Politica e rappresentanza

 

Una riforma della politica che porti ad una maggiore rappresentatività è qualcosa che i politici sbandierano da diverso tempo, tuttavia, non c’è ancora stato un autentico cambiamento. La riforma della politica si riduce, molto spesso, a cambi di nomi e di simboli agli organi di rappresentanza o alla nascita di piccoli movimenti dal basso del tutto ininfluenti e facilmente corruttibili. Occorre quindi interrogarsi circa le cause di questo fenomeno d’immobilismo, senza ricorrere a risposte ingenue ed emotive. Nel seguente articolo tenteremo di proporre un’interpretazione della scarsa rappresentatività della politica e della mancata riforma.

 

di Riccardo Sasso

 

 

Al fine di parlare della rappresentatività della politica contemporanea, non possiamo non partire da una riflessione critica sugli organi di rappresentanza presenti nelle assemblee rappresentative degli stati democratici contemporanei, e cioè, i partiti politici di massa. I partiti politici sono i principali organi di mediazione tra lo Stato e i cittadini, e cioè, i gruppi che raccolgono una o più sensibilità popolari, la concretizzano in proposte politiche e le portano all’interno dell’assemblea rappresentativa. Ma è veramente così? I partiti politici sono davvero dei reali mediatori popolari? Il filosofo e giornalista italiano Antonio Gramsci riteneva che i partiti non fossero realmente degli autentici organi di rappresentanza popolare. In un articolo comparso sul giornale L’ordine nuovo, l’intellettuale organico scriveva queste parole:

 

« I partiti democratici dovevano servire a indicare uomini politici di valore e a farli trionfare nella concorrenza politica, in realtà, oggi gli uomini di governo sono imposti dalle banche, dai grandi giornali, dalle associazioni industriali e i partiti si sono decomposti in una molteplicità di cricche personali ai servizi dei poteri economici. »

 

Al fine di comprendere la veridicità di quest’affermazione dobbiamo, innanzitutto, prendere coscienza di un fatto. Se ci si fa caso, nella mentalità comune, il “buon politico” non è mai tale se non è stato un bravo imprenditore, un bravo industriale, un self made man, uno stacanovista: se si vuol fare una brillante carriera politica, occorre una brillante carriera imprenditoriale ed economica, in caso contrario, non si avranno le competenze necessarie. Negli anni Novanta, in Italia, andava molto di moda concepire lo Stato come una grande azienda collettiva: i cittadini erano i dipendenti, con un loro preciso posto nella piramide sociale e al vertice il primo ministro imprenditore garante dell’ordine e del benessere della società. 

L’organizzazione socio-politica della collettività descritta sopra non è una metafora del “buon funzionamento” della res publica, come qualcuno potrebbe credere, è esattamente la realtà che si è tentato di mettere in pratica. Si tratta della trasposizione di un modello economico che va a plasmare la concezione politica. Come vedremo di seguito, questa mentalità si fonda proprio sul problema individuato da Gramsci, e cioè, l’asservimento del sistema politico al sistema economico.

 

Per capire come si generi questo schema mentale di "Stato = azienda" e "buon politico = buon imprenditore" sarà indispensabile fare un piccolo esperimento mentale. Poniamo l’esistenza di uno stato immaginario denominato A abitato da due gruppi sociali, uno minoritario chiamato X e uno maggioritario chiamato Y. 

Il gruppo minoritario X detiene la maggior parte delle risorse territoriali, monetarie, alimentari, culturali ecc. di A.

X, detenendo la proprietà della maggior parte delle risorse, avrà la possibilità di decidere come gestirle, come distribuirle, come investirle e così via. Il gruppo Y, quindi, dovrà subire le decisioni di X, perché questi ultimi hanno a disposizione i beni della casa comune e se, per un qualche motivo, dovessero decidere di “chiudere i rubinetti” nessuno mangerà più. X diventa, quindi, un’élite economica che andrà a forgiare e strutturare gli organi di rappresentanza di A, i quali saranno lo specchio modellato sulla struttura economica del gruppo elitario X. Oltre a ciò, per evitare una messa in discussione dell’autorità di X da parte di Y, serviranno anche delle giustificazioni al potere del gruppo minoritario X, in quanto, la maggioranza Y potrebbe non accettare di sottostare alla volontà della minoranza X. Il gruppo X, ad esempio, potrebbe servirsi di una qualche narrazione che ponga, nel modello sociale a lui favorevole, una necessità naturale. Oppure, potrebbe stabilire che il modello sia l’unico sistema possibile per evitare di far precipitare la società nel baratro e nel caos. Queste narrazioni sono state dei topos applicati, nel corso della storia, in diverse forme: il feudalesimo e il capitalismo liberale sono due esempi. La politica e i suoi organi di rappresentanza, nel nostro caso i partiti, diventano quindi un facile strumento per far valere a livello istituzionale la propria autorità economica. In questo modo, lo status quo non sarà mai messo in discussione e ogni tentativo di riforma verrà considerato utopistico e ingenuo.

