Apologia dell'agnosticismo

 

Rispondere alla domanda «Di cosa parliamo quando parliamo di agnosticismo?» significa fare i conti con le conseguenze di una tale scelta e assumere su di sé un impegno etico specifico. L’agnostico vive costantemente la soglia, il limite come dimensione di senso e condizione di possibilità stessa della vita, tesa tra due limiti, appunto, oltre i quali la ragione non può spingersi. Questa condizione peculiare è anche e soprattutto una condizione etica nel senso più ampio del termine. Un’etica, che è però quella di un agnosticismo scomodo, che sa attingere sapientemente da una parte (fede) e dall’altra (ateismo), per abitare la domanda delle domande facendosi trasformare da essa. 

 

 

Di cosa parliamo quando parliamo di agnosticismo? Il più delle volte, chiunque si professi agnostico di fronte alla domanda "Credi in Dio?" viene guardato con sospetto, reo di non avere il coraggio di prendere posizione, di esporsi. Ma davvero essere agnostici significa aver paura di prendere posizione? Come ha scritto il filosofo italiano naturalizzato inglese Luciano Floridi a proposito della questione, sarebbe opportuno fare qualche distinzione preliminare prima di etichettare qualsiasi agnostico in questi termini1. Floridi distingue tra agnosticismo “comodo” e agnosticismo “scomodo” e tra agnosticismo “di ritorno” e agnosticismo “di partenza”

 

La prima distinzione, come si può dedurre dall’aggettivo che accompagna il termine di riferimento (“comodo”/”scomodo) denota a) un tipo di agnosticismo passivo, pigro, tipico di colui o colei che preferisce non affrontare le conseguenze della sua incertezza, dei suoi dubbi; b) un tipo di agnosticismo attivo, operoso, tipico di chi ha deciso di affrontare a viso aperto le conseguenze della sua incertezza, dei suoi dubbi. La seconda distinzione (“di ritorno”/”di partenza”), anch’essa abbastanza intuitiva, si riferisce a) a chi sia diventato agnostico essendo stato in precedenza credente (e in questo caso si ha tanto da perdere); b) a chi si professi agnostico senza essere mai stato credente. Il discorso di Floridi si conclude con la figura di un agnosticismo scomodo (di ritorno, come lo è il suo) che fa della speranza la sua forza e la sua virtù. 

 

Luciano Floridi
Luciano Floridi

Un’altra osservazione che ci può aiutare a inquadrare meglio la questione riguarda il contesto nel quale il termine, come lo intendiamo comunemente, viene usato. Da questo punto di vista, infatti, il termine si riferisce precisamente ad un atteggiamento di distacco da una precisa fede, vale a dire quella cristiana. Originariamente, però, il termine non si riferiva tanto ad un determinato atteggiamento nei confronti della religione, o di una determinata religione, ma si riferiva ad un determinato atteggiamento nei confronti della conoscenza, o se vogliamo della razionalità. Nell'antichità esempi di “agnosticismo epistemologico” sono rappresentati da Protagora e più avanti dallo scetticismo. 

 

Pertanto, la questione dell’agnosticismo non riguarda solo la religione, il credere in Dio, nel Dio cristiano o in altre divinità, ma rappresenta prima di tutto una precisa “presa di posizione” (ora sì che possiamo definirla così) nei confronti della conoscenza, o meglio della possibilità di trovare risposte alle grandi domande. Per gli scettici ciò corrispondeva solitamente con la cosiddetta epoché, cioè la “sospensione del giudizio”, la quale di solito non costituiva affatto l’atto conclusivo di un ragionamento, ma il punto di partenza necessario per impostare una questione. 

È di questo genere di agnosticismo in senso ampio che desideriamo occuparci qui, anche se d’ora in avanti useremo il termine agnosticismo in opposizione all’atteggiamento del credente e a quello del non credente (l’ateo). 

Bertrand Russell in Am I An Atheist o Agnostic? scrive:

 

« Come filosofo, se parlassi ad un pubblico puramente filosofico dovrei dire che dovrei descrivermi come un agnostico, perché non penso che esista un argomento conclusivo con cui si possa provare che non esiste un Dio. D'altra parte, se devo trasmettere la giusta impressione all'uomo comune per la strada, penso che dovrei dire che sono un ateo, perché quando dico che non posso provare che non c'è un Dio, dovrei aggiungere ugualmente che non posso provare che non ci sono gli dèi omerici ».

