Siamo ormai cambiati da come eravamo qualche decennio fa, e con noi è cambiato il nostro modo di concepire il bello e di mostrarlo. Ma quando osserviamo il bello attraverso le opere d’arte apprendiamo qualcosa sulla vita, sulla nostra esistenza e, se il bello cambia, cambia anche il nostro apprendimento. Ma allora cos’è che stiamo apprendendo ora? E siamo sicuri che questo cambiamento sia avvenuto in meglio e non in peggio?
di Leonardo Apollonio
Quello che Heinrich Böll scriveva in Opinioni di un Clown lo considero particolarmente, più che un racconto ed una critica sociale all’«opulenta società della Germania occidentale, che sembra aver perso ogni valore» (come scrive l’editore Mondadori), un saggio d’estetica. Il senso del particolare, di cui il cattolico Zupfner manca, e del quale invece il clown protagonista Schnier fa tesoro, credo sia forse il dettaglio più importante del libro. Questo dettaglio è particolarmente importante se lo si cala nel mondo di oggi, dove questo senso del particolare sembra particolarmente essersi perso per preferire un’estetica più evidente, meno interpretativa, meno fine, più mastodontica… Più epica.
Un’origine indicativa di questo cambiamento, di questo perdersi del senso del particolare, si può ritrovare negli anni ‘80 quando il liberalismo diffuso da Regan e Tatcher provocò il susseguente americanismo dilagante e da quando Andy Warhol, con la nascita e della Pop-Art negli anni ’60, ha fondato una nuova estetica. Portando il nulla nell’arte, e diffondendolo attraverso questa ammirazione americana anni ‘80 si è andato sempre più a perdere esattamente quel senso del particolare di cui Böll scrisse. Parlandone meglio, si potrebbe notare subito come il tipo di bellezza a cui facciamo riferimento non è la piccola bellezza fatta di poco, bensì il senso di arte che abbiamo è un’arte più mastodontica, la cui origine si può a mio parere rintracciare nella diffusione del cinema commerciale di Hollywood con i suoi kolossal, che trova il suo massimo sviluppo proprio negli anni ’80, con l’ascesa di Steven Spielberg (regista dei più grandi successi commerciali di Hollywood) e l’invenzione dei franchinsing (serie di film appartenenti ad una stessa saga, ad uno stesso universo tematico).
L’estetica che abbiamo e che la televisione contribuisce ad insegnarci è l’estetica del mastodontico, l’estetica dell’epico. Da quando la Pop-Art ha cominciato a dilagare, la pubblicità è diventata strumento di arte. Era la grandezza, la spettacolarità a fare effetto. Lo scopo di Warhol coincideva esattamente con la conseguenza della televisione: la ripetizione continua di immagini affinché ciascuna immagine perdesse significato. D’altronde Warhol espresse alla perfezione il concetto di questo tipo di bellezza mastodontica a cui mi riferisco nel suo libro The Philosophy Of Andy Warhol: From A to B and Back Again:
« Un certo tipo di bellezza ti rende nano e ti fa sentire una formica al suo fianco. Una volta sono stato allo stadio Mussolini con tutte le statue, erano così grandi che mi sono sentito come una formica. » (Warhol, The Philosophy Of Andy Warhol: From A to B and Back Again)
Nel mondo contemporaneo il senso di bellezza che si ha è simile quello preromantico: noi non cerchiamo la bellezza come cosa in sé, come espressione d’un’emozione, noi cerchiamo una bellezza che sia oggettivamente riconosciuta, una bellezza impetuosa che non ha bisogno che qualcuno la dica bella e ne spieghi il perché, una bellezza che tutti nel guardarla sussultino ed esclamino “Che bello!”. Questo tipo di bellezza sembra rifarsi nella ricerca del bello allo Sturm und Drang, tempesta e impeto: devi essere un nano di fronte alla grandezza della bellezza. Eppure, la bellezza è vuota, perché tutta la bellezza è mastodontica e quando tutto è mastodontico ogni cosa deve essere ancora più mastodontica della precedente e in questo ciclo di aumento tutto ciò che non è in vetta decade così come il senso del termine stesso “mastodontico”. Nel momento in cui tutto è mastodontico, ciò che prima sembrava tale ora non lo è più, dato che è divenuto ordinarietà. Qualcosa per essere bello deve essere grande e spettacolare, quindi non ordinario, ma se tutto è bello e spettacolare queste caratteristiche diventano ordinarie. Ci si va dunque a infilare in un paradosso dal quale escono solo i prodotti che superano il limite della media: più e spettacolare meglio è. L’arte del sopracitato Warhol ne è il massimo esempio: grandi riproduzioni ripetute tante volte, in serie per privarle di significato. La nostra estetica diviene dunque, da qualcosa di comune la cui bellezza va scoperta, qualcosa di mastodontico la cui bellezza è palese, impetuosa. E così la bellezza del comune non riesce più ad attecchire, giacché quest’ultimo tipo di bellezza è una bellezza che va scoperta e come ogni cosa da scoprire bisogna essere educati nella ricerca. Dunque, una volta che il pubblico non è abituato alla ricerca della bellezza, bisogna far sì che la bellezza gli venga mostrata in modo evidente.
