La fede tragica

 

Il senso comune, talvolta, concepisce la fede come una “consolazione per il debole”, qualcosa che prolifera laddove c’è ignoranza, paura e incapacità di accettare la drammaticità della vita. In altri termini, si pensa che la fede proliferi laddove l’uomo non è in grado di affrontare la sua situazione esistenziale. Tale concezione è fuorviante e non coglie il fondamento autentico dell’esperienza religiosa e di fede. Si tratta di una concezione rozza, frutto di decenni di mistificazione operata da filosofi e scienziati il cui argomentare, come ha scritto il filosofo e teologo americano Alvin Plantinga, «non è tanto quello della rigorosa riflessione filosofica quanto piuttosto quello dell’affermazione baldanzosa e chiassosa, combinata con la derisione e l’insulto» (A, Plantinga, Dio esiste-Perché affermarlo anche senza prove). Nel seguente articolo cercheremo di dimostrare come la fede non sia un tentativo di sfuggire alla situazione esistenziale, ma che sia, al contrario, un calarsi in essa. 

 

di Riccardo Sasso

 

A. Mantegna, "La crocifissione"
A. Mantegna, "La crocifissione"

 

Certamente, sarebbe disonesto non riconoscerlo, esistono dei “santoni” che fanno ricorso all’irrazionalismo (appropriandosi indebitamente della parola ‘fede’) per plagiare e traviare le persone fragili e instabili bisognose di risposte. Essi si presentano come messaggeri della verità, al fine di contare sull’appoggio di chi è privo di punti di riferimento. Tuttavia, se si crede che questo “rassicurante irrazionalismo” sia la vera essenza della fede si è fuori strada.

Chiunque abbia letto sant’Agostino, Pascal, Kierkegaard, Bonhoeffer, Pareyson e tanti altri sa perfettamente che la fede non è materia per “intelletti deboli” o, per scimmiottare le parole di Nietzsche, per “pecore del gregge”.

La fede è materia di tribolazione, di ribollimento della coscienza, di timore e tremore. Ci basta leggere i Vangeli per renderci conto del fatto che la fede non placa le angosce della nostra anima: «Non crediate io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa» [Mt. 10, 34-36] e ancora: «chi non prende la sua croce e non mi segue non è degno di me» [Mt. 10, 38]. Un altro esempio ancora più significativo, poi, si può trovare nell’Annuncio dell’Arcangelo Gabriele alla Vergine Maria: «Egli è qui per la caduta e la resurrezione di molti in Israele, come segno di contraddizione! Anche a te una spada trapasserà l’anima» [Lc. 2, 34-35]. Con questi semplici esempi davvero si può credere che l’essenza della fede sia il voler rassicurare gli “emotivamente deboli”? 

 

L. Da Vinci, "Annunciazione"
L. Da Vinci, "Annunciazione"

 

Gli esempi che c’illustrano la drammaticità della fede sono diffusi in tutta la Bibbia, si pensi alla figura di Abramo che fu messo alla prova da Dio con la richiesta del sacrificio dell’unico figlio Isacco, si pensi a Mosè che trovò Dio quando abbandonò la casa del Faraone dov’era stato cresciuto e dove aveva vissuto tra gli agi e la voluttuosità. Si pensi ai profeti nel deserto, talvolta costretti a fuggire dalla loro patria, obbligati a vivere una vita tutt’altro che accomodante. 

Si pensi, poi, ai martiri come santo Stefano, uccisi con la violenza, costretti a subire l’ilarità e lo scherno del mondo. 

