Il dibattito attorno alla serie creata dai fratelli Duffer è complesso ed eterogeneo. Vale la pena di far chiarezza, sin dall’intento e dall’orizzonte di attesa di quest’opera corale.
Stranger Things, serie tv prodotta da Netflix, è diventata un fenomeno pop di portata mondiale; composta da quattro stagioni, con la prima uscita nel 2016 e una nuova in lavorazione, ha sollevato numerose critiche positive e negative. La trama ricalca in parte il capolavoro di Stephen King, It (1986), e l’E.T. (1982) di Steven Spielberg. Siamo nel 1983, ad Hawkins in Indiana: un gruppo di ragazzini nerd, amanti del gioco di ruolo Dungeons and Dragons, indaga su alcuni fenomeni paranormali, che avvengono nella loro piccola cittadina. Gli episodi complessivi coprono un arco narrativo di tre anni, dunque fino al 1986, con alcune intrusioni negli anni Cinquanta e Sessanta e una copertura ad ampio spettro della cultura americana degli anni Ottanta, a livello visuale, mediatico e musicale.
A prima vista, quindi, Stranger Things parrebbe trattarsi di una ripresa postmoderna e citazionistica dell’horror degli anni Ottanta-Novanta. Sicuramente, da questo punto di vista, la serie non è un esperimento originale. Ci sono diversi esempi in cui il prodotto recupera una forma del passato, ma con diverse intenzioni. In Stranger Things regna il citazionismo, quindi la ripresa di contenuti mutuati da quelli con cui la generazione degli spettatori è cresciuta, come avviene anche nel recente lungometraggio Ready Player One (2018). Si tratta di una ripresa di segno contrario a quella di Scream (1996), in cui aveva carattere eminentemente metatestuale: lì il regista, Wes Craven gioca con gli elementi fondanti dell’horror, e si fa complice lo spettatore, la cui immedesimazione con quanto accade sullo schermo è inibita dalla continua scomposizione dei meccanismi narrativi dell’horror. Un’altra faccia di questa ripresa formale è il sequel. Un caso emblematico è Blade Runner 2049 (2017), dove la ripresa è rilevabile sia a livello tematico che nella scelta degli attori (con Harrison Ford che riprende il suo ruolo come Deckard) e serve a far sentire lo spettatore “a casa”.
Dopo questo breve elenco, ciò che risulta chiaro è che Stranger Things è solo uno dei punti di arrivo di questa narrazione che riprende, rielabora e interseca media diversi in un unico prodotto poi distribuito ad un pubblico variegato. Il dibattito attorno alla serie creata dai fratelli Duffer è complesso ed eterogeneo. Vale la pena di far chiarezza, sin dall’intento e dall’orizzonte di attesa di quest’opera corale.
Formalmente, Stranger Things presenta le tradizionali caratteristiche postmoderniste, in rottura con la concezione dell’opera originale e priva di legami con altre forme artistiche e mediatiche; il citazionismo di Stranger Things è in linea con quello di Scream, una ripresa (e una rimediazione) continua di prodotti originali in un grande patchwork di rimandi che contribuisce a decostruire un genere. Allo stesso tempo, tuttavia, possiamo rintracciare altri spunti di allontanamento dal postmoderno, soprattutto per quanto riguarda il concetto di rielaborazione e novità.
In Stranger Things, la parodia e il pastiche classici del postmoderno, come il citazionismo, sono rivisti in una chiave nuova. L’analisi di quest’ultimo aspetto risponde in parte, al successo ampio della serie. Le citazioni, infatti si suddividono in due livelli, osmotici tra di loro. Da una parte la citazione “subdola” che risalta il contesto culturale storico: esempi sono i poster di La cosa (1982) di John Carpenter e Lo squalo (1975) di Steven Spielberg nelle camere dei fratelli Byers, oppure le citazioni all’interno dei dialoghi provenienti dall’universo di Tolkien o ancora dal contesto videoludico. Dall’altro estremo, le citazioni diventano parte integrante della narrazione: in una scena della terza stagione viene mostrato in TV un frammento di Terminator pellicola del 1984 di James Cameron, che viene incarnato nella trama da un agente speciale russo sosia di Arnold Schwarznegger, come se dalla TV prendesse vita la realtà-finzionale narrata, in un mondo di metanarrazioni alla Videodrome (1983) e, il più esemplificativo, eXistenZ (1999) di David Cronenberg.
