Negli ultimi mesi sono uscite quasi parallelamente le edizioni italiane di due testi che, letti a confronto, illustrano in maniera sorprendente i due volti di Foucault come pensatore, filosofo e attivista politico. Da un lato, c’è il saggio Michel Foucault. La storia, il nichilismo e la morale, scritto da Paul Veyne, archeologo e storico francese collega di Foucault al Collège de France, una raccolta dei suoi scritti sull’amico filosofo portata in Italia da Ombre Corte; dall’altro lato, Blackie Edizioni ha tradotto il leggendario quanto controverso memoir di Simeon Wade, Foucault in California.
Pochi filosofi del Novecento hanno saputo imporsi nell'immaginario collettivo come Michael Foucault, il cui volto è assurto ad essere quasi un'icona pop di una certa idea di sinistra post-nietzschiana. Nato nel 1926 e morto nel 1984, nonostante le controversie e gli scandali che i suoi libri e il suo stile di vita hanno regolarmente suscitato in Francia e in tutto l'Occidente tra gli anni Sessanta e Ottanta (e oltre), Foucault ha saputo imporsi anche nelle più blasonate istituzioni accademiche francese, venendo consacrato, nel 1970, con l'ammissione al Collège de France come professore di Storia dei Sistemi di Pensiero. A quasi quarant’anni dalla sua morte, l’attenzione accademica nei suoi confronti non è mai sfumata, e la letteratura secondaria sul complesso della sua opera e sulla sua personalità è più fiorente che mai.
Ormai da diversi anni la casa editrice Feltrinelli procede a ritmo sostenuto con la pubblicazione delle trascrizioni dei suoi corsi di laurea, una vera e propria cornucopia filosofica che lascia intravedere i “sentieri interrotti” del laboratorio concettuale foucaultiano; negli ultimi mesi però sono uscite quasi parallelamente le edizioni italiane di due testi che, letti a confronto, illustrano in maniera sorprendente i due volti di Foucault come pensatore, filosofo e attivista politico. Da un lato, c’è il saggio Michel Foucault. La storia, il nichilismo e la morale, scritto da Paul Veyne, archeologo e storico francese collega di Foucault al Collège de France, una raccolta dei suoi scritti sull’amico filosofo portata in Italia da Ombre Corte; dall’altro lato, Blackie Edizioni ha tradotto il leggendario quanto controverso memoir di Simeon Wade, Foucault in California, il racconto del trip lisergico che, nel 1975, durante un tour di conferenze tra le università americane, il filosofo condivise con un giovane insegnante dell’università di Claremont e il suo compagno pianista.
I saggi di Paul Veyne obbediscono a un rigoroso impianto accademico. «Foucault è lo storico compiuto, il compimento della storia: questo filosofo è uno dei maggiori storici del nostro tempo, e nessuno lo mette in dubbio, ma lo si potrebbe anche vedere come l’autore di una rivoluzione scientifica intorno alla quale armeggiavano tutti gli storici», scrive Veyne, evidenziando la transdisciplinarietà dell’amico filosofo. «L’intuizione iniziale di Foucault è rappresentata non dalla struttura, dalla cesura o dal discorso, ma dalla rarità, nel significato latino del termine» – raro, rado, infrequente: i fatti umani sono rari, a detta di Veyne, perché «non sono collocati nella pienezza della ragione», e «intorno ad essi c’è il vuoto per altri fatti che la nostra saggezza non è in grado di immaginare in quanto ciò che è potrebbe essere altrimenti». Storici antichi come Polibio avevano messo al centro della storiografia la sua componente eziologica, l’indagine e anche le differenziazione delle diverse cause, nascoste, esplicite, retoriche, pretestuose, da cui si deducevano gli eventi. L’opera di Foucault, che non per nulla si pone sulla scia del Nietzsche genealogista e non per nulla segue di poco, cronologicamente parlando, l’emergere dell’esistenzialismo francese in narrativa, mette in crisi il concetto tradizionale di causalità. Così facendo, è inevitabile l’emergere del fantasma di un’interdipendenza reciproca di fatti, comportamenti, dettati morali e legislativi, luoghi del pensiero e dell’istituzione – interdipendenza che nella pratica del discorso trova la sua applicazione e, al contempo, il suo passo falso, quella filigrana da attraversare per condurre una controstoria, una Storia della follia, più Storie della sessualità.
«Foucault non si propone di rivelare l’esistenza di un ‘discorso’ o di una ‘pratica’: afferma che non esiste razionalità», scrive Veyne al termine di Foucault rivoluziona la storia, il più esteso e significativo dei saggi che compongono il volume. «Raschia le banalità rassicuranti, gli oggetti naturali con il loro orizzonte di promettente razionalità, per rendere alla realtà – la sola, l’unica, la nostra – la sua origine irrazionale, rara, inquietante, storica». La componente inquietante del pensiero foucaultiano è data dalla dialettica, in cui ancora si possono trovare le tracce di un socratismo post-moderno, con cui lungo tutta la durata del suo percorso filosofico Foucault è andato indagando le dinamiche di potere, gli arcana imperii, la banalità con cui la stessa opposizione cercava di dispiegare i suoi concetti – uno su tutti quello di repressione – non accorgendosi di far parte dello stesso sistema che si tentava di combattere. La componente inquietante, invece, dell’immaginario di Foucault è data dagli argomenti stessi della sua indagine: la sessualità, la follia, i manicomi, la carcerazione – oltre all’ambiguità stessa del nostro linguaggio quotidiano e alla scoperta banale e sconvolgente che res non sunt nomina – erano temi per lo più rimasti immuni alla filosofia. Foucault scopre invece proprio nell’estremo dell’umano, e nel recondito del sociale, quell’orizzonte da cui si può ripartire, anche a costo di sopraffare la tradizione, per un’operazione di vero e proprio metapensiero, che rilegge dall’interno e contropelo il pensiero occidentale e le sue applicazioni pratiche nella sfera del sociale cercando di scavalcare tutte le ideologie e le letture obbligate che ancora erano in voga nel cuore del Novecento. «Positivisti, nominalisti, pluralisti e nemici degli ismi lo siamo tutti: Foucault è il primo a esserlo completamente. È il primo storico completamente positivista», è la conclusione di Veyne.
