Attivare attraverso immagini brutali la pena, la paura, l’odio, il disprezzo, ci porta inevitabilmente a parteggiare per le vittime e allo stesso tempo a una semplificazione eccessiva. Le immagini ci inducono a parteggiare per l’aggredito, come normale che sia, ma non a riflettere sulla drammaticità dei corpi violati, ovunque sia il fronte su cui si trovino a combattere.
La guerra Russia-Ucraina ai nostri confini impone una serie di riflessioni e scelte geopolitiche, economiche,
sociali e morali. Una guerra frutto del risorgere dei nazionalismi e persino delle vecchie idee di imperialismo che vedono la Russia di Putin rispolverare utopie di grandezza, revanscismo, uso della forza militare per imporre il suo progetto. Dall’altra parte si risponde con le armi, pena la perdita di autodeterminazione e di libertà. Una polarizzazione attorno a cui si è costruito il dibattito pubblico degli ultimi mesi.
Senza voler entrare nella complessità degli eventi pregressi, né di quelli attuali e sulle possibili soluzioni negoziali e politiche, è fondamentale soffermarsi anche nel campo dell’immaginario su cui si gioca l’altra e non meno fondamentale guerra. Il fronte della battaglia prende il nome delle città e dei territori da difendere, piene di cadaveri e macerie, di armamentario bellico per la distruzione di vite, di abitazioni e di monumenti simbolo, e occupa il nostro spazio fisico e mentale. Questa volta la guerra è più vicina, non solo per la geografia, ma per l’invasione mediatica e la violenza dell’occupazione dello spazio del pensiero. È importante dunque soffermarsi sugli elementi che hanno determinato una guerra in parallelo, fatta di immagini: ripetute, ingrandite, condivise dai media, tv, giornali, reportage, social, supportate da un’antica iconografia che, lungo i secoli fino a oggi, esalta gli eroi resistenti. Si attivano una serie di emozioni: rabbia, sdegno, paura, compassione empatia e simpatia, a cui è impossibile sottrarsi.
A questo proposito, l’ambito di studi inaugurato dalla scuola Les Annales, ha messo in atto una vera e propria rivoluzione non solo nel modo di guardare il passato ma anche il presente attraverso l’angolo visuale della sfera affettiva degli esseri umani.
Una prospettiva che sottrae in parte la sfera delle emozioni al campo della psicologia e neuroscienza per restituire loro una “storicità”: sentimenti ed emozioni non sono solo espressioni primordiali e viscerali; vanno invece al di là della sfera soggettiva e culturale, e sono in grado di influenzare la politica e a loro volta ad esserne influenzati.
Una prospettiva individuata nel secolo scorso da Lucien Febvre e Marc Bloch che elaborano una storia della
sensibilità e che si emancipa da una visione teleologica del processo di civilizzazione e da una trasposizione
della psicologia nella storia. La storica medioevista Barbara Rosenwein sostiene che le emozioni sono “disposizioni culturali” storicamente in movimento ed evoluzione (Emotional Communities in the Early Middle Age, Ithaca, 2006, tradotto in Italia da Viella, Generazioni di sentimenti. Una storia delle emozioni), associate a gesti, parole, codici comunicativi che mutano nel corso del tempo, tanto da poter parlare di un mindfulbody, ovvero di un corpo pensante e poderoso (Jan Pampler, Storia delle emozioni, Il Mulino 2018).
Dunque un vasto apparato teorico e di ricerca che ci conferma nel contesto attuale il ruolo che le emozioni
giocano a sfavore di un pensiero critico. Attivare attraverso immagini brutali la pena, la paura, l’odio, il disprezzo, ci porta inevitabilmente a parteggiare per le vittime e allo stesso tempo a una semplificazione eccessiva. Soprattutto la paura, "paura sempre", secondo la calzante definizione di Lucien Febvre.
Non stupisce lo slittamento evidente nel registro della comunicazione politica che invece di offrire soluzioni, propone incubi e paure, acuisce la cultura del rancore, un materiale incendiario che ha dato luogo a conseguenze disastrose attraverso il linguaggio che stimola l’identificazione con le vittime e una repulsione verso “il nemico”, “il responsabile”, “il colpevole” che se da una parte ci permette di instaurare un meccanismo di difesa, dall’altra ci priva dei ragionamenti, e di soluzioni pacifiche.