Quanto detto ci dimostra come la fede sia tutt’altro che una “favoletta” e un “gioco” per gli ingenui, ma che sia qualcosa che investe e coinvolge l’uomo fin dal profondo

Un’obbiezione che potrebbe sorgere, però, è quella della fede come narcotico per attenuare l’angoscia per la morte, il vedere un mondo ingiusto e pensare che gli ingiusti saranno condannati e i giusti premiati in una futura vita, proprio perché questo non avviene nel mondo. Pur essendo vero che l’uomo di fede crede nell’immortalità dell’anima, nella salvezza dei giusti e nel castigo dei i malvagi; non è affatto giustificata l’idea di una fede come “narcotico per attenuare le angosce”, il teologo Bonhoeffer, in una lettera datata 8 giugno 1944, scrive: 

 

« L’apologetica cristiana cerca di dimostrare al mondo divenuto adulto che non può vivere senza ‘Dio’. Nonostante la già avvenuta capitolazione davanti a tutte le questioni mondane, restano tuttavia le questioni ultime – la morte, la colpa – cui solo ‘Dio’ può dare risposta. Ritengo questi attacchi dell’apologetica cristiana contro la maggiore età del mondo: privi di senso; secondo, di scadente qualità; terzo, non cristiani. » (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa)

 

Il teologo italiano Vito Mancuso, nel suo libro L’anima e il suo destino, rimarca ulteriormente queste questioni affermando: «C’è bisogno […] di guardare al mondo per quello che è, alla sua struttura stupefacente che la scienza contemporanea ci aiuta sempre meglio a conoscere, di poggiare saldamente i piedi sulla madre terra e da lì arrivare a mostrare come sia proprio la fedeltà alla terra a richiedere di alzare in alto lo sguardo».

Come possiamo notare, in sostanza, la fede non richiede un’evasione dalla propria situazione esistenziale. Essa ci porta, al contrario, a essere saldamente collocati in essa. Ciò che ha a che vedere con lo spirito non deve significare una rinuncia alla dimensione materiale, come scrive Bonhoeffer in una lettera ai genitori nel 1943: «lo spirito ha chiaramente un bisogno insoddisfatto di vedere e di toccare questo legame d’amore e del pensiero; le cose materiali divengono allora partecipi delle realtà spirituali. Penso che sia qualcosa di analogo al bisogno, che tutte le religioni esprimono, di rendere tangibile lo spirito nel sacramento» (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa).

La fede richiede giustificazione e non è un banale “credi e non farti domande”. La fede richiama alla situazione esistenziale concreta e non intende essere collocata al di fuori di essa, ma al suo interno.

 

Come scrisse sempre Bonhoeffer nelle sue lettere dalla prigionia: «Dio vuole essere riconosciuto nella vita, e non solamente nel morire; nella salute e nella forza e non solamente nella sofferenza; nell’agire e non solamente nel peccato» (Ivi) e ancora, «Io vorrei parlare di Dio non ai confini ma al centro, non nella debolezza ma nella forza, non nella morte e nella colpa ma nella vita e nella bontà dell’uomo» (Ivi). Tutto questo, come vedremo a breve, non è certo perché la debolezza, la morte e la colpa non contino nulla all’interno dell’esperienza di fede. Ma queste dimensioni devono essere ricollocate all’interno della dimensione esistenziale nel suo complesso. La debolezza non può essere configurata se non nella dimensione della forza, non si può parlare della morte se non la si configura nella vita e non si parla della colpa se non si fa cenno alcuno alla bontà. 

 

D. Bonhoeffer
D. Bonhoeffer

 

Veniamo, dunque, a queste questioni del dramma, morte, colpa, sofferenza e così via. Come abbiamo detto, queste dimensioni, all’interno della fede, non vanno prese in considerazione come una fuga dal mondo, esse costituiscono pur sempre una questione che dev’essere presa in considerazione seriamente

La debolezza, la colpa, la morte, la sofferenza sono drammi reali su cui tanto i filosofi quanto i teologi si sono arrovellati. Il mondo è una valle di lacrime, che arriva a coinvolgere lo stesso Dio. Come scrive Luigi Pareyson in Ontologia della libertà

 

« Questa è la tragedia dell’uomo, egli è immerso nel negativo, autore del male e soggetto al dolore, marchiato dall’onnicolpevolezza e destinato alla sofferenza universale. Ma è anche la tragedia di Dio, perché la caduta umana, segnando il fallimento della creazione, colpisce l’opera sua e lo costringe a intervenire per ratificarla, ciò che Dio non può fare se non soffrendo a sua volta, perché solo con il dolore si può vincere il male.  »