Non a caso ricorre il nome di Cronenberg: una delle teorie elaborate dai fan, sempre più evidenti anche nella caratterizzazione dei personaggi, consiste nel considerare l’intera vicenda un’imitazione attraverso i protagonisti della serie della campagna di Dungeons and Dragons narrata nella prima stagione da Will Byers, uno dei ragazzini più avventurosi del gruppo. Si creano, dunque, strati narrativi sempre più profondi, che intersecano realtà e finzione in un prodotto di pura fiction.
Vi sono anche delle intersezioni tra la realtà finzionale e la realtà mediatica al di fuori del "patto di sospensione di incredulità": compaiono infatti due personaggi importanti ai fini dello sviluppo della trama che sostengono queste continue intrusioni della cultura pop non solo anni Ottanta. Il primo è Bob Newby, interpretato da Sean Astin, ossia il Samvise Gamgee della saga cinematografica del Signore degli Anelli. La presenza dell’attore, sommata alle continue citazioni dell’opera di Tolkien crea una frattura nel ritratto finzionale offerto dalla serie tv, rimandando all’immaginario creato dalla trilogia di Peter Jackson. Si tratta comunque, appunto, di un riferimento obliquo, rimediato: la presenza dell’attore suggerisce una trilogia cinematografica che sarà girata una ventina d’anni dopo gli anni in cui la seria è ambientata, mentre i personaggi si scambiano battute riferite ai libri da cui questa serie è tratta. Il secondo esempio è ancora più calzante e significativo: nella quarta stagione appare Victor Creel rinchiuso in un manicomio, accusato di aver ucciso la famiglia in quanto posseduto da un demone. Creel viene intervistato da Nancy e Robin, due ragazze adolescenti che indagano sul suo caso, in pieno stile Il silenzio degli innocenti: Creel rivela alcuni dettagli agghiaccianti, facendo riferimento al demone come virus del subconscio. La questione non sembra rilevante dal punto di vista della trama in sé: senonché Creel è interpretato da Robert Englund, attore che ha impersonato Freddy Krueger, il terribile serial killer della saga di Nightmare (anch’essa una creazione di Wes Craven) che si infiltra nei sogni delle sue vittime per ucciderle. Non a caso, la sua presenza è collocata nella quarta stagione, che riprende in buona parte il personaggio di Krueger e l’immaginario creato da Craven.
Questi due personaggi e la loro rappresentazione mettono in dubbio la tenuta del patto di sospensione dell’incredulità: la serie è ambientata negli anni Ottanta, in uno specifico e determinato contesto storico, ma vede intrusioni da altri prodotti non corrispondenti al tratto storico delineato. Se la frattura temporale non è rispettata, si crea quindi, il già citato, squilibrio tra la finzione e la realtà della narrazione all’interno del patto narrativo. Evidenze di fratture anche narrative, rispettivamente alla gestione spazio-temporale, sono persistenti nel corso delle stagioni attraverso l’individuazione della causa della manifestazione degli eventi paranormali. È il caso del sotto-sopra (upside-down), una dimensione in cui le leggi terrestri non valgono, ma che è plasmato in modo speculare alla cittadina di Hawkins. Il tempo in questa dimensione sembra essersi fermato, o meglio, sembra scorrere, come mostrato nella quarta stagione, ma controllato da un orologio che ne scandisce un tempo altro. Proprio in questo contesto, si colloca un’altra curiosa frattura: il tempo scorre in parte al contrario come mostrato dalle visioni analettiche, in parte secondo il normale fluire, in parte controllato da Vecna, il villain degli ultimi nove episodi. Non è una semplice frattura perché sviluppa invece due tipi di rottura: la prima comprende le tre sfumature precedenti, la seconda quella dell’intreccio tra realtà e finzione nel momento dell’instaurazione del patto narrativo.
