Danilo Dolci e l’educazione come il creativo compiersi di ognuno

 

Danilo Dolci è una delle figure più emblematiche e singolari della cultura italiana del secondo Novecento. La sua pedagogia, affascinante e insieme semplice, è legata, prima che ad una teoria, all’esperienza del centro educativo di Trappeto (a metà strada tra Palermo e Trapani). Lì, in una delle terre più povere e dimenticate del nostro paese, il suo impegno paideutico cresceva e via via si sviluppava come un’opera d’arte capace di far germogliare le menti e i cuori di chi lo ascoltava. Egli, combattendo e denunciando la presenza mafiosa nell’isola attraverso la pratica della nonviolenza, contribuì a suscitare nella gioventù siciliana la speranza del cambiamento, guadagnandosi così l’appellativo di “Gandhi italiano”. Il presente articolo vuole celebrare il cruciale e risoluto cimento di Danilo Dolci nel campo dell’educazione, mostrandone la perdurante attualità.

 

di Giuseppe Montana

 

Danilo Dolci (1924-1997), alla sinistra nella foto
Danilo Dolci (1924-1997), alla sinistra nella foto

 

Per Danilo Dolci, la scuola rappresenta il cantiere del cambiamento, nonché una delle maggiori riserve di energia rivoluzionaria capace di liberare “possibili futuri” e di spingere in avanti i voltati all’indietro verso l’aurora di una società nuova: una società articolantesi come «creatura viva di creature» (D. Dolci, Palpitare di nessi).

 

La scuola dolciana non ha nulla di commerciale. Non segue le logiche del mercato ma quella dei valori culturali ed esistenziali. Essa dispone di due motori: la mente e il cuore. Il primo motore ha il compito di dare trazione ad un pensiero scomodo, non omologabile e non duplicabile. Il secondo ha il compito di dare trazione a copiose cifre relazionali, valorizzando amicizia, legami, emozioni.

 

L'educazione sta quindi più in alto dell'istruzione (D. Dolci, l’educazione): i docenti sono chiamati a forgiare le generazioni di domani: generazioni di teste ben fatte e critiche, non teste piene ed intellettualmente atrofizzate. Menti plurali capaci di dissentire, di montare e smontare le conoscenze, e non menti succubi del pensiero unico dominante, manipolate dal monodimensionale[1] mainstream. Menti con occhi ben aperti sugli incanti, i sogni e le utopie. Menti innamorate della lettura e della scrittura: due zattere per approdare sulle spiagge del pensiero allogeno, diretti verso l'isola della creatività dove splendono al sole le conoscenze “non utili”, ovvero non immediatamente spendibili.

 

L’educatore di formazione dolciana, osservando e ascoltando le attitudini, le vocazioni e le inclinazioni intellettive dei suoi alunni, li stimola a far emergere la loro forma formata, ossia quel virtuale bagaglio di doti e talenti psico-spirituali nascosti in ciascun soggetto, motivandone così lo sviluppo (forma acquisita). Egli sogna i suoi studenti, cioè riesce a intravedere la loro ideale figura[2], aiutandoli a dischiudere le potenzialità che li anima davvero. Il Dolci stesso era un esperto di maieutica, intesa come risveglio della personalità e dei suoi predicati più reconditi:

 

« Educare forse significa contribuire a svegliare l’interesse profondo, rispettando i valori genetico-potenziali. […] E’ il creativo compiersi di ognuno. » (D. Dolci, Palpitare di nessi)

 

 

Per il Nostro, dunque, l’educazione non coincide con un mero processo di addestramento o di adeguazione conformistica ad un modello precostituito, ma va intesa come un progressivo atto di emancipazione del soggetto. L’educare non tarpa ma valorizza l’intima spinta a realizzarsi; e-duce, porta ad espressione l’invisibile unicità del fanciullo insieme alle sue singolari esigenze creative. L’educare libera, non ammaestra:

 

« L’ammaestrare unidirezionale da cattedre, pulpiti o tribune costringe plastici recipienti, deforma, spegne e blocca l’elasticità proteiforme del singolo, causando rigetto, nevrosi e umana polvere. » (Ivi)

 

 Insomma, la semplice e unilaterale trasmissione del sapere deforma la plasticità dell'io sino a spegnere l'innato bisogno di apprendere. Per combattere la nausea del rimasticato, l’olezzo mellifluo delle citazioni, bisognare riscoprire, secondo il Dolci, la comunicazione (D. Dolci, Dal trasmettere al comunicare).