Attraverso la paura si costruisce un collante attorno a scelte non sempre condivisibili e condivise. Nella nostra società, come osservava Karl Popper nel 1969 (Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, Il Mulino, 1972), si è sviluppata una sorta di ossessione per il tema della sicurezza, tale da segnare profondamente le esperienze sociali, le geografie, le politiche del riarmo. Il timore dell’altro, del proprio simile, dell’uomo estraneo o straniero accompagna la storia d’Europa sviluppando l’idea dell’uso legittimo della forza. Sentimento ineliminabile nell’umanità, fa piombare la storia della civiltà occidentale al momento pre-moderno facendo tornare in auge modalità di risoluzione delle controversie e di convivenza basate sulla violenza.
Allo stesso modo, la morte tenuta in disparte come il tabù della contemporaneità, – Jean Baudrillard affermava «Al giorno d’oggi non è possibile essere morti» (Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, 2007) è ritornata prepotentemente alla ribalta, prima con la pandemia, ora con la guerra: il grande rimosso dalla scena pubblica è rientrato prepotentemente nello spazio della convivenza. I media tradizionali e i social diffondono quotidianamente immagini di distruzione e di morte: corpi amputati, violati, seppelliti in fosse comuni. Non ci illudiamo: la morte non ha riacquistato né la sua sacralità, né la sua naturalità: è un simulacro, costruito come finzione. Attraverso le immagini di orrori viene rafforzato il sentimento di rifiuto
dell’aggressore, portatore di violenza, non quello di umana pietas per tutte le vittime della violenza della guerra. Ci inducono a parteggiare per l’aggredito, come normale che sia, ma non a riflettere sulla drammaticità dei corpi violati, ovunque sia il fronte su cui si trovino a combattere.
Nonostante ciò che i media ci propongono ogni giorno sul piano del dibattito pubblico e delle narrazioni, la maggioranza delle italiane e degli italiani nutre una profonda avversione per la guerra, financo di resistenza, per l’invio di armi all’Ucraina, verso l’aumento della spesa pubblica per il riarmo. In questo quadro possiamo rintracciare tante e anche opposte motivazioni, spesso cavalcate dalle forze politiche in cerca di consenso. Ciò che a noi sta a cuore è invece ricreare una cultura della pace condivisa e diffusa rompendo la centralità in atto e in prospettiva del dato militare e della guerra come scansione di continuità nella storia per ridare voce a istanze collettive che si manifestano un po’ ovunque, e alimentare iniziative per la pace e il disarmo, a cominciare dall’insopprimibile intreccio tra “paura” e l’aspirazione a un mondo “pacificato”, anche in vista di un nuovo rapporto tra l’umano e l’ambiente. Per ripensare a nuovi rapporti sociali, a un nuovo ordine nazionale e internazionale, abbiamo bisogno di tornare a pensare, e a educare al valore della pace, a cominciare dalla scuola, sia per rompere la propaganda bellicista, sia per interiorizzare profondamente, e tradurla in nuovo linguaggio, l’avversione per l’uso della forza nella risoluzione dei conflitti. «Un abisso separava gli uomini armati dalle popolazioni inermi, un abisso simile a quello che separa i poveri dai ricchi», scriveva Simone Weil, volontaria in Spagna, a Georges Bernanos, di ogni conflitto, che riguardi la sfera politica ma anche i rapporti personali.
Un lavoro profondo a partire dal basso, che sia politico, diffuso attraverso siti, radio, canali social che possono far rete e che diano ai cittadini la possibilità di un impegno diretto – in questo campo abbiamo già
numerose iniziative come quelle di Peacelink e Sbilanciamoci e molte altre sorte ovunque – e anche e soprattutto culturale ed educativo, che sebbene non possa offrire frutti immediati, è la grande sfida per il futuro, materiale e simbolico, della comunità umana.
3 settembre 2022
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