La classe agiata va in vacanza

 

Siamo costretti a vivere all’interno di un sistema che ci obbliga a ostentare il nostro stile di vita con il tacito ricatto di escluderci se non lo facciamo, se non consumiamo abbastanza e non lo mostriamo.

 

di Alberto Pilotto

 

V.M. Corcos, "In lettura sul mare", 1910
V.M. Corcos, "In lettura sul mare", 1910

 

Un’altra estate è terminata e come ogni anno ci prepariamo a tornare alle nostre occupazioni più discrete, alla routine quotidiana, alla familiarità e alla tranquilla ripetizione di gesti nelle nostre giornate. Certo, questo potrebbe spaventare, se non fosse che ormai anche la vacanza è diventata parte di quella routine; una routine tale per cui chi non partecipa a questo rito collettivo si sente “escluso” dalla società e in particolare dalla classe a cui appartiene. Le vacanze sono diventate un rito collettivo, quasi più un obbligo sociale che una scelta individuale, tanto che quest’anno nella sola Italia si è registrata un’impennata dei prestiti finalizzati proprio alla vacanza. Riporta Repubblica: «160 milioni di euro è il valore dei prestiti personali erogati nel primo semestre di quest’anno per far fronte a spese legate ai viaggi, +96% rispetto allo stesso periodo del 2021 […]. Dall’analisi di un campione di oltre 70mila domande di finanziamento, è emerso che la cifra media desiderata è di 5.597 euro da restituire in 52 rate, ovvero in poco più di 4 anni.»

 

3 italiani su 10 quindi si indebitano per andare in ferie: un enorme aumento dei prestiti finalizzati, in questo caso, non a procurarsi un bene duraturo e magari anche necessario come una casa o un’autovettura, o ad avviare un’attività lavorativa, ma solo a vivere un’esperienza. Fa riflettere il fatto che le richieste di prestiti non provengano da persone appartenenti alle fasce più ricche della società, che non avrebbero problemi a pagare una vacanza senza indebitarsi. I prestiti sono invece richiesti dalle fasce economicamente più deboli della popolazione, essendo spesso persone che non possono vantare grandi patrimoni messi da parte: lavoratori dipendenti con un’età media di 36 anni, di cui il 35% sono addirittura under 30, riporta sempre Repubblica. Perché farlo, dunque? Perché indebitarsi per anni solo per vivere un’esperienza di una o due settimane?

 

Sarebbe limitante volersi fermare, nell’analisi delle cause di questi comportamenti, a colpevolizzare la stupidità umana o la volontà di vivere un’esperienza il più possibile soddisfacente. Le ragioni sono più profonde e sono da individuarsi nella volontà di non rimanere esclusi da questo grande rito collettivo che le classi più agiate della società possono permettersi.

Questo meccanismo che ci spinge a consumare e a spendere per non sentirci esclusi da una classe sociale cui vorremmo almeno apparentemente appartenere è già stato descritto da Thorstein Veblen, nella sua opera Teoria della classe agiata, datata 1899. Viene chiamato “consumo ostentativo” o “posizionale”: non si “consuma” per soddisfare un bisogno primario, non è l’“utilità” di qualcosa a guidare scelte e comportamenti dei consumatori, quanto piuttosto la necessità di rivendicare la propria posizione sociale di fronte agli altri ostentando, appunto, il possesso di un certo bene pregiato o, in questo caso, il potersi permettere delle vacanze costose.

Insomma, all’interno di un mondo consumista anche le vacanze riescono a diventare un meccanismo di inclusione o esclusione sociale, dove ognuno può mettere in mostra la propria posizione sociale dimostrandosi di potersi permettere un certo livello di spesa e di lusso.

 

T. Veblen (1857-1929)
T. Veblen (1857-1929)

 

Questo mettersi in mostra tramite i propri viaggi e i luoghi ameni delle proprie vacanze viene reso ancor più semplice dall’utilizzo dei social, dove d’estate gli influencer non possono fare a meno di registrare e condividere il proprio lussuoso stile di vita, instillando nel proprio seguito quel senso di inadeguatezza per cui, se si vuole veramente essere qualcuno, si devono anche passare le vacanze nei luoghi più gettonati, e nel modo più prodigo possibile.

Come fa notare sul suo profilo Instagram il giornalista Alessandro Sahebi, sarebbe però scorretto biasimare o bollare chi si indebita per andare in vacanza come “stupido”: è semplicemente, citando sempre Sahebi, «una risposta sbagliata a un problema reale». E il problema è proprio una società in cui si viene inclusi o esclusi a seconda della quantità e della qualità di beni che si possono consumare, comprese le destinazioni delle vacanze, che in questo caso diventano anch’esse un bene di consumo di cui disporre e di cui far mostra sui social al pari di una bella macchina.

 

Che fare, dunque, se siamo costretti a vivere all’interno di un sistema che ci obbliga a ostentare il nostro stile di vita con il tacito ricatto di escluderci se non lo facciamo, se non consumiamo abbastanza e non lo mostriamo?

