro Paese, negli ultimi 12 anni, lo stipendio dei top manager è salito vertiginosamente, fino a diventare anche 649 volte lo stipendio di un operaio, che è invece sceso del 4%.

Gli Stati Uniti, presunti campioni di democrazia e possibilità meritocratiche, invece, dal 1978 al 2018, hanno visto crescere del 940 per cento le remunerazioni dei grandi amministratori delegati, mentre il salario dei lavoratori è cresciuto dell’11,9 per cento.

Sono proporzioni sconcertanti, ma accettate, poiché le ragioni, le giustificazioni, i princìpi di fondo non sono indagati, discussi, contestati, se non raramente e da sparute minoranze, che rimango oggi isolate. I grandi partiti politici ignorano completamente la questione e sono responsabili della direzione nella quale il mondo continua.

Ma non solo sono sconcertanti queste proporzioni, ossia le disuguaglianze ingiustificabili che la nostra società crea, ma anche la miseria che questa tendenza genera.

Presentando il Rapporto 2022 dell’Inps, il suo presidente, Pasquale Tridico, ha spiegato che «un lavoratore su quattro guadagna meno dei 780 euro del reddito di cittadinanza». E nel rapporto si legge:

 

« La diseguaglianza nei redditi, oltre che essere aumentata, è pervasiva e attraversa tutte le dimensioni di genere, di età, di cittadinanza, di territorio. »

 

Date le disuguaglianze enormi, abissali, il nostro principio indica con chiarezza che è insensato abolire il reddito di cittadinanza per spronare al lavoro; al contrario, prescrive di dare di più – molto di più – a chi guadagna così poco e di togliere a chi guadagna immeritatamente.

In questo senso il reddito di cittadinanza non solo consente la sopravvivenza, ma contribuisce a far sì che le retribuzioni proposte non siano sfacciatamente al ribasso.

Quel che per lo più la nostra società asserisce è il contrario del principio proporzionale della meritocrazia: togliamo quel poco che i poveri hanno, così da spronarli al lavoro; per spronare i ricchi al lavoro dovremmo dare loro ancora di più.

Lo osservava già il 4 febbraio 1982, l’economista John Kenneth Galbraith, sintetizzando ironicamente la politica economica neoliberista, segnatamente quella reaganiana, in un articolo apparso sulla «New York Review of Books»:

 

« I poveri non lavorano perché hanno un reddito troppo alto; i ricchi non lavorano perché non è abbastanza alto. Espandi e rivitalizzi l’economia dando di meno ai poveri e di più ai ricchi. »

 

Il punto è invece proprio questo: chi fa di più deve certamente ricevere di più, sempre di più, progressivamente, per incentivare il riconoscimento del merito – tenendo però conto di quanto è oggi ignorato: le ore, le energie, lo stress di chicchessia non possono superare di molto, spropositatamente, quelle di qualsiasi altro.

Invece, di contro a queste presunte politiche motivazionali, le disuguaglianze crescono e, con esse, anche la povertà, sempre più allarmante. Secondo i dati Eurostat il rischio di povertà in Italia è cresciuto anche nell’ultimo anno, arrivando a coinvolgere il 20,1 per cento della popolazione. Per povero si intende chi percepisce un reddito inferiore al 60% di quello medio disponibile, anche se si dovrebbe considerare misero; la povertà riguarda un quarto degli italiani:

 

« Se si guarda anche all’esclusione sociale, ovvero non solo alle famiglie con un reddito inferiore al 60% di quello medio ma anche a quelle che hanno difficoltà ad avere beni e servizi come ad esempio una casa adeguatamente riscaldata e un pasto proteico ogni due giorni, e all’intensità lavorativa, le persone in difficoltà superano i 14,83 milioni, pari al 25,2% della popolazione. »

 

Un dramma che si acuisce, se si considera che a trovarsi in questa condizione è il 31,6 per cento dei bambini.

Ma non basta: tra chi si trova in difficoltà economia ci sono anche coloro che un lavoro lo hanno; e sono in aumento dal 10,8 per cento del 2020 all’11,7 per cento del 2021.

Niente di che stupirsi, stando ai dati Istat secondo cui un lavoratore su tre guadagna meno di mille euro al mese (lordi). Si moltiplicano le testimonianze raccontano di uno sfruttamento spietato, che giungono fino a quella forma estrema che è il caporalato. Magari qualche imprenditore comincerà ad avere il sentore che sia stia esagerando spudoratamente e, come Alberto Bertone, presidente e amministratore delegato di Acqua Sant’Anna, penserà: «noi imprenditori dovremmo aumentare gli stipendi altrimenti prima o poi ci saranno guerre civili».

 

Queste statistiche non fotografano una congiuntura, ma una tendenza che perdura dagli anni Ottanta del Novecento. In Italia dal 2005 al 2021 il numero di persone che vivono in povertà assoluta è triplicato, rileva ancora l’Istat. Mentre, secondo un’Indagine sui bilanci delle famiglie di Banca d’Italia,

 

« la ricchezza media posseduta dal 5 per cento delle famiglie più ricche è aumentata di oltre il 20 per cento rispetto al 2016, sospinta dall’aumento del valore delle attività finanziarie, dalla crescita del risparmio e dall’incremento delle attività reali in aziende. »

 

Ecco che tanta parte della politica e dell’opinione pubblica riesce perfino a saltare a piè pari queste disuguaglianze abissali, poiché non riesce a vederle come proporzionalmente immeritate nella loro quasi totale interezza, come un quel vero e proprio furto accettato e legalizzato; per concentrarsi assurdamente sulla mancanza di merito da parte di chi riceva un reddito senza lavorare rispetto a chi ne riceva uno basso lavorando.

Anche in questa congiuntura di eccezionale difficoltà, seguita alla pandemia e all’inflazione energetica, come se non bastasse, il governo italiano con Draghi (ma anche quello britannico con Truss  con tagli alle tasse così squinternati da dover ritornare sui suoi passi – e quello francese con Macron, per stare ai nostri vicini) ha pensato di aiutare con una riduzione delle tasse principalmente le fasce benestanti della popolazione, facendo crescere ancor più le disuguaglianze. Lo sottolinea così Tomaso Montanari in Eclissi di Costituzione:

 

« Un regalo ai benestanti: secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, per esempio, le famiglie dei dirigenti risparmieranno in media 368 euro all’anno, mentre agli operai ne andranno solo 162. Il risparmio medio annuo per i redditi tra i 42.000 e i 54.000 euro sarà di 765 euro. Al 3,3 per cento dei contribuenti più ricchi andrà ben il 14,1 per cento dei sette miliardi del taglio fiscale, dal quale non avrà invece alcun beneficio il 20 per cento rappresentato dalle famiglie più povere. »

 

È certamente scandaloso che chi oggigiorno più ha, più riceva. Tuttavia il punto cruciale è un altro: già tutto il mondo, anche quello democratico e liberale, che si vanta di se stesso e ciancia di fine della storia, è costitutivamente uno scandalo, da capo a piedi, negatore di quell’unico principio che distribuisce legittimante, dicendo: ricevi quel che ci metti; le energie che spendi corrispondano al tuo guadagno. Invece una minoranza riceve quel che sottrae agli altri, alla stragrande maggioranza degli abitanti di questo mondo, tutti ignari di questo principio, di questo diritto universale fondamentale.

Finché non ne avremo contezza, consentiremo sia violato, impedendo qualsiasi possibilità per il profilarsi di un mondo giusto.

 

6 ottobre 2022

 








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