Nel presente articolo viene fornita una breve introduzione ai temi principali del saggio giovanile nicciano intitolato Su verità e menzogna in senso extramorale, passando ove possibile per dei riferimenti alla Gaia scienza. Lo scopo che ci si prefigge è quello di fornire una breve presentazione di alcuni temi (come linguaggio e arte) che attraversano l’intera produzione nicciana e proporre in ultima battuta un’analogia con la Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer.
di Gianmaria Avellino
Nel saggio Su verità e menzogna in senso extramorale ‒ l’unico autenticamente per nessuno che Nietzsche abbia scritto, in quanto intenzionalmente mai pubblicato e lontanissimo dallo scritto per tutti che era La nascita della tragedia ‒, Nietzsche descrive l’intelletto come strumento atto alla conservazione dell’individuo mediante la creazione di illusioni. L’uomo, «nell’indifferenza della sua ignoranza» (F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale), sta sospeso nei suoi sogni: come il sonnambulo si muove e appare attivo pur continuando a sognare, gli individui usano l’intelletto per creare finzioni di cui dimenticano già sempre il carattere di parvenza. Le riflessioni nicciane si concentrano anzitutto sul carattere linguistico di queste finzioni. In uno stato di natura, è necessario che gli individui diano un nome alle cose per sopravvivere. Una volta istituito, il nome diviene più importante della cosa stessa, in quanto universalmente vincolante rispetto ad un gruppo. Il principio che starebbe alla base della nascita di un gruppo di uomini sarebbe la comune intenzione di associarsi ai propri simili per garantirsi un quantum di persistenza maggiore. In quanto gruppo, l’uomo ha maggiori probabilità di sopravvivere ad un ambiente ostile. Questa istanza ha a che fare anzitutto con il linguaggio. Ciò è evidente: per poter comunicare con un simile, è indispensabile che si chiamino le cose allo stesso modo. Poniamo che io debba avvertire qualcuno di un pericolo: un animale estremamente aggressivo si aggira nei dintorni. È necessario un linguaggio comune affinché io possa comunicare il pericolo. Bisogna che io e l’interlocutore abbiamo già assegnato alle cose che ci circondano delle designazioni. È cioè necessario che vengano istituite delle “verità”: è qui che «sorge, per la prima volta, il contrasto tra verità e menzogna». Ciò che noi adoperiamo per designare le cose è null’altro che metafora e illusione. Ciò che viene nominato non proviene dalla cosa stessa, bensì dall’uomo ‒ il “nome” è una metafora della relazione che l’individuo intrattiene con la cosa che gli sta innanzi. Non è con la cosa che noi abbiamo a che fare, ma con la sua idea, con il suo fantasma. Questa idea corrisponde a una forma di dominio che noi imprimiamo nella realtà e che ci rende gli enti in generale disponibili e manipolabili. L’atteggiamento umano nei confronti dell’ente è, in estrema sintesi, provocante: l’uomo “provoca” le cose, cioè le induce ad alterarsi nel proprio essere e a trasformarsi. Questa “trasformazione” è l’esito della forma che io imprimo nella cosa stessa; per dirla in un gergo gadameriano: la cosa, in quanto compresa, è già sempre interpretata. Già solo come “nome”, essa mostra di aver subito una tale alterazione: noi diciamo che “la pietra è dura”, ma la sua “durezza” è qualcosa di assolutamente soggettivo, è l’esito di una trasposizione arbitraria. «Noi crediamo di sapere qualcosa sulle cose stesse […], eppure non possediamo nulla se non metafore delle cose che non corrispondono affatto alle essenze originarie». Dal punto di vista dell’attività dell’intelletto, questa attività nominativa coincide con il principio astrattivo del passaggio dall’immagine al concetto. Riportiamo lo stesso esempio nicciano: nel mio ambiente reale, esperisco qualcosa come delle foglie. “Le” foglie che io esperisco sono tutte logicamente diverse l’una dall’altra, in quanto enti individuabili separatamente. Nessuna foglia è uguale all’altra. E tuttavia, «il concetto nasce con l’equiparazione di ciò che non è uguale»: per poter comunicare qualcosa intorno alle “foglie”, io devo aver già sempre costruito un concetto universale e unico che le accomuna, devo avere in mente qualcosa come “la” foglia. Questo concetto viene creato dall’intelletto attraverso una negazione di ciò che v’è di individuale e reale e una identificazione di enti simili.
