Qualche anno prima del Mulino di Amleto, Giorgio de Santillana aveva già riscritto i paradigmi della storia della scienza e della filosofia occidentale con Alle origini del pensiero scientifico, pionieristico saggio adesso ripubblicato dall’Adelphi.
L’opera di Giorgio de Santillana rappresenta un punto estremo della riflessione che il Novecento ha tracciato sul mito. Nato a Roma nel 1902, figlio di un noto giurista, de Santillana si formò come studioso di fisica tra Italia e Parigi, per poi trasferirsi negli Stati Uniti d’America a seguito delle leggi razziali, arrivando a insegnare al MIT. Molto presto emerse in lui, al fianco e al posto di un interesse scientifico a sé stante, una prospettiva originale sulla storia e sulla filosofia della scienza, e adesso, a quasi cinquant’anni dalla sua morte avvenuta nel 1974, è ricordato come uno dei più originali interpreti del rapporto tra scienza e mito presso le civiltà più antiche. La sua opera più nota, Il mulino di Amleto, scritta a quattro mani con Hertha von Dechend ed edita per la prima volta nel 1969, è tuttora oggetto di ricorrenti controversie, in una ricezione critica polarizzata che la bolla o come capolavoro o come ammasso di imprecisioni e forzature: certo è che si tratta di un’opera mastodontica che, noncurante dei tempi e dei luoghi, spazia tra Shakespeare e l’originale Amleto norrenico, tra l’Edda e il Kalevala, tra Omero e la più antica epopea di Gilgamesh, fino ad arrivare ai Veda, alla ricerca di un originario archetipico cosmico alla base del pensiero mitico.
Sempre di de Santillana è anche il saggio Le origini del pensiero scientifico, originariamente pubblicato nel 1961 in inglese e tradotto in italiano pochi anni dopo da Giulio De Angelis, appena riproposto dall’Adelphi in una nuova e ben curata edizione. Al confronto con Il mulino di Amleto forse la prospettiva di partenza de Le origini del pensiero scientifico può apparire meno ambiziosa: il saggio di de Santillana tenta infatti “solamente” di ripercorrere gran parte della storia della filosofia e della civiltà greco-romana. Questa cavalcata lungo tutto il millennio tra il 600 a.C. e il 500 d.C. permette a de Santillana di evidenziare i molteplici legami del pensiero classico con la scienza antica che una certa vulgata rinascimentale sull’opposizione tra sapere umanistico e sapere scientifico aveva rimosso.
In una maniera per certi versi speculare all’operazione che Giorgio Colli compiva negli stessi anni, ma con un approccio interdisciplinare e scientista al posto della sapienza filologica dello studioso torinese, de Santillana parte da Anassimandro e Talete e si ferma ai primi secoli dell’era cristiana, con il tramonto dell’età classica – gli ultimi ritratti che de Santillana traccia arrivano a nomi come Plutarco e Proclo, e non mancano, lungo tutto il libro, vere e proprie sezioni antologiche che riportano a piè pari lunghe citazioni da fonti antiche a volte parte del corpus della filosofia occidentale, altre volte, ed è il caso più interessante, da testi certo non celebri di trattati scientifici dell’antichità. Notevoli le pagine su Empedocle, sugli atomisti, sui cosiddetti sofisti; affrontando poi il periodo ellenista, in cui le figure dell’inventore e dello “scienziato” si affrancano maggiormente da quella del filosofo, de Santillana spiana la strada a un’altra importante operazione di controstoria consumatasi sul finire del secolo, la scrittura de La rivoluzione dimenticata di Lucio Russo, corposo saggio sulle incredibili conquiste matematiche, scientifiche, tecniche raggiunte nel bacino del Mediterraneo durante l’ellenismo, poi rimaste silenti tra l’avvento del Cristianesimo, il consolidamento e il crollo dell’Impero Romano e la distruzione della biblioteca di Alessandria.