 

Tale concezione può sembrare in contraddizione con “l’ottimismo teologico”, si potrebbe dire “vitalistico”, proposto dalla prospettiva di Bonhoeffer. Effettivamente si può individuare un certo margine di ambiguità, di contraddizione. Lo stesso Pareyson riconosce una contraddittorietà all’interno della fede e afferma: 

 

« Col Cristo sofferente [Il Dio crocifisso] nasce il concetto d’un Dio dialettico, che ha in se stesso l’antinomia e la contraddizione, l’opposizione e il contrasto, il dissidio e il conflitto. D’un Dio ch’è insieme crudele e misericordioso, sia verso l’uomo che verso se stesso. D’un Dio che per amore (verso l’uomo) è crudele (verso sé sino a voler soffrire e verso il Figlio sino ad abbandonarlo). D’un Dio che per amore è coinvolto nella morte e nell’autodistruzione, secondo la squisita e insieme profonda espressione di Angelo Silesio "L’amore trascina Dio alla morte". » (L. Pareyson, Ontologia della libertà)

 

In questa dimensione s’arrovellano il fedele, il filosofo e il teologo. Essi sono in una situazione tutt’altro che di quiete, in una costante oscillazione, tribolazione e arrovellamento. La fede cristiana trova il suo fondamento nella dimensione della Kenosis (svuotamento), il Dio che non rimane separato nella sua trascendenza, ma entra nel mondo e si fa storia. Questo è propriamente il significato ermeneutico del versetto 7, 14 del Libro di Isaia riportato dall’Arcangelo Gabriele alla Vergine Maria nell’Annunciazione: «Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco la giovane è incinta e genererà un figlio, e lo chiamerà Immanu El [Dio con noi]». Questo “Dio con noi” non ha nulla a che vedere con le bestemmie degli uomini di potere che ricorrono vergognosamente a questa espressione, carica di pregnanza ermeneutica ed esistenzialistica, per giustificare le loro aberrazioni, ma si riferisce allo svuotamento kenotico, all’irruzione del Divino nella storia. Il significato del “Dio con noi” è quindi la presenza del Dio fattosi evento.  

Le parole di Pareyson, menzionate nelle righe precedenti, forse un po’ sconcertanti e provocatorie, ci pongono all’interno di una dimensione esistenziale fondamentale, la quale si determina attraverso la fede. Tale concezione può essere meglio esplicitata attraverso questo passo: 

 

« Se la vita non ha un senso, essa non è tragica, anzi è sopportabile: è facile fare di necessità virtù. Ma se c’è un senso della vita, se Dio esiste, allora c’è sofferenza, il male, la morte, in tutto il loro orrore, cioè Dio è crudele. Ma Dio non è tormentatore senza essere redentore, come non è redentore senza essere tormentatore. V’è solo un capovolgimento nel pensiero tragico: se un tempo l’ateo appariva nei confronti dei sostenitori di Dio, come un eroe della negazione, un assertore della tragedia, adesso questa parte è dei sostenitori di Dio, e l’ateo appare pacificato nella sua tranquilla e modesta contentezza. » (L. Pareyson, Ontologia della libertà)

 

Ma perché c’è bisogno di Dio per riconoscere la negatività? Pareyson risponde in questo modo: «solo se riferito a Dio, cioè la positività originaria, il mondo appare in tutta la sua negatività e assurdità» (Ivi). Questo ci permette di risolvere l’imbarazzo della teodicea, davanti alle tragedie del mondo.

