Ingenuamente crederemmo che il motto thatcheriano there is no alternative identifichi un solo particolare indirizzo politico, quello neoliberale. Esso si radica piuttosto in una concezione filosofica dell’essere umano che comporta l’egoismo, l’individualismo, la mercificazione consumistica – scoprendoli valori inevitabili, radicati nella natura umana. Si tratta però di una concezione falsa, alla luce della critica antropologica e archeologica – come intendono dimostrare Graeber e Wengrow nel loro monumentale saggio L’alba di tutto.
Due giorni dopo il riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese, si riaccendeva la nenia preferita per la buona notte delle coscienze occidentali cantata in coro dall’establishment politico e mediatico: «c’è un aggressore e c’è un aggredito».
L’intellettuale d’avanspettacolo nella scena pop delle polarizzazioni rassicuranti questa volta era Beppe Severgnini, che intonava il carosello con cui abitualmente si intende aprire e chiudere ogni finto tentativo di serio confronto pubblico: «c’è un aggressore e c’è un aggredito», appunto.
Non solo, l’aggressore questa volta – sottolineava Severgnini – si era presentato con un’efferatezza superiore a quella del già «animale» Putin, come era stato definito dal nostro ministro degli Esteri Luigi di Maio.
Come mai tanta furia? Marco Travaglio, retoricamente, replicava così a Severgnini: «la domanda è: perché ci odiano tutti? Sono tutti rincoglioniti? Sono tutti nati cattivi o abbiamo fatto qualcosa anche noi?»
La risposta l’aveva già data in giornata il ministro della Difesa di Israele Yoav Gallant: «Ho ordinato l’assedio completo di Gaza: niente elettricità, niente cibo, niente benzina, niente acqua. Tutto chiuso. Combattiamo contro degli animali umani e agiamo di conseguenza».
La risposta ovvia alla domanda retorica c’era, ma era quella assurda: sono nati cattivi, animali.
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Eppure, tale opzione interpretativa non è tanto assurda, anche se può sembrarci così.
Anzi, a tale concezione politica si fa risalire la scienza politica moderna, cui si rifanno filosofi e politologi di tutte le specie.
Quelle origini sono individuate in Hobbes, che per primo ha ritenuto di fondare qualsiasi ragione e giustificazione politica su quella che da tutti, dopo di lui, è stata ritenuta un’evidenza: homo homini lupus. Gli uomini sono proprio degli animali, congenitamente dei lupi gli uni per gli altri: è nella loro natura arraffare e distruggere tutto ciò che vogliono fintanto che possono.
Come mai, allora, si ritrovano a vivere in società e a rispettare leggi e costumi, se, per loro natura, li violerebbero a piacimento? La risposta è semplice: perché non ci riescono. Essi sono troppo deboli per arraffare tutto ciò che vogliono senza mettere a repentaglio la loro esistenza, perché vivrebbero sotto il rischio costante di cadere vittima dell’analogo comportamento dei loro simili.
Ecco che i popoli diventano civili non per aver scoperto devi valori diversi dal soddisfacimento animalesco, ma per un calcolo che glielo consenta quanto più possibile: costumi e leggi sono accordi impliciti ed espliciti su come ci si salvaguardi reciprocamente dall’egoismo congenito di ogni individuo.
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L’Europa prima, e ciò che chiamiamo Occidente ora, avrebbe scoperto questo meccanismo naturale, che è ciò che consente di convivere senza annientarsi a vicenda. I popoli che non ne sono divenuti consapevoli costituirebbero una minaccia per l’umanità.
Così – in questa prospettiva – ci si può considerare superiori nei confronti del resto del mondo e, allo stesso tempo, giustificare la sua oppressione. Si è ci civili sia perché non ci si opprime e sopprime a vicenda come dei selvaggi nello stato di natura, sia perché si opprimono e sopprimono coloro che, invece, vivrebbero come dei selvaggi nello stato di natura.
Che questo inconscio collettivo occidentale sia una logica conseguenza dei fondamenti filosofici della scienza politica moderna, lo affermano anche l’antropologo David Graeber e l’archeologo David Wengrow nella loro monumentale opera L’alba di tutto, pubblicata nel 2021.
In particolare, spiegano che, per esempio, questi sono i risultati dell’«hobbesiano moderno per eccellenza», lo scienziato cognitivo canadese, naturalizzato statunitense, Steven Pinker.
