Partendo dalla pellicola The Lobster, che rappresenta nei suoi estremi più negativi due modi del vivere sociale, si riflette sulla natura delle relazioni che instauriamo con gli altri per cui rispetto al collettivismo e l’individualismo le relazioni di cura rappresentano un atto rivoluzionario, controcorrente rispetto ai due modelli di aggregazione sociale susseguitesi nella storia umana.
di Elena Usai
« Ciò che esiste, qualsiasi cosa sia, dal momento che esiste, coesiste »
(Nancy, J.L. 1996)
Due modi opposti del vivere sociale si affiancano su uno scenario distopico, è il racconto del regista greco Yorgos Lanthimos che nel 2015, con la pellicola The Lobster, rappresentò il collettivismo coercitivo e l’individualismo più sfrenato. Il film è ambientato in un Resort in cui tutti gli adulti single vengono costretti ad entrare con l’obbiettivo di trovare la loro metà entro 45 giorni, un eventuale fallimento comporterebbe una fatale trasformazione in animali. Non tutti accettano questo sistema, difatti nei boschi circostanti al Resort vivono coloro che si sono ribellati, chiamati “i Solitari”.
Questi ultimi sono tra loro alleati e aggregati ma non possono stabilire delle relazioni significative: l’amicizia tra membri viene considerata una debolezza poiché li renderebbe deboli e vulnerabili, un intralcio per la sopravvivenza!
Seppur la rappresentazione filmica è a tal punto esasperata da risultare quasi comica e inverosimile, essa rimanda a due stili sociali esperiti nella storia umana, divisi dalla linea di faglia della rivoluzione industriale.
Il sociologo tedesco Ulrich Beck riflettendo sulla società post-moderna ha individuato tantissimi cambiamenti nel modo di essere e di agire, nelle istituzioni sociali e nei rapporti umani, tanto da parlare di una “metamorfosi del mondo”. Uno degli elementi cardine di tali cambiamenti sarebbe stata la progressiva individualizzazione attraverso cui le persone hanno potuto emanciparsi dai vincoli tradizionali, dall’intransigenza delle norme e delle sanzioni sociali. Nella società preindustriale, invece, vigeva un orientamento praticamente opposto poiché era fortissimo il senso di comunità e il rispetto di certi valori sociali era tanto coercitivo da risultare opprimente. Non si poteva stare soli, poiché soli si perdeva la propria identità. Non si era nulla, senza una famiglia, senza una chiesa, senza un’ideologia. Si è passati, quindi, da una società che premeva al conformismo sociale ad un'altra che spinge all’individualismo. Elena Puccini descrive il soggetto moderno come «un individuo mosso da un impulso illimitato di autorealizzazione dei propri desideri che esclude ogni alterità, indifferente alla sfera pubblica e al bene comune». In questa dinamica relazionale l’altro è nelle biografie personali solo un “pubblico” a cui mostrare sé stessi, oppure qualcuno da sottomettere per ottenere in cambio un’identità.
Il punto di bilanciamento tra le due posizioni è quella che per i più cinici può apparire come stucchevole smanceria, ma che in realtà è un’inversione totale di tendenza, un atto rivoluzionario: la capacità di instaurare una relazione di cura autentica.
La cura viene definita da Heidegger il tratto ontologico dell’essere, più precisamente: «la struttura d’essere dell’esserci» (M. Heidegger, Essere e tempo). Secondo Luigina Mortari, in La filosofia della cura, l’essere umano non avrebbe una forma pienamente data ma sarebbe una sostanza che si costruisce con il tempo; per sua natura mancante, non autonoma e autosufficiente, in continuo stato di bisogno e di cura. Abbiamo bisogno degli altri fin dalla prima infanzia quando siamo mancanti fisicamente della capacità di sopravvivere e siamo perciò totalmente dipendenti dalla cura che ci viene offerta. Ma continuiamo ad avere bisogno di cura anche con la crescita, in quanto esseri che vivono nella continua angoscia, derivata dalla contrapposizione tra ciò che si è, quello che si potrebbe essere e che potrebbe non realizzarsi. Ed è solo grazie agli altri che potremo realizzare noi stessi: attraverso il loro lavoro di cura. La nostra identità, infatti, sarebbe fortemente legata alle relazioni poiché noi diventiamo ciò di cui abbiamo cura e la cura da forma al nostro essere. Se abbiamo cura di certe idee la nostra esperienza mentale poggerà su quelle; così come quando ci prendiamo cura di certe persone, ciò che accade nello scambio relazionale con esse, diverrà parte di noi.
Alla base della relazione di cura c’è la capacità di stabilire un incontro e un dialogo sincero con gli altri, per cui essi smettono di essere comparse, ma protagonisti, persone da cui si può ricevere e a cui si può donare, smettendo di vivere la vita come una competizione in cui la sopravvivenza e il dominio siano lo scopo.
Mortari sostiene che le relazioni scolpiscono la materia dell’esistenza, perciò non si arriverà ad essere attraverso un atto solitario, ma solo attraverso gli scambi che hanno luogo nella comunità in cui si trova a vivere. La necessità dell’altro si manifesta quando siamo neonati, con l’attaccamento materno, poi ricompare in altre forme in diverse fasi della vita: quando si cerca l’amico, l’amante, il compagno d’azione. L’altro ci aiuta a curare le nostre ferite ma ci permettere anche di esplicare le nostre potenzialità.
« Se la cura si qualifica come fenomeno ontologico sostanziale dell’esserci e se l’esserci è intimamente relazionale(..) allora l’aver cura dell’esserci è tutt’uno con l’aver cura del con-esserci e dunque con l’aver cura degli altri » (L. Mortari, La filosofia della cura)
Tuttavia, le relazioni autentiche fanno spesso paura poiché il rapporto con l’altro alimenta l’essere ma allo stesso tempo limita, può essere fonte di nutrimento ma anche di vulnerabilità. Nella cura si crea sempre una relazione asimmetrica formata da chi si prende cura e chi la riceve, questo tipo di asimmetria può variare: tanto è più preponderante il bisogno dell’altro tanto più la dipendenza. Marta Nussbaum, in Terapia del desiderio, definisce l’amore e l’amicizia, come “beni relazionali” che sarebbero «vulnerabili in maniera particolarmente profonda e pericolosa» . Sono vulnerabili perché esposti agli eventi del mondo e possono indebolirsi o distruggersi. La perdita di una relazione significativa viene percepita, non come una perdita di qualcosa, ma di una parte di sé, perché nel vivere le relazioni il nostro divenire si intreccia con quello degli altri e quando l’altro se ne va una parte di noi viene meno.
Per evitare la sofferenza conseguente al venire meno dei beni relazionali si sarebbe tentati di orientare l’esistenza umana verso una forma di autosufficienza, ma una vita completamente solitaria non è propriamente umana. La vulnerabilità è dunque inevitabile.
La fragilità del nostro essere la si coglie nella enigmaticità della nostra origine e della nostra fine, nel nostro essere gettati nel mondo. Gettati in quanto siamo legati a quello che viene da noi e a ciò che dipende dal mondo, ma anche per il fatto di venire da un’intenzione non nostra e finire indipendentemente dal nostro volere: «veniamo a essere indipendentemente da una nostra decisione e una volta nel mondo veniamo a trovarci nel fluire del tempo, e questo essere nel tempo non sta sotto la nostra sovranità» (L. Mortari, La filosofia della cura). Ma è proprio dalla consapevolezza che tutti siamo fragili che dovrebbe generarsi la cura:
« Sapere che tutti noi siamo deboli, sentire la propria debolezza e capire che l’altro è nella mia stessa debolezza, perché solo sapendo che siamo tutti fragili e vulnerabili si può avvertire la tensione ad agire per l’altro, a fare per l’altro quello che vorremmo fosse fatto a noi » (Ivi)
Prendere coscienza che siamo tutti nella stessa condizione, che si colora di mille sfumature ma che parte da uno stesso colore primario può generare l’incontro realmente sincero e profondo, che avviene quando ci si spoglia e ci si tocca pelle con pelle arginando le barriere che ci dividono, conoscendo le zone più fragili e sensibili può far rendere conto che siamo tutti uguali, in fondo. Tutti ci sentiamo soli, angosciati e fragili, perché questa è una sensazione ontologica della vita stessa. Ma se ci uniamo e scegliamo di prenderci cura di noi stessi e degli altri, impegnandoci a conoscerci e a relazionarci in un incontro sincero con loro forse potremo sopportare meglio tutto ciò. In questo modo si andrebbe controcorrente sia rispetto all’individualismo che porta a concentrarsi solo verso sé stessi, che rispetto al collettivismo più freddo e superficiale, formato da rapporti di circostanza.
Per questo la cura è un atto rivoluzionario.
17 maggio 2023