La genialità è il fiore che sboccia da un peculiare talento debitamente coltivato o è un frutto che matura in anni di totale devozione (che altro non è, se non ossessione) a ciò in cui si aspira ad essere geniali?
di Fausto Trapletti
Il presente articolo vuole essere un’indagine circa i rapporti che intercorrono fra genialità e ossessione. La causa scatenante le riflessioni che hanno portato alla stesura di questo articolo è un brano del testo Problemi magnifici di Massimo Adinolfi. Il libro, in generale, tenta di legare alcuni dei più classici problemi filosofici agli scacchi, alla loro storia e alle vicende dei suoi protagonisti. Ad un certo punto è richiamata la vicenda del signor Polgar e delle sue tre figlie: lui, psicologo ed eccellente scacchista, crebbe la propria prole immergendola fin dalla culla negli scacchi, nella convinzione che la genialità sia un risultato e non un dono. Si può dire che in una certa misura l’esperienza gli diede ragione, constatando che una delle tre sorelle, Judit, ha raggiunto i più alti livelli assoluti (ovvero non tenendo conto delle differenze di genere) nel gioco. A prescindere dalle considerazioni di Adinolfi, dalla vicenda reale sorge spontaneamente la domanda: la genialità è il fiore che sboccia da un peculiare talento debitamente coltivato o è un frutto che matura in anni di totale devozione (che altro non è, se non ossessione) a ciò in cui si aspira ad essere geniali?
Per poter procedere con ordine, è necessario muovere da una explicatio terminorum, che chiarisca il significato qui considerato delle parole protagoniste della riflessione: genialità e ossessione (con i loro derivati).
Con “ossessione”, come già si accennava, si vuole intendere la totale dedizione nei confronti di qualcosa. Si espunge, quindi, dal termine una connotazione aprioristicamente negativa, che comunemente lo affligge: non si vede nella consacrazione della propria esistenza ad uno ed unico ambito del reale qualcosa di necessariamente condannabile.
Con “genialità” il lavoro definitorio sarà assai più complesso: rientra nel novero di quelle espressioni il cui significato pare essere chiaro e lampante fintanto che la sua considerazione rimane implicita, ma che rifugge nell’ombra allorché si cerchi di porlo ad oggetto. Che cosa si intende (nel senso più peculiarmente filosofico), infatti, precisamente quando si dice “genialità”? Bisogna fare tre considerazioni preliminari. Innanzi tutto, mi preme escludere un’interpretazione intellettuale e intellettualistica del termine: il genio non è ristretto nei confini della teoresi (intesa in senso lato), bensì si può esplicare in ogni ambito del reale. In secondo luogo, è doveroso asserire la sua universalità: la genialità non può dipendere da connotazioni spazio-temporali e culturali. Naturalmente il singolo subisce tali connotazioni, ma il suo esser-genio ed essere riconosciuto tale ne è esente (e non può non esserne). Mi pare, in ultimo, evidente il suo specificarsi ad un preciso aspetto nel momento in cui si predica di un individuo; in altre parole: il genio è geniale in un determinato ambito, e solo in quello.
