Nella nostra contemporaneità, non è difficile rendersi conto di quanto la riflessione sull’esperienza etica, anche quella a noi più prossima, sia sempre più spesso contrassegnata da un forte tasso di astrattezza, frutto a sua volta di un’incapacità a porre adeguatamente a tema la concreta esperienza pratica dei soggetti agenti. E tuttavia, sarebbe un errore grossolano ignorare come siffatta astrattezza altro non sia che una declinazione di quel carattere estrinseco che spesso contraddistingue la riflessione morale nel suo essere attività in vista di una realizzazione.
di Tommaso Di Caprio
Più che ogni altro periodo dell’umanità, il tempo attuale è attraversato da una profonda crisi etica, espressione della totale indisponibilità al pensiero dell’uomo contemporaneo. Per cercare di dimensionare in modo opportuno la portata della questione, è sufficiente osservare ciò che accade nella società contemporanea, dove la sfera dei rapporti e delle relazioni umane, presi nella loro generalità al di fuori delle interazioni prodotte dai contesti famigliari, è ormai scandita da una serie di superficiali esercizi di buona civiltà privi di intelligenza pratica ma vòlti sostanzialmente a soddisfare standard, sempre più elevati, di utilità e convenienza. Nella contemporaneità, le relazioni sociali sono diventate vere e proprie transazioni che, seguendo il modello dell’economia piuttosto che quello dell’etica, finiscono col rendere gli esseri umani degli utenti, spesso inconsapevoli, preda di un bisogno primario (la sopravvivenza) e di una endemica indisponibilità ad impegnarsi per il bene comune, nel segno di un individualismo sempre più pervasivo. Tuttavia, nel corso della storia dell’umanità, anche quando il divenire storico degli eventi viene piegato arbitrariamente dal più basso degli istinti della ragione, l’ideologia, l’alterazione della percezione della realtà che ne segue non riesce ad irretire in modo definitivo la coscienza critica. Per questa ragione, nell’ambito della riflessione etica, la questione riguardante l’essenzialità ontologica della virtù può reclamare senza alcun timore il proprio spazio vitale, anche alla luce dell’attuale contesto culturale e storico, giacché rappresenta ancora oggi una delle possibili strade da percorre per indagare la ratio cognoscendi dell’agire morale.
Come si può ben vedere, già in questa brevissima introduzione, sono stati gettati in pasto alla coscienza critica, di cui si parlava poc'anzi, alcuni termini piuttosto distanti dalla riflessione etica contemporanea che faticano ad imporsi come riferimento teorico generale. Questo avviene perché, pensare oggi di poter realizzare una dottrina etica che abbia come punto di arrivo il concreto compimento della virtù non solo è del tutto anacronistico ma può addirittura essere controproducente, in quanto pone l’uomo moderno di fronte alla difficoltà di implementare una strategia per certi versi già adoperata per affrontare problematiche sin troppo complesse. Per mettere a fuoco questo aspetto si deve tenere presente che, nella contemporaneità la relazione tra riflessività ed effettività dell’azione morale ha subìto diversi stravolgimenti finendo col trasfigurare in modo quasi irriconoscibile il rapporto tra i due concetti; rapporto che è invece indispensabile preservare, nell’ordine rigoroso di riflessività-effettività, se si intende perseguire la realizzazione di una dottrina etica incentrata sul compimento della virtù. Ora, il compito primario del presente lavoro è proprio quello di indagare il rapporto tra riflessività ed effettività delineando alcune delle fasi determinanti dell’evolversi della coscienza dell’azione morale nella storia del pensiero occidentale, per provare a definire qual è il posto occupato dalla virtù, se ne occupa ancora uno, nell’etica filosofica contemporanea. Nella prima parte del saggio verranno analizzate le modalità che hanno permesso al pensiero filosofico occidentale di trasformare il rapporto tra riflessività ed effettività nell’ambito dell’agire morale, invertendone di fatto i poli, a partire dall’analisi della critica integrale all’idea dell’immediatezza dell’azione virtuosa. Nella seconda parte, invece, ci si focalizzerà sull’analisi del movimento dialettico attraverso cui la coscienza moderna è riuscita a trasformare radicalmente l’essenza originaria del termine ἀρετή, con scopo di esplicitare il nesso teorico che lega il comportamento del virtuoso alla riflessività morale, anche alla luce di quelle concezioni filosofiche di stampo utilitaristico che preferiscono definire la natura dell’agire morale sulla base di un calcolo della felicità e della convenienza attese.