 

La comunicazione disegna spazi inediti e lavora a costruire una via, sebbene i risultati non siano mai istantanei. Stabilisce collegamenti, nessi, accordi inter-soggettivi e combatte l’individualismo, le tendenze impersonali e spersonalizzanti. Per comunicare non basta l’iniziativa del singolo, ma è indispensabile la corrispondenza di altri, l’emersione di differenti visioni del mondo e di nuove prospettive. L'io, infatti, non è mai da solo, ma è sempre ricompreso in un noi, in una relazione con gli altri. È sempre per altro. La relazione è però autentica solo se ognuno è libero di autodeterminarsi, di esprimersi e di agire nel modo che sente davvero suo, consentendo però all'altro di fare lo stesso, dando così vita ad un Noi, ad un progetto comune. La comunicazione, dunque, è sempre un processo bidirezionale, un “reciproco adattamento creativo” tra le parti in relazione; è forma eminente di connessione inter-soggettiva:

 

« La comunicazione è sostanziata da ognuno; a poco a poco matura così una gestazione culturale attenta a non escludere nessuno, ma a valorizzare ognuno. E’ un reciproco adattamento creativo. » (D. Dolci, Palpitare di nessi)

 

Promuovere la comunicazione vuol dire favorire la cultura della pace, dell’unità nella differenza: una cultura oggi più che mai caduta in discredito sia nella scuola sia nella società.

 

Promuovere la nonviolenza significa esplorare con ostinazione le sue vie sotterranee, quando sulla scena del mondo dominano solo i rapporti di forza e le guerre.  Significa valorizzare la via del dialogo, concepito nel segno della correlazione universale: dialogo come ascolto e sforzo di compenetrazione con l’altro, nel rispetto della sua alterità e nella consapevolezza che ciò, ancorché raro e fragile, è sempre possibile. Questa è la docta spes che Danilo Dolci ci consegna in eredità. E con essa l’orto-desiderio di co-produrre la realtà,  trasformando le odierne incompatibilità tra i popoli in nuovi, dinamici e gioiosi processi di accordo inter-personale, infuturendo il presente nella direzione di una inter-simpatia planetaria.

 

[1]Già Marcuse aveva efficacemente mostrato, nel suo L’Uomo ad una dimensione, come il pensiero monodimensionale e acritico è promosso sistematicamente dai potenti della politica; l’atrofia degli organi mentali necessari per afferrare contraddizioni ed alternative giunge a prevalere. La società sbarra la strada a tutta una serie di idee e comportamenti d’opposizione, visti come nevrotici o complottistici. Insomma, l’unico pensiero ammesso dalla nostra società è proprio quello guarito dal desiderio di trasgredire uno schema concettuale stabilito o dal desiderio di trasformare la realtà e ciò che apparentemente si impone come necessario e immodificabile. Per converso l’unica filosofia apprezzabile è quella del “lascia tutto come si trova”, quindi anti-utopica, priva di sogni in avanti e di visioni profetiche e teleologiche che ci permettono di immaginare nuovi scenari.

[2]Evidente è qui il richiamo all’ideale greco della Παιδεία, intesa come processo di formazione e auto-coltivazione. Forgiare l’uomo è il suo peculiare imperativo. Ecco perché è pertinente tradurre Παιδεία con Humanitas. Ad accomunare gli uomini, a far fiorire la comunità non è il sangue, non è la lotta per la stessa patria, ma l'aver ricevuto una forma educativa: una forma che avvicina, unisce e lega l'universo abitato.

 

4 gennaio 2023

 




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