Ora, l’universale accettazione del nome implica come tale un’obbligazione verso l’individuo. L’uomo cioè subisce una pressione proveniente dal gruppo (per così dire dall’ideologia dominante) e si sente costretto a usare per se stesso le designazioni considerate valide: se una cosa è considerata “rossa”, io mi sento obbligato a definirla “rossa” e non “blu”. Allo stesso modo, poi, se un’azione è considerata “giusta”, io mi sento obbligato a definirla tale, e non “ingiusta”. Il ragionamento nicciano sul linguaggio tende spontaneamente cioè a trasfigurarsi sul piano morale: ciò che avviene sul piano linguistico giunge poi a definire la dimensione etico-morale di un gruppo di individui: il valore è, allo stesso modo del nome, un fantasma, l’esito di un impulso umano trasformativo dedicato a imprimere nella realtà la propria forma. Così come il nome ha funzione auto-conservativa rispetto al gruppo, allo stesso modo l’assimilazione passiva del valore dominante implica la realizzazione di maggiori possibilità di sopravvivenza per l’individuo, in quanto presuppone la sua accettazione all’interno del gruppo. Adeguarsi all’ideologia dominante significa autoconservarsi. Per il discorso nicciano, ciò che annienta l’individuo, per così dire spersonalizzandolo, non è tanto il fatto stesso dell’adesione all’ideologia, e cioè dell’accettazione delle designazioni valoriali universalmente imposte e vincolanti, quanto piuttosto l’inconsapevolezza di esserne dominato. Il compito del filosofo, in Nietzsche, consiste nel raggiungimento di una consapevolezza del carattere “ideologico” delle cose. Questa consapevolezza avviene per così dire attraverso l’esercizio costante di un’ermeneutica del sospetto, ovverosia di un dubbio esercitato verso le “forme” delle cose, cioè le verità imposte. «L’indagatore di queste verità in fondo cerca soltanto la metamorfosi del mondo nell’uomo, si sforza di comprendere il mondo come una cosa umana». Non comprendere il carattere umano delle cose significa dimenticare la natura prospettica del mondo.
L’intenzione nicciana non è quella di annientare l’illusione stessa, quanto piuttosto il riconoscimento di essa. L’autore fa questa riflessione in merito alla funzione dell’arte all’interno della società: l’arte ci rende l’esistenza sopportabile, in quanto si pone come una dimensione all’interno della quale noi individui possiamo rifugiarci per sfuggire all’angoscia derivante dalla condizione umana. Questa posizione sarà confermata nella Gaia scienza. Pensiamo all’aforisma n. 107, intitolato La nostra ultima gratitudine verso l’arte. Le conseguenze della totale onestà sarebbero soltanto la «nausea e il suicidio», ma l’arte, la «buona volontà della parvenza», ci rende l’esistenza sopportabile come «fenomeno estetico», permettendoci di «riposarci dal peso di noi stessi». In questo contesto, l’“artista” è una figura socialmente accettata nonostante si tratti di un mentitore. Chi mente, infatti, è costretto all’isolamento sociale, in quanto mette a rischio l’esistenza del gruppo: è il caso dell’individuo che vuole avvertire i simili di un pericolo, ma per farlo usa nomi ingannevoli; il pericolo non verrebbe riconosciuto e ciò metterebbe a rischio l’esistenza stessa del gruppo: il mentitore è in questo caso in controtendenza rispetto all’ideale autoconservativo della specie. Al contrario, le finzioni artistiche sono ben accette: nell’aforisma n. 222 della Gaia scienza, si spiega che il poeta è «fratello di latte» del mentitore, e tuttavia lo ha privato della buona coscienza. La finzione è qualcosa che io ricerco e mediante cui posso rimediare alle insicurezze costitutive del mio essere. Ricordiamo l’aforisma n. 302 della Gaia scienza:
«passare attraverso la vita con occhio pacato e passo sicuro, sempre pronti alle cose estreme come fossero feste, e colmi del desiderio d’ignoti mondi e mari e uomini e dèi; tender l’orecchio a ogni serena musica, come se, ascoltandola, uomini, soldati, navigatori ben potessero prendersi un breve riposo e svago; […] Era questa la felicità di Omero! La condizione di colui che ha inventato per i Greci i loro Dèi: anzi, per se stesso i suoi propri dèi!»
Brano, questo, che crediamo necessario abbinare ad un passaggio della prefazione alla seconda edizione della stessa opera, in cui si esprime l’intenzione di fare «ritorno» ai Greci, che «erano superficiali – per profondità!», in quanto «adoratori delle forme, dei suoni, delle parole».