La scintilla che ha fatto divampare la fiamma dell’interesse sul presente argomento è una breve frase di Paolo da Certaldo che recita così:
« Se vuoi essere libero e non servo, fatti servitore della virtù e non dei vizi ».
Del resto, anche una frase apparentemente semplice e di immediata comprensione, com’è quella del mercante toscano, può celare dietro la sua espressione formale qualcosa che va oltre la mera conoscenza esperienziale del mondo. Infatti, non è errato sostenere che la saggezza pratica visibile nelle trame dei consigli e dei precetti umani, rappresenta soltanto la forma, il guscio delle cose, mentre la sostanza è qualcosa di riflesso, di pensato e di realizzato, quanto meno a livello di astrazione concettuale e di esperimento mentale. Ovviamente, nel campo di una professione estremamente pratica come quella del mercante, le sottigliezze filologiche e semantiche non possono trovare lo spazio che meriterebbero, giacché il linguaggio deve essere chiaro e semplice e deve poter attingere ad un corollario di risorse e tropi che sono propri delle categorie merceologiche di riferimento. Tuttavia, l’idea di virtù che ritroviamo nell’espressione di Paolo da Certaldo non è così distante, nella sua sostanza, da quella che avevano gli antichi greci.
Nel mondo greco la parola ἀρετή era inizialmente estranea al campo della riflessione morale in quanto definiva la capacità dell’individuo di realizzarsi portando a compimento un’azione che, per quanto non fosse mai moralmente neutra, aveva a che fare con aspetti eterogenei dell’esistenza (guerra, economia, politica, etc.). In tutte queste faccende, però, l’uomo greco si identificava, realizzando il proprio sé non soltanto nella dimensione pratica ma definendo ontologicamente i limiti e le possibilità di questa realizzazione. D’altronde, nella parola greca ἀρετή la radice è la stessa di ars, e nel mondo greco-romano l’arte inglobava in sé un insieme di capacità e tecniche il cui obiettivo era la realizzazione di un’opera che non fosse estranea al suo creatore. Anche nella realizzazione dell’ἀρετή, dunque, l’individuo non si doveva estraniare mai dal suo lavoro affinché il risultato potesse essere còlto come parte della sua stessa esistenza. Per tutte queste ragioni, realizzarsi nella vita era sinonimo di libertà e significava essere capaci di affrancarsi e di non essere schiavi, di essere ἀνήρ e non solo ἄνϑρωπος. Nell’antica Grecia, l’idea dell’essere liberi e non servi nell’ambito dell’agire razionale costituiva un tema ricorrente dal momento che la virtù come amministrazione di sé non poteva tollerare in alcun modo il vizio, quale principale causa della rovina del creatore dell’opera. E per arginare il vizio non era sufficiente la riflessività ma era necessario pensare al compimento della virtù come ad un habitus che fosse parte integrante dell’individuo e che agisse ex ante determinandone la sua stessa riflessività. Ora, un tale atteggiamento, se applicato in modo indistinto alla realtà, era in grado di generare un dismorfismo della ragion pratica in grado di produrre a sua volta un’assuefazione totale dell’individuo ad una visione teleologica dell’azione virtuosa. Detto in altri termini, l’idea di poter essere liberi soltanto nella virtù, innescava negli individui un processo per cui, anche se il frutto delle loro buone azioni non veniva mai riconosciuto o apprezzato, l’azione virtuosa persisteva in modo implacabile quale condizione perenne che, in nome di una logica compensativa, si predisponeva provvidenzialmente alla realizzazione dell’opera. Nel mondo greco-romano, il giudizio di merito sulle singole azioni era quindi calibrato in modo tale da dover ricreare nelle aspettative degli individui l’idea che la virtù fosse connessa interamente alla vita terrena; essere meritevoli servi della virtù significava poter pensare di realizzare pienamente il proprio sé nella vita sulla terra, scegliendo la via intermedia tra due estremi dannosi in ogni situazione dell’esistenza, o adoperando le capacità messe a disposizione dalla natura per portare a compimento la propria ἐντελέχεια. È soltanto con l’avvento del cristianesimo che le cose cambiano in modo sostanziale. Nel mondo cristiano, il principio della soggettività si sposta verso l’interno e il rapporto tra il contenuto formale dell’azione e il modo del soggetto di rappresentarselo, subisce un profondo scivolamento verso posizioni trascendenti.