Ecco quindi individuata la ragione alla base dell’associazione dello Stato a una grande azienda con a capo una sorta di lungimirante amministratore delegato. Il termine economia, non per nulla, è composto dal termine greco οἰκονομία, il quale è composto da οἶκος (dimora) e νομία (norma), a voler indicare la gestione della casa e dei suoi beni. Nel nostro caso la dimora è la casa comune, lo Stato e da ciò si vede lo stretto legame tra governo politico e potere economico.

 

Quanto detto nel paragrafo precedente potrebbe essere passibile di un’obiezione, perché, oggi, noi viviamo in una democrazia in cui i rappresentanti del popolo sono eletti da tutti i cittadini di uno Stato e, poiché il voto è segreto, è garantita la totale uguaglianza tra le classi sociali. Sì, questo è vero, tuttavia, come abbiamo detto, il potere politico effettivo è tale solo se c’è la possibilità di gestire le risorse economiche e, se non è presente un’equa distribuzione di queste ultime, allora la democrazia non sarà veramente tale.

Il giurista cattolico Giuseppe Dossetti distingueva due tipologie di democrazia denominate democrazia formale e democrazia sostanziale. La prima è quella in cui i cittadini hanno il solo diritto all’elettorato e la libertà d’espressione, la seconda, invece, veniva descritta come «vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo quello politico ma anche a quello sociale ed economico». Quella in cui viviamo oggi non è una democrazia sostanziale, bensì formale a carattere plutocratico, ossia, una democrazia in cui tutti votano i propri rappresentanti e possono esprimersi liberamente, ma, in un tacito consenso e una tacita ipocrisia, le decisioni effettive sono prese dalla classe sociale con maggiori risorse economiche. In un opuscolo dal titolo Cristianesimo e democrazia, il filosofo francese Jaques Maritain affermava: «La tragedia delle democrazie moderne è che non sono ancora riuscite a realizzare la democrazia». Un’idea analoga a quella di Dossetti e Maritain venne proposta anche dal filosofo tedesco neomarxista Theodor W. Adorno, in un discorso tenuto presso l’Università di Vienna nel 1967 e recentemente pubblicato in lingua italiana con il titolo Aspetti del nuovo radicalismo di destra. In questo discorso, Adorno affermò che «da nessuna parte la democrazia si è concretizzata in modo effettivo e completo dal punto di vista del contenuto economico-sociale, ma è rimasta sul piano formale».

 

Jacques Maritain (1882-1973)
Jacques Maritain (1882-1973)

 

La fondamentale problematica dell’odierna politica e, consequenzialmente dei suoi organi di rappresentanza (partiti politici), è un problema endemico, che intellettuali di differenti sensibilità politiche, come quelli citati nei precedenti paragrafi, avevano già notato a loro tempo. L’incapacità dei partiti di rinnovarsi è causata dal loro essere piegati a un modello socioeconomico intrinsecamente immobilistico e inegualitario che viene imposto a livello politico, così come sostenuto da Gramsci. Perciò, la volontà realmente incisiva nell’azione politica non è quella della maggioranza (come dovrebbe essere in un sistema autenticamente democratico). Si ritorna quindi all’accusa di Maritain mossa alle moderne democrazie, le quali non sono ancora riuscite a realizzarsi nella loro pienezza. La sovranità appartiene formalmente al popolo, ma nei fatti questa sovranità non può essere pienamente esercitata se non nella cabina elettorale. La struttura politica è determinata dal potere economico, i cui detentori possono organizzarsi e determinare le decisioni politiche. 