È proprio su questi momenti di passaggio, e sui foschi momenti di transizione che caratterizzarono l’antichità, che la prosa di de Santillana trova i suoi momenti migliori: del resto i lettori de Il mulino di Amleto conoscono bene la sua fascinazione per le fasi storiche in cui time is out of joint, e la sua abilità a passare dallo studio comparato delle mitologie a una forma di storiografia della scienza che è anche archeologia del pensiero, e da qui alla filosofia tout court. Se le prime pagine de Le origini del pensiero scientifico raccontano con grande equilibrio l’avvio del pensiero occidentale presso i pensatori ionici, abbandonando la retorica dell’emersione aurorale della filosofia greca ma ricostruendo con chiarezza le concause storiche, sociali, economiche e concettuali che permisero ciò, grande fascino ha il racconto della “crisi dell’irrazionale” consumatasi presso il V secolo a.C. nelle comunità pitagoriche della Magna Grecia. Qui emerge la figura di Ippaso, estraniato dalla comunità pitagorica perché colpevole di aver rivelato fuori dalla cerchia che il rapporto tra il lato e la diagonale del quadrato risultava non esprimibile in numeri. Oppure, secondo un’altra versione della stessa storia, precisa de Santillana, «il tradimento di Ippaso si dice che consistesse non tanto nell’aver rivelato l’esistenza dell’irrazionale, quanto nell’aver divulgato la costruzione da lui scoperta della ‘sfera con i dodici pentagoni’, cioè il dodecaedro, uno dei cinque Corpi Cosmici». In un modo o nell’altro, il tradimento di Ippaso segnò un notevole avanzamento nella storia della matematica occidentale: gran parte delle teorizzazioni successive furono costrette a tenere conto, e a volte scelsero come loro pietra angolare, l’esistenza dei numeri irrazionali; e «venti secoli dopo», evidenzia de Santillana, «Keplero doveva riprendere e portare avanti il programma pitagorico con la costruzione del dodecaedro stellato».
Quella degli antichi Greci come anticipatori di teorie e modelli che la scienza e la stessa filosofia europea arrivarono a ri-formulare solo secoli se non millenni dopo è uno dei grandi cavalli di battaglia di de Santillana. Il suo intento non è quello, come sarà in Lucio Russo più di trent’anni dopo, di evidenziare un mancato punto di svolta della tecnica e della storia occidentale che un complesso di cause ritardò di buoni quindici secoli: quando de Santillana scrive, ad esempio, che con la sua teoria del linguaggio «Gorgia ci appare come un Wittgenstein primitivo e frondeur», il suo obiettivo sembra, più macroscopicamente, evidenziare i prestiti effettivi e mancati, le implicazioni giunte tardi a formulazione, di un pensiero occidentale che non è né solo scientifico né solo filosofico, ma, almeno per i suoi primi due o tre secoli, una perfetta simmetria tra le sponde.
Nel ripercorrere la biografia di Socrate tra leggende e aneddotica, de Santillana, in questo un po’ nietzschiano, evidenzia il giovanile interesse per l’atomismo e il successivo disincanto, che portò il filosofo ateniese a perdere interesse per la natura e per le indagini Περί Φύσεως. In conclusione, scrive de Santillana rispetto a Socrate, «che vi sia un elemento pitagorico nel suo pensiero è innegabile, come si vede bene dal suo interesse per l’immortalità dell’anima; ma del complesso delle idee pitagoriche egli si preoccupava di estrarre una sola cosa e cioè quello che la musica e i numeri, in fin dei conti, erano intesi a promuovere: la ‘cura dell’anima’». Dalla lezione di Socrate prese le mosse la filosofia di Platone, che acuì ulteriormente l’«abisso fra astrazione e realtà», arrivando a una concezione che de Santillana non esita a definire del tutto reazionaria: «essa faceva deflettere il pensiero pitagorico dal tentativo paziente di trovare dati numerici all’interno dei fenomeni reali, cioè di scoprire per via induttiva dove il numero governa la materia esattamente»; la stessa astronomia venne scalzata dalla sua posizione di preminenza - e al recupero delle nozioni antiche in materia de Santillana dedicò, oltre a Il mulino di Amleto, i saggi raccolti in Sirio, anch’essi scritti spesso a quattro mani con la Dechend.
Non che Platone fosse anti-scientifico tout court, de Santillana non disse affatto questo: ma con la sua teoria delle idee e tutte le sue implicazioni Platone ebbe l’onore e l’onere di imprimere un corso ben preciso al successivo sviluppo delle scienze occidentali, attribuendo alla matematica astratta un podio che solo molti secoli dopo venne relativizzato. «Il solo vero modo di guardare ‘verso l’alto’ è indagare il puro Essere, che non si può affatto vedere», insegnava Platone, ormai in volo verso l’iperuranio: eccole, le nuove origini del pensiero scientifico europeo, che solo il passaggio tra era cristiana ed umanesimo seppe rinnovare, avviando un nuovo corso che trovò compimento nell’Illuminismo, quando, tuttavia, la separazione definitiva di scienza e mito forse ne rimosse una parte importante della scienza.
Le origini del pensiero scientifico è un’immersione archeologica nella mentalità classica e nelle sue evoluzioni che a tratti sembra presagire, se non richiedere, una prosecuzione che, un po’ alla Weber, attraversi anche i secoli più recenti, al momento in cui la nostra civiltà ha definitivamente imboccato le vie della tecnica e del capitalismo. Il successivo Il mulino di Amleto in realtà andrà ancora più indietro nel tempo, fino ai primordi del pensiero mitico, ed estenderà ben oltre i confini del Mediterraneo per portare avanti la sua ricerca; e le pagine di maggiore attualità, di attualità nascosta, dell’ultima parte della produzione saggistica di de Santillana restano proprio quelle che chiudono Le origini del pensiero scientifico.