Ecco che si ripresenta il problema già citato: se tutta l’arte deve essere mastodontica, se tutta la bellezza per essere bellezza deve essere impetuosa e siamo sottoposti all’impeto in continuazione, non ci appare forse tutto come impeto? E se siamo abituati a percepire l’impeto costantemente, l’impeto non perde forse il suo significato? E se così è, se l’impeto troppo ripetuto smette di essere impeto, allora cos’è? È forse nulla? Ed ecco la conseguenza del problema, la sua risposta: sì, è nulla. Allora noi assistiamo sempre e solo al nulla ed il nulla ci indica la bellezza.
Proseguendo oltre, una successiva ripercussione di questa bellezza, così da me chiamata “mastodontica”, è sicuramente il confronto continuo e ripetuto con la vita dello spettatore. Se uno spettatore è messo ripetutamente di fronte all’idea che la bellezza viene dalla straordinarietà, lui si sentirà incredibilmente inutile. Se lo spettatore medio guarda alla sua vita, che essendo una vita normale, media, non è straordinaria, e guarda ad essa con la nozione appressa suggestivamente lungo tutta la sua vita che la bellezza è tutto ciò che esula dall’ordinario e dal normale, sicuramente trarrà una tragica conclusione: la mia vita non è bella, perché la bellezza non è ordinaria. Dunque non troverà alcuna bellezza nella sua routine, nella sua vita normale, non perché essa non la abbia, ma perché lui è convinto che la bellezza non possa trovarsi lì, nell’ordinario. Ed ecco che il nichilismo attecchisce. Perché abituati al mastodontico non cogliamo il significato del normale e del poco. Ecco spiegato anche il mito per la fama: la fama esula dall’ordinario, è qualcosa di straordinario, dunque bello. Quindi una vita all’insegna della fama è una vita all’insegna della bellezza e del successo. E, di nuovo, ecco spiegata la voglia di apparire: in pochi appaiono, chi appare non è ordinario, è speciale, è straordinario, e di nuovo quindi apparire vuol dire essere belli, avere una bella vita, una bella esistenza.
Se il nichilismo perciò è riuscito a pervadere la televisione sottoforma di ripetizione del mastodontico, esattamente allo stesso modo in cui quella Nausea di cui Sartre ci narra nel suo libro (ovvero cheta, immobile abbastanza da non farsi notare, da permetterci d’autoconvincerci che il nostro nichilismo è frutto d’una nostra stessa illusione) allora il nichilismo ha pervaso le nostre esistenze.
Peraltro a sostenere la gravità della situazione che il cinema e la corrente Pop-Art manifestano vi è anche il celebre filosofo americano Thomas Hibbs (Hibbs, 2000) e, successivamente, in una recensione di Mary P. Nichols d’un libro dello stesso, viene fatto notare come il nichilismo ha preso a dilagare all’interno dei media hollywoodiani:
« Il nichilismo come normalità, quando il nichilismo "non è più combattuto" ma "diventa un assunto non detto”. » (Nichols, Shows About Nothing Nihilism in Popular Culture from the Exorcist to Seinfeld)
Se dunque il nichilismo è stato da noi accolto e se abbiamo smesso di combatterlo, siamo giunti al momento di dover fare lo stesso discorso che Antoine Roquetin faceva a sé stesso all’inizio del libro di Sartre. Se Nichols e Hibbs avessero ragione sarebbe incredibilmente grande il potere del nichilismo, giacché noi non riusciremmo neppure più a riconoscerlo come nichilismo, bensì lo considereremmo normalità. Quando qualcosa, qualsiasi cosa, riesce ad apparirci come normale, noi finiamo per non prestarvi attenzione; giacché non si presta attenzione alla normalità, perché, appunto, è normalità.