 

Un’uscita dalla situazione descritta fino a questo punto è veramente possibile? Personalmente, penso di sì. Tuttavia, è indispensabile un cambio di rotta in ambito economico. Il punto di partenza per rinnovare la politica e rendere il sistema più rappresentativo oltre che democratico è il partire dalle cellule del sistema economico e cioè le fabbriche. In una nota intervista intitolata Che cos’è la democrazia?, il filosofo e giurista italiano Norberto Bobbio individuò perfettamente la necessità di un cambio di paradigma economico che partisse dalle fabbriche: 

 

« Qual è poi il centro di potere in cui dovrebbe avvenire quest’estensione delle regole democratiche? È la fabbrica. All’interno della fabbrica non esiste un regime democratico: le decisioni vengono prese da una parte sola, dall’altra parte c’è la possibilità di un certo controllo delle decisioni, ma le decisioni non vengono prese da tutte le parti che sono in gioco in quel […] centro di potere. »

 

Se tutti avessero un’equa parte di gestione delle risorse, a cominciare da quelle del proprio ambiente di lavoro, allora sarebbe più semplice raggiungere una democrazia reale in cui tutti prendono parte all’amministrazione della politica. Occorre quindi iniziare da un rafforzamento della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, partire dal basso per poi poter andare ad incidere nella politica e nei suoi organi di rappresentanza.

Lo stretto legame tra potere politico e potere economico, e l’asimmetria nella distribuzione della ricchezza e delle risorse, hanno reso impossibile la nascita di almeno un movimento partitico dal basso capace di avere un peso nella politica. Solo se esso si piegherà al paradigma vigente potrà avere una possibilità di affermazione. Non a caso, come detto all’inizio, Gramsci ha osservato come i partiti politici democratici si siano radicalmente distaccati dalla loro funzione originaria. Chi ha di più è considerato il «migliore», chi ha di meno è considerato «incapace». 

Un secondo punto programmatico, legato alla partecipazione economica, è quello della partecipazione politica, se i cittadini non partecipano e non si organizzano, allora, i cambiamenti non saranno possibili.

La progressiva atomizzazione dei cittadini è il primo strumento che permette alle élite economiche di imporre il suo volere alla politica, proprio perché esse sono molto più coordinate rispetto alle altre classi sociali meno abbienti. Come dimostrato dalla filosofa Hannah Arendt nel suo capolavoro Le origini del totalitarismo, la democrazia si nutre di partecipazione e, se questa manca, muore. Il nutrimento è fondamentale per la vita e il nutrimento della democrazia è proprio la partecipazione dei cittadini. Come ha scritto il teologo tedesco Jürgen Moltmann: «Le democrazie moderne sono minacciate, più che dai partiti totalitari di destra e di sinistra, dall’apatia del popolo, da cui pur deriva “ogni potere dello stato”», e ancora:

 

« Al posto di una democrazia partecipativa necessaria, ora abbiamo una democrazia assenteistica. Ci si ritrae nel privato, ci s’interessa unicamente della propria azienda, non si vuol nemmeno sentire parlare di politica, non si vuole rimanere coinvolti. Così la “classe politica si estranea dal popolo e il popolo perde la fiducia nei politici. »

 

Questa è la precisa descrizione della situazione che stiamo vivendo oggi, il progressivo indebolimento della partecipazione che porterà gradualmente alla scomparsa, già quasi totalmente attuata, della sovranità popolare e della rappresentanza democratica.

 

J. Moltmann
J. Moltmann

 

Ciò che occorre fare, in conclusione, è abbandonare una certa visione dell’economia che non mira all’interesse comune, ma a quello individuale. C’è bisogno di riforme strutturali in senso welfarista e redistributivo, riforme che non avverranno, se l’unica volontà di cui i partiti si fanno portavoce è quella delle élite economiche. 

Ecco quindi spiegato perché la riforma sostanziale della politica e dei partiti viene sbandierata da anni, senza mai venir attualizzata. Il coinvolgimento dei cittadini e l’applicazione della volontà della maggioranza sono le vie che conducono al rinnovamento politico e istituzionale. Come affermava Dossetti, la democrazia sostanziale si attuerà solamente quando «tutto il popolo» avrà accesso a «tutto il potere». Fino a quel momento, i partiti saranno dei meri “catafalchi” asserviti al sistema socioeconomico vigente e la politica non sarà orientata al bene comune e alla massima felicità della collettività, bensì al bene individuale della minoranza socialmente ed economicamente più affermata e benestante.

 

 

22 settembre 2022

 









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