La lettera al padre, pubblicata postuma nel 1952, è l’unico scritto autobiografico di Franz Kafka. È però uno scritto unicamente riparatorio, un solo tentativo di rimarginare il rapporto con il padre? Cosa ci comunica il Kafka autore sul Kafka personaggio?
« Sarei stato felice di averti come amico, come principale, come zio, come nonno e persino (sebbene con qualche esitazione) come suocero. Solo come padre eri troppo forte per me… » (F. Kafka, Lettera al padre)
Con questa breve frase, posta agli inizi della lunga lettera destinata al padre Hermann, Kafka riassume molti dei punti salienti del rapporto con suo padre: la superiorità e la forza del genitore, la stessa che emergeva quando, togliendosi le vesti nello spogliatoio di casa, il giovane Franz non poteva che paragonare il proprio corpo esile e consunto a quello robusto e imponente di Hermann; la duplicità di un rapporto che costringe alla convivenza una strana e “parassitaria” forma di affetto ed una profonda e lacerante incomprensione; non ultimo, poi, il desiderio di staccarsi definitivamente dall’orbita del padre e la tendenza a ricercarlo in altre forme, quella di un nonno, di un datore di lavoro, di un amico. Figure che sono certamente importanti ma che non lasciano segni così profondi e indelebili.
La presenza di temi così personali e intimi della vita dell’autore non può però vincolare eventuali interpretazioni a intendere il testo unicamente come una semplice lettera o come uno scritto autobiografico: certo è che Kafka volesse, almeno stando alle ultime pagine del testo, chiarificare i rapporti con suo padre e renderli più sereni in una comune verità, ma altrettanto probabile è che l’autore fosse ben consapevole del destino a cui la lettera, così come gli altri suoi scritti donati al padre, sarebbe andata incontro: eternamente poggiata sul comodino ed eternamente in attesa di essere letta (vicende a cui Kafka stesso accenna nello scritto).
Destino di cui per l’appunto era ben consapevole la madre che, una volta ricevuta la lettera dal figlio, decise di non consegnarla ad Hermann e di restituirla subito dopo, forse credendo che niente e nessuno, nemmeno lo stesso Franz, sarebbe riuscito a far cambiare idea al marito sul fidanzamento con Julie Wohryzek. Questo è infatti il pretesto che porta alla scrittura della lettera: un fidanzamento che il padre non poteva accettare, non tanto perché la ragazza fosse di umili origini ma soprattutto perché ritenuta particolarmente “leggera” ed inadatta al figlio.
Il tema del fidanzamento è però in realtà piuttosto marginale all’interno della narrazione: Kafka troverà la forza per opporsi al padre e continuare la relazione ma poco prima del rito nuziale rinuncerà a tutto, credendosi fortemente inadatto al matrimonio; Hermann e non Julie è il vero tema della lettera e di una produzione letteraria intera, tanto più se si considera che l’autore, rivolgendosi direttamente al padre, sancì: «nei miei scritti parlavo di te».
« Scrivevo di te, scrivendo lamentavo quello che non potevo lamentare sul tuo petto. Era un addio da te, intenzionalmente tirato per le lunghe, soltanto che, per quanto imposto da te, andava nella direzione da me determinata. Ma quanto era poco, tutto ciò! »
E in effetti, da questo punto di vista, la Lettera al Padre è quasi una guida che Kafka stesso ci fornisce per tentare di evadere dal labirinto della sua psiche: il padre paragona un amico ad un insetto, descrivendolo arbitrariamente come un reietto quasi ai margini della società, ed ecco che tempo dopo appare Gregor ne “La Metamorfosi”, un uomo divenuto uno scarafaggio, rifiutato dalla società e dalla famiglia e schiacciato sotto il peso di una corazza di vesti sociali, imposizioni, doveri, categorie.
E ancora, una cintura eternamente appesa e in attesa di essere utilizzata viene paragonata ad una tortura: se la pena viene inflitta, o si è feriti o si muore e non si sente più nulla, ma se si lascia assistere il condannato alla preparazione dell’esecuzione, di un’esecuzione che potrebbe arrivare o non arrivare, il tutto si trasforma in una tortura ancora più insostenibile della pena stessa. Forte è il richiamo al racconto Nella Colonia Penale, in cui un uomo, per una colpa futile, arbitraria e che non può comprendere, è costretto ad assistere al meccanismo che gradualmente gli assegnerà la morte, non prima di avergli trafitto la pelle, fino a scrivere su di essa le motivazioni della propria condanna.
Il riferimento più significativo resta però quello de Il Processo, a cui l’autore stesso fa cenno nella lettera: «di fronte a te avevo perduto ogni fiducia in me stesso e conseguito in cambio uno sconfinato senso di colpa. (In memoria di questa sconfinatezza, una volta ho giustamente scritto di qualcuno: "Teme che la vergogna possa sopravvivere anche a lui".)»
Richiamando la frase conclusiva de Il Processo e ponendola in relazione con sé stesso e con la propria vita, Kafka ci aiuta a comprendere che esistenza e letteratura non sono, soprattutto nel suo caso, scisse: la scrittura è, nella sua concezione, la naturale prosecuzione di quel senso di peccato, colpa, inadeguatezza e debolezza che si trasmette, senza lasciarci intravedere dove finisca uno ed inizi l’altro, dal Kafka uomo al Kafka personaggio.
Ciò appare evidente se si considera che il protagonista del romanzo è un indefinito K, un nebbioso Kafka, che viene prelevato e tratto in arresto arbitrariamente, senza motivazioni precise, nella propria stanza (non nella propria casa), quasi come quel bambino della lettera, in preda alla sete o desideroso di attenzioni, che viene arbitrariamente prelevato da qualcosa che lo supera per forza e grandezza, suo padre, “quel gigante”, che redige leggi anonime a cui lui è chiamato a rispondere, e che lo scorta, per una colpa imprecisata, fuori, sul ballatoio, nella notte e nell’oscurità.
Ed ecco che nell’influenza del Kafka bambino sull’adulto, una stanza diventa un simbolo di prigionia, un padre autoritario ed imponente il segno di una legge alta, labirintica ed inconoscibile che vince molto facilmente su chi, fungendo da giudice per sé stesso, si dichiara immediatamente colpevole, abituandosi e adattandosi al proprio peccato.
K è un uomo, un bambino che ha imparato fin da subito, per la forza del padre ma anche per un carattere non troppo saldo, a riconoscersi e a pensarsi sempre colpevole: in ogni sua mossa ed in ogni suo comportamento, uomo e personaggio sapevano di essere sbagliati e che presto sarebbe per loro arrivata, tacita o meno, una “condanna”.
Difficile è stabilire con certezza quanto Kafka fosse, nella stesura della lettera e delle proprie opere, consapevole dell’influenza del padre; ancora più complesso è cercare di scindere l’inconscio dal conscio, il trauma dal pensiero personale, le colpe del padre da quelle del bambino; indubbiamente però, plasmato dalla debolezza e dalla sorte dell’individuo, Franz è riuscito a trovare la forza ed il coraggio per parlare anche e soprattutto di ciò che individuale non è.
7 settembre 2023
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