La sua opera risulta
un’apologia retroattiva del genocidio, perché […] la riduzione in schiavitù, lo stupro, lo sterminio di massa e la distruzione di intere civiltà – inflitti dalle potenze europee al resto del mondo – sono soltanto l’ennesimo esempio di esseri umani che si comportano come hanno sempre fatto; tutto ciò non era per nulla insolito. A essere davvero significativo, prosegue questa tesi, è il fatto che questo permise la diffusione di quelle che Pinker considera idee «puramente» europee di libertà, di uguaglianza davanti alla legge e di diritti umani dei sopravvissuti.
Ingenuamente crederemmo che il motto thatcheriano there is no alternative identifichi un solo particolare indirizzo politico, quello neoliberale. Esso si radica piuttosto in una concezione filosofica dell’essere umano che comporta l’egoismo, l’individualismo, la mercificazione consumistica – scoprendoli valori inevitabili, radicati nella natura umana.
Per questo i partiti e gli indirizzi politici sono andati via via dissolvendosi – perché non è rimasto che amministrare l’ovvio.
Il termine «disuguaglianza» è un modo di inquadrare i problemi sociali che ben si adatta a un’epoca di riformatori tecnocratici, inclini fin dall’inizio a dare per scontato che una visione della trasformazione sociale non sia nemmeno in esame.
Tecnocrazia è infatti proprio la gestione disincantata degli esperti, dei competenti, degli scienziati. L’evidenza, presupposto dell’azione tecnica, spiegano Graeber e Wengrow, è proprio quella teorizzata da Hobbes nel «testo fondante della teoria politica moderna», il suo Leviatano (1651).
Due sono i pilastri del riformismo tecnocratico, di derivazione hobbesiana.
Il primo assevera che
[l]a società umana […] si fonda sulla repressione collettiva degli istinti più vili, che diventa ancora più necessaria quando gli uomini vivono in gran numero nello stesso luogo.
Il secondo asserisce che
la disuguaglianza è l’inevitabile risultato del vivere in una qualunque società grande, complessa, urbana, tecnologicamente sofisticata. Con molta probabilità questa conseguenza sarà sempre con noi. È solo questione di intensità.
Ecco dove può agire tutt’al più il riformismo della tecnocrazia: nel far sì che le disuguaglianze – inevitabili e volute dalla natura umana – non siano tali da minare la stessa società. La tecnocrazia – sia detto di passaggio – sembrerebbe incapace di risolvere il suo specifico ufficio, viste le crisi sempre più minacciose che si sono già abbattute e che si prospettano, come abbiamo già discusso (qui), per esempio, analizzando l’opera di Nancy Fraser (qui), che si intitola per l’appunto Capitalismo cannibale.
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Tutto questo, invece del tempio delle magnifiche sorti e progressive dell’Occidente, potrebbe rivelarsi la sua funesta prigione.
Con la loro opera, risultato di un confronto quotidiano durato dieci anni, Graeber e Wengrow hanno inteso mettere in dubbio questa concezione radicata, domandando:
come ci siamo ritrovati prigionieri di catene concettuali così strette da non riuscire più nemmeno a immaginare la possibilità di reinventarci?
Infatti, i risultati dell’archeologia e dell’antropologia suggeriscono con sempre maggior forza che la concezione della natura umana e della società di cui siamo andati persuadendoci si adatti solo ad alcune società passate, simili alla nostra attuale, che abbiamo assurto a riferimento; però una tale concezione risulta inadeguata a spiegare altre civiltà che sono esistite ed hanno prosperato, ma che abbiamo declassato a primitive, selvagge, inferiori.
Ma ancora oggi gli stessi scienziati faticano a prendere sul serio la mole di dati raccolti e a tentare di riorganizzarli in un diverso quadro di senso. La scienza degli uomini, si sa, si sclerotizza, diventando dogma. Graeber e Wengrow descrivono questo nuovo significativo capitolo della dogmatizzazione che trasforma la scienza in scientismo.
Hobbes e Rousseau dissero ai contemporanei cose sorprendenti, profonde e capaci di aprire nuove porte dell’immaginazione. Ora le loro idee sono soltanto banalità trite e ritrite, senza nulla che giustifichi l’incessante semplificazione delle vicissitudini umane. Se oggi gli esperti di scienze sociali si ostinano a ridurre le generazioni passate a semplicistiche caricature bidimensionali, non lo fanno tanto per mostrarci qualcosa di originale quanto perché ritengono che sia ciò che devono fare per sembrare «scientifici». Il risultato concreto è l’impoverimento della storia e, di conseguenza, del nostro senso di possibilità.[4]
L’etnocentrismo e lo scientismo suprematisti dell’Occidente insegnano che there is no alternative, trascurando gli insegnamenti che provengono dal passato dell’umanità.
Questo atteggiamento dogmatico è in continuità con l’atteggiamento che prevalse nell’età moderna, quando ad essere liquidato non fu un passato lontano, ma il loro presente straordinario, sconvolgente per la società dell’epoca.
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Il loro presente era costituito dal Nuovo Mondo, che oggi, come allora, ad occhi inesperti si presenta come primitivo, selvaggio, inferiore; ma che all’epoca seppe irrompere nell’immaginario come una possibilità inaudita, come uno scandalo da prendere sul serio.
Da ultimo, quel mondo agli antipodi, venne liquidato, ma non senza ispirare intere generazioni e contribuire significativamente a quel processo di emancipazione che conosciamo come Illuminismo.
Per il pubblico europeo, la critica indigena sarebbe stata uno shock per il sistema, rivelando possibilità di emancipazione umana che, una volta scoperte, non si sarebbero più potute ignorare.
Idee stravolgenti per il sistema politico-sociale dell’epoca.
Le idee espresse da quella critica arrivarono a essere percepite come una minaccia […] grave per il tessuto della società europea.
Perciò si tentò di eliminarle e vi ci si riuscì con un certo successo. Ciò avvenne in due tappe principali, spiegano Graeber e Wengrow.
Dapprima, per combattere quella minaccia vennero create delle teorie ad hoc che giustificassero l’impianto teorico occidentale; in seguito, tale minaccia finì per essere considerata una mera provocazione, una proiezione esotica degli intellettuali occidentali.
Lo shock era rappresentato sia di fatto dalla società che gli europei scoprirono, sia dalla consapevolezza teorica degli indigeni.
Esplicitano così la loro posizione i due autori.
La nostra supposizione è che gli intellettuali americani […] abbiano effettivamente svolto un ruolo in questa rivoluzione concettuale [moderna e illuminista]. È molto strano che questa idea venga considerata radicale, ma per gli storici delle idee conformisti di oggi è quasi un’eresia.
Perché? Per via del nostro radicato etnocentrismo.
Se, in un testo europeo, ci si imbatte in una tesi attribuita a un «selvaggio» che assomiglia anche solo vagamente a quelle di Cicerone o di Erasmo da Rotterdam, si dovrebbe dare per scontato che nessun «selvaggio» avrebbe mai potuto svilupparla, o addirittura che la conversazione in questione non abbia mai avuto luogo. Se non altro, questo abito mentale è molto comodo per gli studiosi di letteratura occidentale, anch’essi esperti di Cicerone ed Erasmo da Rotterdam, che altrimenti potrebbero essere costretti a informarsi sulla visione del mondo sposata dagli indigeni, e soprattutto sulla loro opinione degli europei.
Per fortuna, qualcosa potrebbe cambiare.
Negli ultimi anni, un crescente numero di studiosi americani, quasi tutti di origini indigene, ha messo in discussione queste ipotesi.
Graeber e Wengrow si posizionano con loro.
Ipotizzeremo che ci fosse un motivo per cui molti dei principali pensatori illuministi si ostinavano ad affermare che i loro ideali di libertà individuale e uguaglianza politica si ispiravano alle fonti e agli esempi degli americani nativi. Perché era vero.
Ecco il punto che rende conto della seconda tappa della liquidazione del Nuovo Mondo: gli intellettuali europei indicavano come loro fonte la società e gli intellettuali americani; ma il trionfo del suprematismo etnocentrico occidentale avrebbe dovuto rimuovere quel passaggio inverosimile, riducendolo ad una fantasiosa proiezione esotica allora alla moda.
Ma veniamo alla questione cruciale. In che cosa consistevano quei contenuti stravolgenti, quegli stili di vita scandalosi?
*
Padre Pierre Biard, ex docente di teologia, incaricato nel 1608 di evangelizzare i mi’kmaq della Nuova Scozia, scrive:
Si considerano migliori dei francesi “perché”, dicono, “voi combattete e litigate continuamente; noi viviamo in pace. Voi siete invidiosi e vi calunniate senza sosta; siete ladri e impostori; siete avidi e non siete generosi né gentili; quanto a noi, se abbiamo un pezzo di pane, lo dividiamo con il nostro vicino”. Dicono costantemente queste e altre cose simili.
Vent’anni dopo, frate Gabriel Sagard scrisse della nazione wendat:
Non intentano cause legali e non si affannano per ottenere i beni di questa vita, per i quali noi cristiani ci angustiamo tanto, e per la nostra avidità eccessiva e insaziabile nella loro acquisizione veniamo giustamente e ragionevolmente rimproverati dalla loro esistenza tranquilla e dalle loro indoli pacifiche.
Ricambiano l’ospitalità e si aiutano a vicenda così tanto che le necessità di tutti sono soddisfatte senza che ci sia alcun mendicante indigente nelle loro città e nei loro villaggi; e la consideravano una pessima cosa quando sentivano dire che in Francia c’erano moltissimi di quegli accattoni bisognosi, e pensavano che dipendesse dalla mancanza di carità in noi e ci accusavano aspramente per questo.
Nel 1642, il missionario gesuita Le Jeune scrisse dei montagnais-naskapi:
Immaginano che, per diritto di nascita, debbano godere della libertà degli asinelli selvatici, senza rendere omaggio a chicchessia, se non quando ne hanno voglia. Mi hanno rimproverato cento volte perché temiamo i nostri capitani, mentre loro deridono e sbeffeggiano i propri. L’autorità del loro capo è tutta racchiusa nella punta della lingua; giacché egli è potente in virtù della sua eloquenza; e, per quanto parli e arringhi, i selvaggi non gli obbediranno a meno che non siano loro a volerlo.
Nel 1644, padre Lallemant, invece, riportò:
Non credo esistano popoli sulla terra più liberi di loro, e meno capaci di permettere la sottomissione delle volontà a qualsivoglia potere, tanto che qui i padri non hanno alcun controllo sui figli, o i capitani sui sottoposti, o le leggi della nazione su uno qualunque di loro, se non nella misura in cui ciascuno si compiace di sottomettervisi. Non vi sono punizioni inflitte ai colpevoli né criminali che non siano certi che la propria vita e i propri averi non siano in pericolo […].
E ancora:
Dal principio del mondo alla venuta dei francesi, i selvaggi non hanno mai saputo cosa significasse proibire ufficialmente qualcosa al loro popolo, sotto la minaccia di un castigo, per quanto lieve. Sono persone libere, ciascuna delle quali si considera di pari valore rispetto alle altre; e si sottomettono ai loro capi solo nella misura in cui lo desiderano.
Molte di queste testimonianze si trovano nelle Relations des jésuites de la Nouvelle-France, che erano assai diffuse all’epoca (nella loro interezza sono raccolte in settantuno volumi): «Probabilmente qualunque famiglia del ceto medio nella Amsterdam o nella Grenoble del XVIII secolo [ne] custodiva nella libreria almeno una copia […], oltre a uno o due resoconti scritti da viaggiatori approdati in terre lontane».
Il resoconto di Sagard, dal titolo Le grand voyage du pays des Hurons, «diventò un best-seller influente in Francia e in tutta Europa», e fu citato da Locke e Voltaire «come fonte principale per le loro descrizione delle società americane».
*
Importante è notare che tutte le testimonianze concordano nel rilevare che gli americani indigeni vivessero in società libere, al contrario degli europei.
Ciò su cui non concordavano e intorno a cui si accese il dibattito era l’auspicabilità di una tale libertà. Non era per niente ovvio che le libertà di cui godevano fossero un bene, anzi. Le libertà che noi diamo per scontate – pur essendo ancora così lontane e povere rispetto alle loro – furono una faticosa e lenta acquisizione (cui abbiamo dato il nome di Illuminismo) nonché il portato delle rivoluzioni francese e americana.
Quando si tratta della libertà personale, della parità tra uomini e donne, dei costumi sessuali o della sovranità popolare – e persino, se è per questo, delle teorie della psicologia del profondo –, gli atteggiamenti degli americani indigeni sono probabilmente molto più vicini a quelli del lettore rispetto a quelli degli europei del XVII secolo.
Per i gesuiti «tutto ciò era scandaloso». Benché, per esempio, Lallemant concedesse che il loro sistema generasse «molto meno disordine di quanto ve ne sia in Francia», aggiungeva che, complessivamente, i gesuiti si opponevano alla libertà.
Ecco le sue parole:
Questa, senza dubbio, è una propensione contraria allo spirito della fede, che ci impone di sottomettere non solo la volontà, ma anche la mente, il giudizio e tutti i sentimenti dell’uomo a un potere sconosciuto ai nostri sensi, a una legge che non è della terra e che è interamente contraria alle leggi e ai sentimenti della natura corrotta. A ciò si aggiunga che le leggi della nazione, che a loro paiono assai giuste, attaccano la purezza della vita cristiana in mille modi, soprattutto per quanto riguarda i matrimoni […].