Ciò detto, il problema rimane imperturbato: che cos’è la genialità? Chi è il genio? Nella risposta a queste due distinte domande si gioca l’intera questione. Iniziamo dall’indagine dell’interpretazione comune di questi termini. Normalmente, mi sembra, si è portati a pensare alla genialità come ad una sorta di quid non meglio definibile, che pertiene a pochi soggetti e che consente loro di distinguersi notevolmente da chiunque altro. A livello di definizione terminologica e di comprensione della res, questa concezione comune (se così la si può chiamare) aiuta poco. Potrebbe sembrare consenta un avvicinamento per sottrazione: considerando un genio e spogliandolo di tutto ciò che si sa non essere la genialità si dovrebbe rimanere con ciò che lo caratterizza in quanto genio, ovvero la genialità stessa. È chiaro, però, il circolo vizioso: per poter definire qualcuno come genio bisogna aver una qualche comprensione di ciò che lo rende tale. Eppure, rimane, probabilmente, il modo più diffuso di concepire la genialità. La ragione è, forse, che, seppur manchevole rispetto alla definizione e alla comprensione della genialità, rende debitamente conto del suo manifestarsi fenomenologico nel genio. In altre parole, concepirla come un qualcosa di particolare che sfugge ad ogni altro tentativo di definizione e che appartiene a pochi individui è un modo per rispondere alla seconda delle domande sopra proposte (ovvero a “Chi è il genio?”), piuttosto che una strada percorribile nella ricerca di che cosa sia la genialità. La possibilità di riconoscere un genio, allora, si lega non tanto ad un’esatta comprensione della genialità, quanto piuttosto a considerazioni estrinseche rispetto alla persona e che si muovono tenendo presente l’intero contesto dell’ambito in cui il genio si esprime. Il differenziarsi del genio da chiunque altro, che appare evidente e indubitabile, è spiegato attraverso l’attribuzione a tal individuo di quel quid che è la genialità, giustificando così anche tutte le eventuali stranezze che nell’immaginario comune colorano la persona del genio.
Un secondo aspetto su cui, mi pare, vi sia un generale consenso riguarda la non sufficienza di tale quid per la completa espressione del genio. È, quindi, una condizione necessaria, ma non sufficiente. Ciò a cui deve essere accompagnato è il lavoro, con ciò intendendo l’azione peculiare del preciso ambito d’interesse (allenamento se si parla di sport, studio se si parla di questioni teoriche, etc.). La genialità, allora, diviene una potenzialità intrinseca a qualche individuo, per la cui attuazione sono necessarie determinate condizioni estrinseche.
Nuovamente, credo che questa concezione comune della genialità (o meglio, del genio) abbia un eccellente valore esplicativo: riesce a dar ragione, in modo apparentemente corretto e funzionale, dell’esistere e del mostrarsi del genio. Al contempo, però, ritengo sia essenzialmente dannosa per una corretta comprensione della genialità: acquieta la ricerca, perché pragmaticamente dà una risposta che funziona, ma ha in sé stessa le condizioni per il proprio superamento.
Se, infatti, la genialità è una dimensione potenziale, allora, per il discrimine fra il genio e chi non lo è, acquisiscono un ruolo di primo piano non tanto le condizioni intrinseche (ovvero l’avere il tal quid) quanto quelle estrinseche che ne permettono l’esplicazione. A rigor di logica, ciascuno ed ognuno può possedere il quid che è la genialità, ma solo pochi essere nelle condizioni ambientali e personali che ne consentano l’attuazione. In qualche modo, allora, mi sembra che la stessa esistenza del quid sia tutt’altro che necessaria, bensì superflua. Nel momento in cui non vi è ragione per escludere che esso sia predicabile di ognuno, almeno potenzialmente, allora perde ogni ruolo nel tentativo di comprensione di cosa sia la genialità, e la sua esistenza diviene, perciò stesso, ininfluente. Ovviamente non si vuole dire che chiunque può essere un genio, ma che chiunque avrebbe potuto esserlo in un certo ambito a determinate condizioni.
Che cosa distinguerebbe, allora, un genio dagli altri? Semplicemente la quantità e la direzione del lavoro, ovvero l’ossessione. Dato per pacifico un certo grado di determinismo genetico ed ambientale, il genio sarebbe colui che ha avuto la fortuna di aver trovato il campo nel quale mostra una predisposizione ed esserne ossessionato, e cioè dedicarsi ad esso soltanto. La risposta alla domanda che si chiede che cosa sia la genialità è molto semplice: nulla, se non ossessione. Si spiega, così, anche la difficolta nel definire ciò che si intende con il termine “genialità”: non si intende niente, non vi è alcuna realtà che corrisponde, alcun significato.
La relazione che intercorre fra ossessione e genio (e non genialità, poiché non vi è alcuna genialità che rende il genio geniale) è, dunque, di causa e effetto. Ovviamente l’ossessione non è l’unica causa (non tutti coloro che sono ossessionati sono genii), ma è la condizione necessaria.
20 ottobre 2022