Innanzitutto, forse, sarebbe il caso di rendersi conto che nella stragrande maggioranza dei casi le vacanze che ci vengono imposte dalle pratiche sociali sono esperienze vuote, che non portano alcun arricchimento alla persona:

 

« Nessuna vacanza è così stranamente gremita di questa che spopola le città, più chiassosa di questa che rende silenzioso il Tritone a mezzogiorno. Non è una festa, è un incantesimo, una malìa, una fattura. Irretisce le folle, ispira programmi insensati, o immerge in una torva e diffidente sonnolenza. [...] La mia sensazione più profonda è che il ferragosto sia la festa del Nulla: e a questa convinzione io mi adeguo.

Dove vanno le spensierate folle di gitanti che, tutte nel medesimo istante, vengono colte dal raptus dell’emigrazione verso la Gioia? Sono persuaso che esse vengano stivate in uno dei tanti armadi del Nulla, e lì provvisoriamente trattenute e distratte con effimeri giocarelli fatti, letteralmente, di niente. Durante le non molte, ma fatali ore del ferragosto, trionfa una colossale eclissi dell’esistenza. Altrove, in luoghi seviziati dal Nulla, famiglie intensamente italiane formano una pasta di nonne, genitori, bambini: tutte le parti sono scambiabili. Sono rumorosi e felici. Sono tutti. Per quel che mi riguarda, ho espresso educatamente il mio dissenso agitando gli indici in segno negativo: ma con cautela, fingendo distrazione. » (G. Manganelli, Improvvisi per macchina da scrivere).

 

La vacanza dell’uomo postmoderno spesso ha come suoi scopi lo spezzare la routine lavorativa e, come abbiamo visto, il manifestare la propria posizione sociale ed economica. In rari casi, ormai, le vacanze costituiscono un’esperienza che arricchisce la persona, quando invece le mete più gettonate sono quelle promosse dagli influencer: quelle crociere extralusso la cui opulenza che David Foster Wallace denuncia con crudele ironia in Una cosa divertente che non farò mai più; oppure in una delle tante spiagge prese d’assalto dai turisti e che imbruttiscono e stressano l’animo più che riposare e concedere tregua al tran-tran quotidiano:

 

David Foster Wallace (1962-2008)
David Foster Wallace (1962-2008)

« Confesso di non aver mai capito perché tante persone siano convinte che una vacanza divertente significhi mettersi infradito e occhiali da sole e avanzare come formiche in un traffico infernale fino a stazioni turistiche rumorose, calde e affollate, per assaggiare un "sapore locale" che è per definizione rovinato dalla presenza di turisti. [...] Probabilmente fa davvero bene all'anima essere un turista, anche se solo una volta ogni tanto. Non bene nel senso di rigenerante o ravvivante, però, piuttosto nel senso di truce, sguardo di ghiaccio, guardiamo-in-faccia-la-realtà-e-troviamo-il-modo-di-affrontarla. La mia esperienza personale non è stata che viaggiare per il Paese ti apra la mente e ti rilassi, né che i cambiamenti radicali di posto e contesto abbiano un effetto salutare, bensì che il turismo intranazionale sia radicalmente asfissiante, e umiliante nel modo più duro possibile: ostile alla mia fantasia di essere un individuo vero, di vivere in qualche modo al di fuori e al di sopra di tutto. Essere turisti di massa, per me, significa diventare puri americani dell'ultimo tipo: alieni, ignoranti, smaniosi di qualcosa che non si potrà mai avere, delusi come non si potrà mai ammettere di essere. Significa contaminare, per mera ontologia, quell'incontaminatezza che si è andati a sperimentare. Significa imporre la propria presenza in luoghi che sarebbero, in tutti i sensi non-economici, migliori e più veri senza di noi. Significa, nelle code e negli ingorghi, transazione dopo transazione, confrontarsi con una dimensione di se stessi che è tanto ineluttabile quanto dolorosa: come turisti, diventiamo economicamente rilevanti ma esistenzialmente deprecabili, insetti su una cosa morta. » (David Foster Wallace, Considera l’aragosta).

 

Come notavo in un articolo di 4 anni fa, la vacanza ha perso il suo significato originario indicato anche dalla sua etimologia: essa proviene dal verbo latino vacare, ossia l’essere vuoto, libero. Chiaramente, a tutti dovrebbero essere garantiti il tempo e le possibilità economiche per permettersi una vacanza, ma quello che si deve mettere in luce è che oggi utilizziamo il tempo libero a nostra disposizione non per ritrovare l’equilibrio con noi stessi, non per riflettere sulla nostra vita immersi in quell’otium litteratum che permette di dedicarsi alla formazione personale. Al contrario, le nostre vacanze sono più simili agli Ozi di Capua dell’esercito di Annibale, che più che rinvigorire lo spirito lo fanno rammollire, immerso in cornici dove ogni bisogno immediato viene soddisfatto a suon di quattrini e in cui l’imperativo è godere nel modo più sfrenato possibile, sopprimendo nel godimento e nel divertimento tutti quei pensieri e quelle riflessioni che invece dovrebbero imporsi nella nostra vita quando troviamo del tempo libero da dedicare loro.

 

5 settembre 2022

 








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