Foucault in California di Simeon Wade ha un approccio completamente diverso nel tratteggiare il suo protagonista. Anche Veyne, nel saggio L’ultimo Foucault e la sua morale e nell’intervista su Foucault a cura di Catherine Darbo-Peschanski che chiude il volume, aveva lasciato trasparire alcuni ricordi personali dell’amicizia e della frequentazione di Foucault, ma il memoir di Wade è completamente risucchiato da un’ammirazione sconfinata verso la personalità del filosofo, prima ancora che per il suo pensiero: non per nulla, quando in una delle loro conversazioni avventatamente Simeon si era definito suo discepolo, «senza rispondere, Foucault semplicemente mi fissò intensamente con il suo sguardo glaciale». Sulla veridicità della testimonianza di Wade c’è stato e in parte c’è tuttora un lungo dibattito, ma l’effettivo svolgimento del suo incontro col filosofo francese è testimoniato da varie fotografie, e sembra che Foucault stesso avesse dato il suo placeat alla pubblicazione del memoir dell’amico americano, che invece è uscito, postumo, solo nel 2018, grazie all’interessamento di una studentessa dell’università della California.
Con queste premesse, Foucault in California non può che essere una grandiosa miniera di aneddoti sulle riflessioni e delle conversazioni che Foucault e Wade si scambiarono, nei pochi giorni passati assieme nel 1975 – la sperimentazione dell’LSD è una tematica quasi secondaria, rispetto ad altri tratti che emergono della personalità e della quotidianità del filosofo. Affascinanti sono i dialoghi sul cinema tra Wade e Foucault: ispirati dal luogo, parlano molto innanzitutto di Michelangelo Antonioni, che nelle stesse latitudini aveva girato pochi anni prima Zabriskie Point, ma Foucault ammette di aver visto il film in televisione e di non essere riuscito ad assorbire molto del suo messaggio. Altro nome ricorrente in questi dialoghi da cinéphiles è quello di Jean-Luc Godard, che entrambi dicono di apprezzare nonostante il radicalismo politico: «Godard ha rotto il cazzo con la politica», sentenzia bruscamente Foucault. Non mancano sporadiche riflessioni sull’America, e sulle specificità della California in particolare: è lo stesso Simeon ad esternare con Foucault il suo stupore per come i californiani, «e specialmente i giovani come Michael e i suoi amici, possano vivere senza storia, quasi addirittura senza famiglia, almeno nel senso tradizionale, deterritorializzati in senso deleuziano, ma mantenendo un profondo rispetto per le montagne, l’oceano e il deserto che li circondano».
Forse la testimonianza più interessante di tutto il libro di Wade, al di là del piacevole gossip filosofico sulla prima esperienza lisergica di un filosofo di questa importanza, sta nel racconto di un incontro, in una serata a Clermont, con un ragazzo che aveva appena fatto coming out e che attribuiva a Foucault un grande ruolo nella «liberazione dei gay». Foucault lo ringrazia, ma dice di non aver mai scritto nulla sul tema. Il ragazzo, non convinto, gli chiede: «Com’è stato per te prima del movimento gay?», e la risposta del filosofo è sempre dello stesso tenore: «Potrai non crederci, ma mi piaceva molto la scena prima del movimento gay, quando era tutto segreto. C’era una fraternità clandestina, eccitante e un po’ pericolosa». Dopo la cosiddetta liberazione, secondo Foucault, «il termine gay è diventato obsoleto – e così tutti i termini che definiscono uno specifico orientamento sessuale», arrivando a un nuovo orizzonte di fluidità.
«La prima volta che mi sono innamorato di un uomo avevo sedici anni. Da allora mi sono sempre mosso dall’amore alla conoscenza e alla verità», pare che Foucault abbia confidato una sera a Wade. Se i saggi di Veyne contribuiscono a far luce su una componente simil-socratica dell’atteggiamento ermeneutico e delle prassi di pensiero del filosofo francese, il memoir di Wade lascia emergere con chiarezza la suggestione di un Foucault platonico. «Il cielo è esploso e le stelle mi stanno piovendo addosso. So che non è vero, ma è la Verità», pare abbia esclamato Foucault durante il suo trip con l’LSD. La stessa sperimentazione di sostanze psicotrope da parte del filosofo sembra riconnettersi con certe tendenze misteriche della filosofia occidentale proemiale, pratiche arcane di cui Platone fu forse uno degli ultimi conoscitori diretti, prima che subentrasse una cesura solo in parte colmata dai plotiniani con le loro ipostasi, dagli gnostici con il loro radicale pot-pourri. Ma anche in uno sguardo più monografico, anche concentrandosi solo sull’opera e sulla personalità di Michel Foucault non si può ignorare la sua essenza di inesorabile double-face, come dimostrano benissimo questi due libri, di filosofo che propaganda una verità che non è più di Iside bensì di Giano. Lungo tutto il suo pensare e lungo tutta la sua vita, Foucault ha saputo contemporaneamente attaccare la tradizione e venerare la tradizione: non è questa l’unica possibile via, dopo, durante, oltre il Novecento?
25 maggio 2023
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