La funzione dell’arte sta allora nell’adorazione della forma, del suono e della parola. L’esteriorità fornisce al “Greco” una scappatoia per il piacere e la felicità. Ciò ci ricorda da vicino l’episodio, presente nel libro XII dell’Odissea, dell’incontro di Ulisse con le sirene. Queste, mentendo, dicono all’eroe: «Nessuno mai passò oltre di qui con la nave scura prima di ascoltare dalla nostra bocca il suono di miele, ma ognuno va dopo averlo gustato e più cose sapendo». Ulisse, allora, fa tappare le orecchie agli altri navigatori presenti sulla nave e si fa legare all’albero per poter ascoltare. Il suo scopo è quello di esperire il canto al solo scopo di adorarne la forma, senza andare aldilà della pura contemplazione estetica. Questo episodio esprime molto bene ciò che intende osservare Nietzsche: la felicità, in Omero, è la contemplazione superficiale del fenomeno estetico, l’adorazione fine a sé stessa della forma.
Ora vorremmo ricordare la nota lettura fatta dello stesso episodio da parte di Adorno e Horkheimer all’interno della Dialettica dell’illuminismo. Nell’opera, la designazione “illuminismo” viene usata come categoria tipico-ideale attraverso la quale leggere la storia dell’Occidente come progressivo affermarsi (e negarsi) della ragione borghese, cioè la ragione dell’uomo come animale da preda e feroce, «da rapina» , osserverebbe Spengler (L'uomo e la tecnica. Introduzione a una filosofia della vita). La storia dell’Occidente è la storia di una trasformazione ideologica illuministico-borghese del mondo. Gli autori ritengono di poter individuare l’inizio di questa storia dell’ideologia borghese proprio in Omero, a partire dal quale il mondo viene senza riguardi sottomesso all’uomo. Il mito trapassa nell’illuminismo e la natura diviene pura oggettività. A partire dal mondo omerico, ciò che rende il “mondo” tale è la sua dis-ponibilità in funzione del dominio umano, che è già sempre da intendersi in senso auto-conservativo. In conformità al saggio Su verità e menzogna: l’illuminista è l’individuo che usa l’intelletto astrattivo in funzione del bisogno di autoconservazione, e dunque è un creatore di finzioni, ossia di verità di cui poi gli individui dimenticano la natura illusoria. Nell’interpretazione proposta nella Dialettica, Ulisse (visto come il «signore terriero», una sorta di grande borghese) tappa le orecchie dei compagni con la cera e ordina loro di remare a tutta forza, mentre lui si fa legare all’albero della nave. La condizione dei compagni è quella di individui-lavoratori espropriati della propria stessa individualità e costretti a vivere in funzione dell’autoconservazione del gruppo. Sono gli individui “morali” in senso nicciano, i “credenti”. Quella che Nietzsche definisce “felicità” in Omero è allora solo la felicità di Ulisse, che gode dell’arte come fenomeno estetico in sé (neutralizzato nella sua spinta all’azione), ma non è la felicità del rematore-lavoratore. Il “lavoro” assume qui per così dire una cattiva coscienza, ed è invero qualcosa che Nietzsche stesso, nella Gaia scienza, riconosce. Nell’aforisma n. 329 viene criticato il fatto che nella società odierna l’ozio (lo svago e la ricreazione) abbia perso la buona coscienza che in principio possedeva nella grecità, per essere sostituito dal lavoro come fine esistenziale dell’individuo, e non più solo mezzo per raggiungere uno scopo. La condizione del lavoratore, nell’Odissea, è quella dell’individuo sottomesso e sacrificato ai valori dominanti. È questo il grande timore nicciano espresso nella Gaia scienza e anticipato nel saggio su Verità e menzogna in senso extramorale. In generale, e per concludere, potremmo dire che l’intera filosofia dell’ultimo Nietzsche (di cui la Gaia scienza è l’esito armonico, forse ancor più dello Zarathustra) tende intrinsecamente a voler togliere al lavoro la buona coscienza e a ripristinare il valore dell’esistenza come gioco mai concluso di punti di vista, consistente nella costante messa in discussione delle ideologie dominanti, cioè quegli schemi sociali in cui l’individuo per così dire “espropriato” viene rinchiuso e indotto all’oblio di sé (condizione che Nietzsche sembra assimilare a quella del lavoratore).
3 ottobre 2022
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