 

Detto altrimenti, potremmo definire la posizione di Russell come quella di chi si professa “intellettualmente agnostico ma praticamente ateo”. 

 

Bertrand Russell
Bertrand Russell

 

Una posizione particolare che sembra però non del tutto soddisfacente. La domanda successiva diventa allora la seguente: quali sono i vantaggi o gli svantaggi di un atteggiamento simile? A questa domanda potremmo rispondere in mille modi, dicendo che si tratta di una questione strettamente soggettiva, difficilmente generalizzabile. Ma è davvero così? Ricordiamo, ancora una volta, che ci riferiamo al termine agnosticismo in senso ampio (cioè che include l’atteggiamento più generale di scetticismo, diciamo, nei confronti della stessa ragione che si domanda, tra le altre cose, se un Dio esista o meno). 

 

Pertanto, consapevoli di ciò, riflettere sui pro e i contro dell’agnosticismo dovrebbe significare riflettere sulle conseguenza pratiche, prima ancora che teoriche, di una simile posizione nell’ambito più generale (intersoggettivo) della conoscenza. Questo ci permette di chiarire un’altra cosa fondamentale: non vogliamo convincere nessuno del fatto che l’agnosticismo rappresenti la posizione ideale da assumere, la posizione migliore in assoluto. 

 

Rispondere alla domanda iniziale (Di cosa parliamo quando parliamo di agnosticismo?) significa, piuttosto, fare i conti con le conseguenze di una tale scelta e assumere su di sé un impegno etico specifico. Quali sono, dunque, le conseguenze più immediate derivanti dall’assunzione di un tale atteggiamento? Per prima cosa, non è vero che essere agnostici significa automaticamente evitare di prendere posizione in modo netto. Anche un agnostico avrà le proprie convinzioni, ma a differenza di un credente o di un ateo, sarà più propenso a metterle in discussione, soprattutto quelle riguardanti le domande sul senso ultimo della vita. 

 

Un credente avrà sicuramente dei dubbi, ma se la fede che coltiva è sincera e profonda, il dubbio non farà altro che rafforzare le proprie speranze e fortificare il proprio rapporto col divino. Allo stesso modo, un ateo avrà sicuramente dei dubbi, ma se la sua convinzione è matura, il dubbio verrà considerato una conseguenza naturale, inestirpabile della ragione stessa e non come un vuoto da colmare postulando l’esistenza di una dimensione ultraterrena. L’agnostico, invece, non vede nel dubbio un mezzo per confermare le proprie convinzioni o per giungere, cartesianamente, a verità indubitabili, ma l’essenza stessa della realtà, un vero e proprio luogo da abitare e col quale fare i conti quotidianamente. 

 

Pertanto, l’agnostico vive costantemente la soglia, il limite come dimensione di senso e condizione di possibilità stessa della vita, tesa tra due limiti, appunto, oltre i quali la ragione non può spingersi. Questa condizione peculiare è anche e soprattutto una condizione etica nel senso più ampio del termine. Un’etica, che è ovviamente quella dell’agnosticismo scomodo, che sa attingere sapientemente da una parte (fede) e dall’altra (ateismo), per abitare la domanda delle domande facendosi trasformare da essa. Ecco che, allora, diventa più chiaro anche il significato del titolo di questa riflessione “apologia dell’agnosticismo”: cioè difesa dell’agnosticismo; sì ma da chi o da che cosa? 

 

Evidentemente, e in primo luogo, da chi ne dà un’interpretazione superficiale, ma poi anche e soprattutto da se stesso. Cioè dalla tentazione di esprimere mediante un giudizio di valore la presunta superiorità morale e intellettuale dell’agnosticismo rispetto all’aver fede o al professarsi atei. Essere agnostici, così come essere atei o credenti, comporta delle scelte, delle conseguenze e delle responsabilità, per questo motivo l’agnostico non dev’essere un agnostico pigro, irresponsabile, ma attento e pragmatico, consapevole e tollerante. Se poi vogliamo usare l’agnosticismo come sinonimo di snobismo, siamo liberi di farlo, siamo liberi di essere indifferenti verso il mistero della realtà, della vita e della morte, l’importante è che vi sia una linea di demarcazione netta tra questo atteggiamento, certamente legittimo, e quello di chi fa del proprio agnosticismo un principio cardine della propria esistenza affrontandone le conseguenze in maniera radicale. 

 

 

12 settembre 2022

 









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