Nelle ultime pagine de Le origini del pensiero scientifico ci troviamo infatti tutt’a un tratto lì dove Il mulino di Amleto ci insegnerà a restare, a cavallo tra i secoli: da un lato de Santillana ricorda un’ultima volta Proclo, «fervidissimo iniziato a culti e riti gnostici» ma anche «autore di svariate opere d’astronomia e trigonometria sferica»; poi appare la figura di Guido Guinizelli, che a metà Duecento insegnava nelle sue poesie che solo l’animo gentile e capace di amore intellettivo può ricevere vita dalla luce del sole, perché «fere lo sole el fango tutto ‘l giorno / vile riman, né ‘l sol perde calore»; e in ultimo de Santillana ricorda la prefazione di Copernico al suo De revolutionibus orbium coelestium, con un’analoga fede nelle capacità e nelle prerogative della scienza, nelle sue possibilità di intuizione epocale, e con la necessità di non seguire «l'esempio dei pitagorici e di alcuni altri che erano soliti tramandare i misteri della filosofia soltanto a congiunti ed amici non per iscritto, ma oralmente».
«Può sembrare adesso ben dimenticata», conclude de Santillana, ma questo ideale eroico e quasi iniziatico della ricerca scientifica «tien luogo di teoria dei valori là dove di valori poco si parla, ma solo di ipotesi di lavoro. Esotericamente almeno, e per i pochi, è il Sistema di Avvistamento a Distanza e Preallarme con cui la scienza si difende contro l’avanzata del formalismo meccanizzato e dei dinosauri elettronici». Mantenere la pretesa metafisica che la scienza aveva alle sue origini, quella convivenza, che non era confusione, con le profondità più sagge del mito e con certe forme di estasi intellettuali, è un antidoto a maggior ragione oggi che la tecnica, erede di una scienza che non accenna a morire, è arrivata a produrre uno anzi infiniti mondi virtuali – forse l’ultima conquista del platonismo in tempo di secolarizzazione e di aridità del pensiero.
La lezione di de Santillana allora non sta più solo nel superare l’usurata contrapposizione tra sapere umanistico e competenza scientifica, un messaggio che nei primi anni sessanta poteva suonare ancora abbastanza rivoluzionario, ma che adesso è à la page. La lezione di de Santillana, che scrisse questo libro quando insegnava ancora al MIT e si trovava, per molti versi, al centro di quelle coordinate da dove il vortice dell’informatica, del digitale e del virtuale di lì a poco avrebbe preso il via, sta nel guardare questi fenomeni con sguardo antico riscoprendone l’ancestralità, l’originarietà, la pienezza.
Adesso che i “dinosauri elettronici” a cui poteva alludere de Santillana sono stati sostituiti dai supercomputer, uno dei paradossi della virtualità sta proprio nel restaurare, con la generazione di un mondo parallelo e incorporeo, scorporato ma simmetrico e comunicante col nostro, i più antichi sogni cosmogonici. E non è l’uomo a reggere il gioco, ma già la macchina, anzi, un algoritmo, un’infinità di algoritmi, anch’essi incorporei: il digitale segna il ritorno, anzi l’attualizzazione, del logos, inestricabile sinolo di potere strutturante, mente razionalizzante e calcolo autocomputantesi che è ancora tutto greco, e greco in quell’unità dei saperi riscoperta proprio da de Santillana – il virtuale sarà, forse, una nuova faccia del platonismo, un ribaltamento dell’iperuranio, costretto a trafugare dal nostro mondo modelli, schemi, icone, feticci per purificarli in un mondo di numeri, fino a che il segno di tendenza non si invertirà e allora sì che avremo davvero una civiltà virtuale, senza cultura, e prenderà forma sullo schermo e oltre lo schermo quel Grande Animale che proprio Platone aveva saputo teorizzare. Le origini del pensiero scientifico lasciavano spazio anche ad altre possibilità, ma la cesura platonica, e la sua artefatta cancellazione a cui forse stiamo per assistere, questa tendenza hanno. È sinistro, ma in maniera sempre più soffocante – l’origine è la meta, davvero.
31 agosto 2023
DELLO STESSO AUTORE
Alla fine del rito. Tra de Martino e Byung-Chul Han
"La rivincita del paganesimo". Atene contro Gerusalemme: di nuovo
Foucault double-face. Due libri sul filosofo
SULLO STESSO TEMA
V. Gaspardo, La filosofia delle scienze empiriche
A. Martini, Per una rivalutazione di ciò che è scientifico
G. Comerci, Sull'effettiva utilità della filosofia