Mi sento di porre una domanda fondamentale: cosa v’è di più nichilistico che ritenere la normalità noiosa e non abbastanza bella da essere ritratta in arte? Non è forse l’apice del nichilismo considerare le nostre vite normali non abbastanza meritevoli d’essere rappresentate, ammirate e ricordate? E soprattutto non è nichilismo estremo, nichilismo che tocca il proprio apogeo (se d’apogeo si può parlare per il nichilismo), il momento in cui tutto questo fare nichilistico sopra evidenziato assume il nome di “normalità”?
Nella conclusione del suo libro sopranominato Hibbs asserisce qualcosa di fondamentale per la comprensione del moderno nichilismo dilagante in cui ci troviamo. L’autore suggerisce che è insita e dilagante all’interno dei grandi prodotti artistici moderni una grossa autoreferenzialità che non permette dunque di vedere altro mondo cosciente al di fuori di quelle convenzioni che abbiamo costruito:
« Il problema più profondo della nostra cultura è questo: i film e le serie televisive più alla moda, più intelligenti e più umoristici sono costellati di riferimenti alla cultura pop stessa, come se non esistesse un mondo al di fuori di quella cultura. […] Se le opere d'arte non permettono quel tipo di autoconsapevolezza che suggerisce modi per trascendere il mondo che abbiamo creato, l'assurdità delle convenzioni, allora tutto ciò che ci rimane è un'autocoscienza impotente. » (Hibbs, Shows about Nothing: Nihilism in Popular Culture from the Exorcist to Seinfeld)
Se si volesse avere davanti una prova di questo nichilismo, o meglio, una prova del fatto che questo nichilismo ha il suo primo fondamento nell’estetica Pop, basti pensare alle parole che Warhol disse ai suoi tempi per spiegare uno dei suoi più famosi dipinti: Campbell Soup’s Box mettendole a confronto con uno dei personaggi più misteriosi e considerati anticonformisti del nostro secolo, Banksy:
« Alcuni pensano che si dovrebbe avere di meglio a cui pensare che cercare di pensare a cose migliori. Ma l'istinto è ancora presente. » (Bansky, Banging Your Head Against a Brick Wall)
« Qualcuno mi disse che la mia vita mi ha dominato, e quest’idea mi piacque. » (Sichel & Warhol, ‘What is Pop Art?’ A Revised Transcript of Gene Swenson’s 1963 Interview with Andy Warhol)
Questo confronto serve a renderci consapevoli anche che l’eredità di Warhol e dell’estetica del mastodontico non hanno vita senza opposizione. Di artisti che si oppongono ce ne sono, musicalmente, cinematograficamente, pittoricamente ecc. Ma senza che si faccia una lista di nomi privi di significato il fatto da constatare è uno: L’egemonia non la ha più l’arte indipendente, l’arte intellettuale, ma l’arte massiva, l’arte del consumo, l’arte del popolo, la Pop-Art (Popular Art, arte popolare). È questa l’arte che ha egemonia, che ha presa sul pubblico, ed è questa l’arte che manifesta lo stile di bellezza mastodontico. Questa è l’arte del nichilismo e l’arte del nichilismo è l’arte che sta riscuotendo più successo. Con ciò non voglio sostenere che un mondo in cui assistiamo solo ed unicamente a un’arte del particolare possa essere migliore, ma, forse in un’ottica più epicurea, la questione io credo risieda nell’equilibrio delle cose: in ultima istanza non conduce forse al nichilismo una vita passata ad ammirare e acclamare solo cose enormemente sbalorditive dimenticandoci del potere che hanno i piccoli gesti e le piccole bellezze del mondo? Forse la risposta giace nel corretto uso di ambe due e non sulla supremazia di una sull’altra.
28 dicembre 2023
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