*
Insomma, il Nuovo Mondo, tale perché appena scoperto, si mostrava altresì Nuovo Mondo in quanto novità inaudita e inimmaginabile per il Vecchio Mondo cristiano.
Non solo: era una novità sconvolgente anche per le teorie politiche laiche, sia antiche che moderne.
Lo rende esplicito Leibniz in una lettera a Wilhelm Bierling nel 1710:
È senz’altro vero […] che gli americani di queste regioni vivono insieme senza alcun governo ma in pace; non conoscono né lotte, né odi, né battaglie, o molto poco, eccetto contro degli uomini di nazioni o di lingue differenti. Direi che si tratti quasi di un miracolo politico, sconosciuto ad Aristotele e ignorato da Hobbes.
La sua fonte più prossima era costituita da un grande conoscitore dei wendat, Lahontan (come si fece chiamare l’aristocratico francese Louis-Armand de Lom d’Arce), che da giovane prestò servizio in Canada fino a diventare il vice del governatore generale, per poi cadere in rovina e abbracciare da ultimo il successo con la pubblicazione di una serie di libri sulle sue avventure; diventato una celebrità, si trasferì alla corte di Hannover, dove risiedeva Leibniz: in questa circostanza diventarono amici.
Di quella serie di libri, due erano memorie dei suoi soggiorni in America, mentre il terzo, pubblicato nel 1703, si componeva di quattro conversazioni tra Lahontan stesso e Kondiaronk, un personaggio straordinario dei wendat, che fu «un guerriero coraggioso, un oratore brillante e un abile politico».
Sebbene questi Dialogues siano stati tradizionalmente creduti un’invenzione e tutte le tesi in essi presenti siano state attribuite all’autore, gli studiosi indigeni spiegano che «ci sono valide ragioni per credere che [tali dibattiti] siano autentici», come le testimonianze terze che abbiamo su Kondiaronk.
Per esempio, padre Pierre de Charlevoix, lo descrive «così dotato di un’eloquenza naturale» che «forse nessuno lo superò mai in agilità mentale».
Non solo. Se era un oratore eccezionale nei consigli,
non era meno brillante nella conversazione privata, e non di rado [i membri del consiglio e i negoziatori] lo provocavano di proposito per udire le sue risposte, sempre vivaci, piene d’arguzia e generalmente incontestabili. Era l’unico uomo in Canda a reggere il confronto con il [governatore] conte de Frontenac, che sovente lo invitava alla sua tavola per regalare questo piacere ai suoi ufficiali.
Insomma, negli anni Novanta del XVII secolo – quando Locke dava alle stampe i Due trattati sul governo – in Canada prese vita un salotto protoilluminista cui partecipavano, tra gli altri, il governatore, Kondiaronk, Lahontan. Sono queste conversazioni a costituire la base dei Dialoghi, come riferisce lo stesso Lahontan.
Ma qual è il contenuto dei Dialoghi e delle Memorie? In essi si trovano quelle critiche alla società europea già registrate dai primi missionari.
[…] ci punzecchiano di continuo con i difetti e i disordini che hanno osservato nelle nostre città, asserendo che sono provocati dal denaro. È inutile cercare di far notare loro quanto sia utile la distinzione della proprietà per il mantenimento della società: si fanno beffa di qualunque cosa si dica a tal proposito. In breve, non litigano né si scontrano, né si calunniano a vicenda; deridono le arti e le scienze e dileggiano la differenza di ranghi che si osserva da noi. Ci etichettano come schiavi e ci chiamano anime sventurate la cui vita non è degna di essere vissuta, accusandoci di esserci degradati assoggettandoci a un uomo [il re] che possiede tutto il potere e che non è vincolato da alcuna legge se non la sua volontà.
E compare una lucida critica alla disuguaglianza.
Ritengono inammissibile che un uomo abbia più di un altro e che i ricchi godano di più rispetto dei poveri. In poche parole, dicono, il nome di selvaggi, che noi attribuiamo loro, sarebbe più adatto a noi, giacché non vi è nulla nelle nostre azioni che assomigli alla saggezza.
Nei Dialoghi sono esplicitati e sottoposti a critica feroce due nessi che la nostra società dà per scontati e inevitabili; scontati perché inevitabili, secondo i fondamenti hobbesiani della politica moderna.