D’ora in avanti, l’azione virtuosa sarà tale soltanto se potrà riconoscersi nella grazia di Dio. In estrema sintesi, ciò significa che proprio come l’amore umano viene sublimato in amore per Cristo che è il figlio dell’uomo, anche la buona condotta del fedele virtuoso deve essere vissuta unicamente nella luce di una gloria futura, di un mondo ultraterreno che è ancora da venire. Nel mondo cristiano la determinazione del merito è limitata da tutta una serie di impedimenti esterni alla scelta del soggetto agente in quanto connessa ad un fondamento eteronomo di valore che rimanda direttamente alla figura divina di Cristo. In altri termini, rispetto a ciò che accade nel mondo antico, con il cristianesimo l’autovalorizzazione del soggetto, prima immanente alla vita stessa, è diventata di colpo inaccessibile e imperscrutabile al lume della ragione umana. Nel medioevo cristiano l’essere servi della virtù e l’essere servi del Signore avevano lo stesso significato e l’unica possibile libertà risiedeva in questa forma di sottomissione.
La vera grande innovazione che sta al fondo di questa nuova concezione della virtù è la trasformazione dell’idea di creazione e con essa il valore nuovo che il cristianesimo riesce a dare alla libertà. Con l’incarnazione del verbo divino nel mondo, il divenire storico della figura di Cristo non rappresenta soltanto la scintilla della redenzione in grado di conciliare lo spirito immortale con l’elemento naturale della nascita e della morte ma fonda, attraverso la sottomissione del soggetto morale nei confronti di questo nuovo assoluto che è la religione, la ragione gnoseologica della libertà. In tal senso, si può dire che il cristianesimo era riuscito ad intercettare il senso di impotenza del soggetto che non è mai autore di sé stesso in modo pieno e compiuto, controllandone l’agire morale attraverso la professione di obbedienza. Ma affinché la transizione potesse avvenire nel modo più completo, i primi teologi cristiani dovevano cambiare il volto anche ad un altro concetto proveniente dal mondo antico e che si sarebbe rivelato utilissimo allo scopo, ossia quello della misericordia che non godeva di grande fama presso i greci e i Romani. Infatti, sarà soltanto con il cristianesimo che la misericordia assumerà valore positivo e il concetto della clemenza del potente verso il debole si trasformerà nel sentimento di compassione dell’animo che nel commiserare la miseria altrui e la mancanza di virtù, riconoscerà il vizio che deforma e abbruttisce il buon cristiano.
Come si vedrà nella seconda parte, con l’avvento del cristianesimo l’etica della virtù è destinata ad assumere grande importanza nel corollario del buon cristiano; tuttavia, questa forma di agire morale dell’azione assumerà sempre più i contorni di un automatismo della volontà in grado di trovare la sua giustificazione soltanto al di là della ragion pratica.
27 dicembre 2023