Vi sono due momenti iconici individuabili nel terzo e nel nono episodio della quarta stagione, in cui la musica (qui in diegesi) è motore del normale fluire narrativo all’interno del sotto-sopra dove il tempo sembra stagnare nella soggettività di Vecna che lo controlla; di conseguenza si crea una congiunzione tra tempi narrativi differenti, nell’unione tra strato finzionale e reale, in un contesto metadiegetico. Nel terzo episodio Max, un’adolescente del gruppo di amici protagonisti delle vicende, è consapevole che il suo destino è segnato in quanto presenta “la maledizione di Vecna”. Vecna designa le sue vittime e le rende consapevoli della loro imminente morte, attraverso visioni traumatiche del loro passato; la mente di Max è sotto il controllo di Vecna che cerca di ucciderla, ma la ragazza sfugge alla morte grazie alla sua canzone preferita Running Up That Hill (A Deal With God) di Kate Bush. La scena ha subito spopolato su internet per la forte componente emozionale e l’impatto estetico. Una seconda scena è presente nel nono episodio, in cui Eddie Munson, sempre coinvolto nel piano contro Vecna, suona Master of Puppets dei Metallica; non solo si nota la convergenza tra i due aspetti temporali descritti, ma, inoltre, vengono eliminate le barriere spaziali: passato e presente convergono, incluse le linee narrative precedentemente sviluppate. La convergenza quindi, tra le frammentazioni apparenti vengono convogliate nella diegesi della narrazione.
Un altro aspetto utile da indagare in questo senso sono le ambientazioni: ogni luogo non viene visto attraverso le lenti “neutrali” della cinepresa, in quanto la visione soggettiva dei singoli protagonisti risulterebbe assente o in parte incrinata; infatti, in questo senso, il punto di vista dei personaggi sulla componente spaziale è considerato un elemento narrativo. In ogni stagione, gli spazi vengono connotati attraverso i personaggi, soprattutto nel sotto-sopra e nelle visioni di Eleven, ragazzina dotata di poteri quali la telecinesi e il controllo mentale, oppure nelle illusioni create da Vecna. Le visioni sono in gran parte presenti nella seconda e nella quarta stagione presentate attraverso gli occhi di due personaggi: Will Byers e Eleven, secondo livelli di narrazione completamente differenti.
Da questa breve analisi possiamo dire che la retorica postmoderna, in questo caso, viene in parte abbandonata, in una rielaborazione nuova; si potrebbe accusare il prodotto di essere un patchwork ben costruito di una grammatica seriale già consolidata. In parte, questa affermazione è vera nel momento in cui l’analisi si ferma esclusivamente all’aspetto superficiale. Se si considera invece l’oggetto “Stranger Things” come un insieme variegato e difforme di narrazioni, ognuna con la propria autonomia che interseca diversi piani diegetici, differenziati da narratori, ambientazioni e determinati dalle stesse citazioni superficialmente definite tali, si apre anche una prospettiva transmediale.
In sintesi, l’analisi del fenomeno di Stranger Things non deve essere rilegato alla mera critica e rumore mediatico, scaturita dalla ricezione; le ragioni del “rumore” devono essere ricercate anche all’interno degli strati narrativi, un’immersione con gli strumenti critici nell’“upside-down” culturale che porta alla luce nuove prospettive anche attraverso un prodotto pop.
28 ottobre 2022
DELLA STESSA AUTRICE
Nicole Mazzucato, Dalla scacchiera al prisma: una prospettiva sulla decostruzione del personaggio in Nabokov