Il nesso tra la ricchezza e la sua trasformazione in potere sugli altri.
Hai osservato che noi non abbiamo giudici. Qual è la ragione? Be’, non intentiamo cause legali. Perché? Be’, perché abbiamo deciso di non accettare e di non usare il denaro. E perché non permettiamo l’ingresso del denaro nelle nostre comunità? La ragione è la seguente: siamo determinati a non avere leggi perché, dacché mondo è mondo, i nostri antenati sono riusciti a condurre una vita gratificante senza di esse.
Il nesso tra diseguaglianza e organizzazione europea della proprietà privata.
Ho trascorso sei anni a riflettere sullo stato della società europea e non riesco ancora a farmi venire in mente un solo modo in cui essa non agisca in maniera disumana, e credo sinceramente che ciò possa accadere solo fin quando vi atterrete alle distinzioni tra «mio» e «tuo». Affermo che quello che chiamate denaro è il diavolo dei diavoli; il tiranno dei francesi, la causa di tutti i mali; il flagello delle anime e il mattatoio dei vivi. Immaginare di poter vivere nel Paese del denaro e conservare la propria anima è come immaginare di poter serbare la propria vita sul fondo di un lago. Il denaro è il padre del lusso, della lascivia, degli intrighi, degli inganni, delle menzogne, del tradimento, della disonestà: di tutti i peggiori comportamenti del mondo, insomma. I padri vendono i figli, i mariti le mogli, le mogli tradiscono i mariti, i fratelli si uccidono tra loro, gli amici sono falsi, e tutto per il denaro. Alla luce di ciò, dimmi che noi wendat non abbiamo ragione quando ci rifiutiamo di toccare l’argento, o anche solo di guardarlo.
Non solo. Egli immagina lo sforzo per abbandonare queste abitudini intrise d’errore, ma sa del guadagno enorme che si otterrebbe. Perché quella conquista era già realtà nel loro popolo.
Se abbandonaste i concetti di «mio» e «tuo», sì, tali distinzioni tra gli uomini si dissolverebbero; allora un’uguaglianza livellatrice prenderebbe il loro posto tra voi come fa ora tra i wendat. E sì, per i primi trent’anni dopo l’eliminazione dell’interesse personale, senza dubbio vedresti una certa desolazione, giacché coloro che hanno solo la capacità di mangiare, bere, dormire e dedicarsi al piacere languirebbero e morirebbero. La loro progenie, tuttavia, sarebbe idonea per il nostro stile di vita. Ho elencato più volte le qualità che, secondo noi wendat, dovrebbero definire l’umanità – saggezza, ragionevolezza, uguaglianza eccetera – e ho dimostrato che l’esistenza di interessi materiali separati ne impedisce lo sviluppo. Un uomo motivato dall’interesse non può essere un uomo ragionevole.
Questo passaggio contiene la spiegazione perché il Nuovo Mondo libero, e ammaliante per molti, sia stato liquidato: la fatica della trasformazione, quella fatica che ogni (grande) trasformazione richiede, che Hegel chiamava «la fatica del concetto», intendendo l’autentica convinzione e trasformazione del pensiero che comporta sempre, quando sia tale, una trasformazione materiale dell’esistenza.
Addentrarci in questo universo sconosciuto fatto di vita vissuta e di pensieri rivoluzionari, non è compito che possiamo affrontare in questo spazio che volge al termine. Sarà compito per il futuro.
Abbiamo tralasciato anche l’impressionante mole di casi di civiltà remote documentate nel saggio di Graeber e Wengrow, limitandoci alle civiltà conosciute con la scoperta dell’America da parte degli europei. Ce ne eravamo già occupati e potete trovare quel contributo nel qui.
Quel che conta sottolineare in chiusura è che there is an alterative, c’è un’alternativa; e senz’altro più di una.
Se la nostra ristrettezza di orizzonti temporali e la nostra limitatezza concettuale ci ha fatto credere che questo nostro mondo neoliberale postmoderno fosse il solo possibile e il solo possibile per una natura umana identificata con quanto di peggio ha dato nella sua storia e nella sua preistoria, ora sappiamo che c’è già stato molto altro e che non ci tocca sorbirci questo mondo nefando.
Dipende da noi.
*
L'appuntamento per approfondire assieme sarà la puntata live
di Ottosofia di mercoledì 6 dicembre, qui su Youtube
6 dicembre 2023
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