La proposta di Pareyson è tanto più comprensibile se analizzata alla luce di un’altra sua affermazione: «L’ateismo come conseguenza del riconoscimento del male è frutto d’un equivoco, quello della teodicea, che dalla bontà di Dio fa discendere l’idea del negativo come semplice privazione». In questo senso, ciò che manca è il riconoscimento del gettarsi kenoticamente di Dio nella realtà, lo svuotamento e l’abbassamento all’interno della sofferenza: il dolore e il grido tragico della miseria. Il negativo, allora, non è più, come nella teodicea, “un’assenza di bene” o “un male necessario per avere un bene maggiore”, ma diventa qualcosa in cui è indispensabile calarsi a viso aperto (Kenosis) per poterlo vincere. Veniamo dunque all’ultima parte della nostra riflessione in cui ragioneremo proprio su questa dimensione esistenziale del “riscatto sul negativo” e il ritorno “dell’ottimismo” bonhoefferiano. 

 

Proprio in questa dimensione di sofferenza, di morte, di debolezza e di colpa, si ripresenta preponderante la dimensione della felicità, della vita, della forza e della bontà. L’uomo, nonostante tutto, non rinuncia alla carità, non rinuncia al bene e non rinuncia alla giustizia. Nei momenti estremi, l’uomo, pur potendo scegliere ciò che gli gioverebbe, sceglie ciò che gli causa sofferenza, ma lo fa per un Bene (positività originaria) di cui sente l’irresistibile richiamo. Lo dimostra la biografia di Bonhoeffer che scelse di schierarsi contro Hitler e perse la vita (a soli trentanove anni) per il Bene, la Giustizia e per la Carità. Questa è la forma più alta dell’Imitatio Christi. Le ultime parole del teologo tedesco furono: «Oggi è il giorno della fine, per me l’inizio, della vita» (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa-Lettere e scritti dal carcere)

Ecco quindi la carica vitalistica della fede che passa dialetticamente attraverso le tribolazioni del male, la luce che passa tra le tenebre, che viene schiacciata e che continua a procedere lo stesso: la forza che è tale perché non si rassegna alla debolezza, la vita che è tale perché non si rassegna alla morte, la bontà che è tale perché non si rassegna alla malvagità e la felicità che è tale perché non si rassegna alla sofferenza. Afferma sempre Pareyson: «Il punto di vista del cristiano è sempre dialettico: ogni conforto è possibile solo attraverso un cammino doloroso, la consolazione è genuina solo attraverso e dentro la sofferenza: exscultabitis modicum nunc si oportet contristari (1 Petr. 1,6), communicantes Christi passionibus gaudete (1 Petr. 4, 13)». (L. Pareyson, Ontologia della libertà)

 

Come sosteneva il filosofo tedesco Friedrich Schelling, in conclusione, la storia del mondo (processo universale) diventa il teatro del manifestarsi di Dio (teofania). Questo è quello che il cardinal Walter Kasper ebbe a chiamare l’Assoluto nella storia: non “un’evasione dal mondo” come definita dai detrattori, ma un progressivo disvelarsi nella storia.

Attraverso la dimensione kenotica, la Positività originaria si fa strada nella miseria del mondo, vincendola progressivamente. Questa dimensione esistenziale della fede, proposta dal Cristianesimo, si caratterizza per la sua carica di universalità e non è quindi prerogativa dei soli credenti, come lo stesso Pareyson osserva: «un’angosciosa compassione per l’umanità sofferente e un trepido presagio di trascendenza possono accomunare tutti gli uomini pensosi, credenti e non credenti» (L. Pareyson, Ontologia della libertà), vi aggiungerei anche gli uomini appartenenti ad altre tradizioni religiose e spirituali. Questo il vero significato ermeneutico del verso evangelico giovanneo: «Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio» [Gv. 3, 16-21]. Non si tratta di un fondamentalistico “credi o sarai eternamente dannato!”, perché la fede senza le opere è morta in se stessa, come ricorda san Giacomo. Si tratta di un richiamo all’abnegazione e alla responsabilità, un’imitazione della Kenosis del Figlio, il richiamo del Bene di chi davanti alla sofferenza non si volta dall’altra parte. 

 

4 gennaio 2023

 









  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica