Con Hegel oltre Hegel: questo il compito che L’ethos del riconoscimento si propone. Il testo di Lucio Cortella, edito recentemente da Laterza, vuole portare una tesi forte: il riconoscimento è l’originario, il fondamento della società, della morale, della libertà, e insomma di tutto ciò che compone il tessuto etico – la dimora – dell’individuo.
Lo scopo del testo è di individuare il fondamento che attraversa e intreccia i concetti di libertà, di individuo, di morale, di comunità. Ma non si tratta di un esercizio accademico che voglia far tornare i conti, muovendo con simmetria di parole. Qui il problema è più urgente che mai: la nostra modernità ha scandito i ritmi dell’individuo, squarciando con violenza il legame con l’altro – inteso come l’altro uomo, l’altro come natura, l’altro come una parte di sé che non riconosce, eccetera. Il modello che da centinaia d’anni assecondiamo, in misura sempre più decisa, è quello che predica l’assoluta potenza e l’assoluta libertà dell’individuo sul resto: ciascuno è se stesso e nient’altro che il suo puro e infinito volere. Con ciò, se vogliamo, abbiamo già implicato le derive che lamentiamo ai nostri giorni. Se siamo individualisti, se siamo capitalisti, se siamo depressi e malati, se ci sentiamo soli, se ci sentiamo di vomitare addosso all’altro tutte le nostre frustrazioni, se ci sentiamo scissi, lacerati, se l’unico mito che abitiamo è quello della potenza incondizionata, se tutto questo accade è proprio in virtù di un passaggio filosofico da un terreno etico a uno prettamente egoistico. La filosofia politica, nella sua formulazione aristotelica, principia con due affermazioni oramai anacronistiche: l’uomo è animale politico e dotato di logos. Un ribaltamento rispetto al nostro pensiero in cui solo l’individuo trova posto a sedere, nell’istante di siglare finalmente quel leggendario patto, chiamato anche contratto sociale...
Se per il greco l’uomo è il suo gruppo di uomini, per il moderno l’uomo è unicamente se stesso, e suo malgrado deve vivere insieme ad altri uomini.
« Questo forte senso della relazionalità, e dell’appartenenza comunitaria, tipico della concezione greca, viene indebolito se non messo radicalmente in discussione quando dalla modernità emerge prepotente il superiore valore della libertà individuale, la sua insopprimibilità, la sua pretesa di porsi come il segno distintivo della nostra umanità. » (Cortella, cit., p. 5)
Evidentemente per un greco la felicità del singolo, come la sua libertà, o la sua virtù, abitano di pari passo l’individuo e la comunità. Mentre se il nostro tipo di lettura del mondo agisce al rovescio, il risultato sarà anch’esso l’opposto, per cui la mia felicità, libertà, morale sono soltanto mie, e se s’incontrano con le altrui è semplicemente per quel casuale e purtroppo inevitabile scontro fra atomi, che nel vuoto in cui fluttuano vengono a urtarsi fastidiosamente. Vale a dire che il soggetto, per noi moderni, è libero finché lo spazio vuoto non presenta un altro soggetto, un altro atomo, che va evitato o urtato velocemente, per minimizzare i danni. L’altro per il greco è casa; l’altro per noi è un impiccio, o alle volte un problema tanto enorme che conduce alla patologia.
Ecco squadernato il problema in modo semplice, come molti autori lo hanno sentito. Non è nuova infatti l’idea di tornare alla comunità, di ripensare l’intero come il primo e l’individuo come reale solo nello spazio sociale. La comunità, per il moderno e soprattutto per il contemporaneo, è un problema tanto comune proprio perché ne avverte la mancanza, e, per lo stesso motivo, cioè perché non è vera comunità ma solo insieme di individui, ne soffre il peso soverchiante.
Eppure parlare di comunità non è fare comunità, come celebrare gli antichi miti non è farli vivere. Dire, poi, in termini generali, che l’individuo è tale solo in virtù del suo gruppo sociale, che lo ha formato e gli permette di manifestare le sue piene potenzialità, non è un passaggio sufficiente a risolvere ciò che sperimentiamo. Se non altro perché le “potenzialità” equivalgono oggi alla potenza del proprio ego, che, come premesso, si innalza abbassando l’altro, o comunque nell’indifferenza sostanziale (o esistenziale) verso ogni altro. E, in ogni caso, fare intendere che la formazione del soggetto, della sua cultura o intelligenza, del suo tenore di vita, dipendono necessariamente anche dalla società, non permette di operare un reale ricongiungimento alla comunità (e nemmeno con se stessi) proprio per la premessa: la teoria odierna afferma l’altro come nemico e ora, per metterci una pezza, vorremmo che l’altro fosse amico!
Se ciascuno di noi è un atomo che sopporta altri atomi, è piuttosto controverso insegnare che gli altri atomi costituiscano una sorta di rimedio alla nostra solitudine. A meno che non si cominci a scalzare la teoria “atomistica”: vale a dire, l’esperimento che Cortella compie nel suo libro.
Possiamo introdurre la sua soluzione con questa provocazione: se la teoria “atomistica” fosse vera, perché non ci troviamo a nostro agio con le sue conseguenze? Aristotele nella Politica insegna che gli esseri umani vivono insieme per vivere bene, mentre le relazioni “utili” rimangono forme estrinseche e accidentali di legame sociale; noi contemporanei abitiamo nell’altro solo ragioni estrinseche e accidentali. Nell’altro vogliamo abitare il meno possibile, ma questa soluzione, in luogo di salvarci, è infinitamente dolorosa. Perché? Perché, spiega Cortella, esiste un desiderio di riconoscimento ed è trascendentale.
« La caratterizzazione trascendentale ha qui il significato minimale che indica solo l’impossibilità di aggiramento, l’impossibilità di un’alternativa per la nostra forma di vita. » (Ivi, p. 57)
Ciascuno di noi, infatti, insieme a una serie di desideri biologici che spingono all’apertura verso l’altro (bere l’acqua o mangiare una mela ne sono semplici esempi), possiede come “innato” un desiderio tutto umano. Questo desiderio è chiamato da Hegel desiderio di riconoscimento.
« [...] la brama fondamentale [il desiderio di riconoscimento] non è rivolta a particolari oggetti o a specifiche prestazioni richieste ai soggetti, ma orientata alla conferma della nostra intera esistenza. » (Ivi, p. 19)
L’uomo abita il desiderio di essere riconosciuto da altri desideri umani, di essere desiderato da altri. Non ci basta mangiare, bere, sopravvivere; come specie siamo mossi anche da un inevitabile bisogno di essere “confermati” e amati nel nostro essere, nel modo in cui viviamo, pensiamo, sentiamo. Desideriamo non solo l’oggetto, ma anche, e soprattutto, il desiderio dell’altro. E questo desiderio dell’altro non subentra in maniera opzionale, è presente sin dal momento in cui ogni uomo emette il primo vagito. Il nuovo nato desidera il desiderio della madre, cioè desidera immediatamente dalla madre il riconoscimento della sua «intera esistenza», proprio perché egli stesso, certo in forma inconsapevole, riconosce la madre immediatamente come la propria intera esistenza.
In seguito, attraverso lo sguardo della madre e del padre, vale a dire del loro riconoscimento, il piccolo apprende di essere a sua volta un essere desiderante distinto da altri, nella misura in cui i genitori lo trattano come tale, vale a dire che sempre illuminano quella sua identità di soggetto autonomo. L’identità del bambino, come poi quella dell’adulto con le sue nuove capacità, è legata al riconoscimento che ne viene fatto.
« Per diventare un soggetto dotato di autonomia è necessario che egli abbia acquisito fiducia in se stesso, rispetto di sé e autostima, cioè è indispensabile che sia passato attraverso una storia personale di riconoscimenti riusciti. » (Ivi, p. 91)
Anche la conoscenza, nonché la percezione di cosa sia reale, dipende dal riconoscimento: non è un fattore singolare ma sociale.
« L’oggettività delle nostre conoscenze è il risultato di un processo di riconoscimento, nel quale una prospettiva soggettiva – passata attraverso il vaglio degli altri soggetti coinvolti e completata dal contributo di tutti – è stata riconosciuta come “oggettiva”. » (Ivi, p. 41)
Se questo è il carattere generico del riconoscimento, Cortella suggerisce di prenderlo in esame sotto un certo rispetto. Infatti che lo “spirito oggettivo”, il mondo della cultura, sia nato da accordo fra esseri umani è cosa già nota all’interno della filosofia contemporanea. Quel che c’è di importante nel suo discorso risiede non tanto nel riconoscimento come elemento empirico (l’accordo su questa o quella regola, su questa o quella tesi, idea, politica) ma nel riconoscimento come trascendentale, di cui abbiamo solo accennato. Riprendiamo allora la questione del desiderio dell’altro, e vediamo in che misura questo desiderio innato sia precisamente il cardine attorno a cui ruota il nuovo concetto di morale oggettiva e di relazionalità fondamentale del soggetto. Vale a dire che, una volta compreso il concetto chiave, si apre una lettura differente della moralità e della comunità, come oggettive.
Il desiderio dell’altro è un desiderio che nell’individuo è non solo innato, ma persistente e inevitabile. Proprio come il bambino si forma grazie al riconoscimento che l’altro ne fa (e se mancasse il riconoscimento non sarebbe bambino), così qualunque aspetto della nostra personalità domanda sempre l’apertura all’altro, il riconoscimento da parte dell’altro. Quella conferma che l’altro ci dà è indispensabile per riconoscere la realtà di quello che abbiamo compiuto e, in un certo senso, di quello che siamo. Perciò è sciocca quanto poco lungimirante la pretesa di posizione “contro tutti” e “a prescindere da ciò che tutti pensano”. È irreale, perché se è vero che si fa volentieri a meno del riconoscimento di coloro che non riconosciamo sotto un determinato rispetto, non è affatto vero che un uomo possa vivere senza avere la conferma da parte di un altro essere umano. È talmente necessario che spesso, nella solitudine, ci si rifugia nei classici, vale a dire nell’opera di altri esseri umani da cui immaginiamo saremmo riconosciuti, se i tempi e i luoghi si incontrassero. Ma anche per questi casi solitari ciò non basterebbe, perché un riconoscimento immaginario non è ancora sufficiente a “riempire” la mancanza reale che il desiderio esprime. Perciò è sicuro che il riconoscimento viene cercato, senza possibilità di appello, nella comunità dei vivi.
La richiesta di riconoscimento, inoltre, ha una controparte necessaria: per fare sì che mi si riconosca devo a mia volta riconoscere nell’altro un soggetto capace di riconoscermi. Il riconoscimento esige reciprocità: per essere appagato di un riconoscimento, sono costretto a riconoscere nell’altro la sua “affidabilità”, il valore del suo riconoscimento e perciò del suo essere.
« Non ci si può sentire riconosciuti senza aver riconosciuto. Nel momento in cui ci si sente guardati come soggetto si è guardato anche l’altro come soggetto. » (Ivi, p. 23)
« Io sono tanto più soggetto quanto più vengo riconosciuto, quanto più vengo rafforzato nella mia identità. » (Ivi, p. 145)
Evidentemente, la presenza inevitabile del riconoscimento, vale a dire il suo essere trascendentale, non garantisce la sua piena, immediata, realizzazione empirica. È cioè possibile che il riconoscimento si realizzi in forma incompleta, parziale, insufficiente (come nel caso della teoria soggettivistica di cui siamo abitatori). È necessario, in altre parole, che ciascuno esprima il desiderio di riconoscimento e vi operi attraverso; è contestuale, invece, ossia legato al modello filosofico, il modo in cui si esprime. Per analogia, abbiamo sempre desiderio di bere, ma possiamo credere di dissetarci mentre in realtà ingeriamo dell’acqua avvelenata. Per esempio, il fatto che il riconoscimento implichi il riconoscimento della soggettività altrui, perciò della sua autonomia e dignità, non implica al contempo una vuota uguaglianza fra i soggetti. Il relativismo è una maniera sottile per aggirare e fuggire il riconoscimento altrui (dove “ciascuno ha la sua verità”), mentre accogliere il rapporto di riconoscimento, vale a dire la possibilità di essere smentiti, significa che talvolta l’altro non è solo soggetto autonomo e libero, ma un soggetto libero, autonomo e pure superiore a noi stessi. C'è da pensare che questa volontà di uguaglianza astratta, con le sue parole apparentemente democratiche, risieda, alle volte, nel bisogno di nascondersi all'altro. Se l'altro non può attaccare è giustamente perché tra sé e sé si è stabilito che il giudizio altrui non ha valore, non è più minaccioso, ma solo il proprio – assoluto – ne ha. Accade, in realtà, l'opposto di quello che sembra a noi contemporanei (che questo genere di maschera l'adottiamo spesso): la parità astratta, l'identità vuota dei soggetti, è dogmatica e autoritaria.
Ora, riprendendo il discorso centrale, questo legame trascendentale con l’altro è ciò che impedisce di assumere il modello filosofico moderno per cui il soggetto sia bastante a se stesso, e secondo cui l’incontro con l’altro sia un che di esteriore e accidentale, o soltanto utile. Se l’altro vive nel soggetto come condizione della sua realtà e della sua pienezza d’espressione, come impulso necessario della specie, allora si può ipotizzare un ritorno al modello classico: come diceva Aristotele, gli uomini non stanno insieme per bisogno, ma per vivere bene ed essere felici. Quello che Aristotele forse non poteva prevedere, a partire dal suo contesto in cui la comunità è immediata, è che ogni altra opzione è impossibile e irreale. L’uomo è animale sociale perché è definito dal riconoscimento, e, per quanto voglia immaginarsi monade autosufficiente, in cuor suo è abitato dal desiderio di essere amato da un essere umano. Amato non come individuo qualunque della specie, ma come soggetto specifico e unico. Il desiderio dell’altro vive nel singolo uomo proprio come vive il desiderio di nutrimento. Così non può che riconoscere e farsi riconoscere, nello stesso modo in cui mangia e beve.
Esplicitato l’aspetto comunitario, si deduce il discorso etico attraverso la reciprocità del riconoscimento. Ciò che si chiede all’altro, cioè il riconoscimento, in un certo modo viene restituito: il riconoscimento dell’altro infatti ha importanza perché l’altro ha un suo valore. La notazione di Cortella a margine di questa osservazione è potente e lucida: l’etica non è un insieme di regole frutto di un incontro empirico fra soggetti. Essa è oggettiva, cioè identica a se stessa in ogni gruppo umano. Le “regole” del riconoscimento sono sempre le stesse, che le si conosca oppure no. L’etica, il fondamento comunitario, è solo l’esplicitazione di un implicito. Nessun uomo la può inventare.
« Quell’insieme di intuizioni morali [...] precedono qualsiasi elaborazione filosofica e qualsiasi esplicita argomentazione. » (Ivi, p. 132)
« Non è l’antropologia a fondamento dell’etica, ma l’etica – implicita nelle relazioni di riconoscimento – a fondamento dell’antropologia. » (Ivi, p. 133)
Se è possibile non farle proprie, non è però possibile aggirarle del tutto, perché si legano al desiderio di essere desiderati. Fede, giustizia, rispetto, sono degli aspetti della relazionalità etica che non dobbiamo imparare ex novo, perché appartengono al patrimonio umano che si mostra nell’attività del riconoscimento. Così, se ciascuno può violare la “regola” del riconoscimento in una circostanza, non potrà farlo però sistematicamente all’interno della propria vita. Ognuno ha amici, familiari da cui richiede e a cui conferisce in maniera più o meno compiuta quel valore di riconoscimento che invece non riesce a estendere all’intero gruppo sociale.
La libertà richiede un discorso analogo. Esiste il soggetto nella relazione con l’altro soggetto. Perciò una buona lettura filosofica della libertà include l’alterità nel suo concetto, e non la esclude come invece fa il liberalismo classico, secondo cui la libertà del singolo finisce dove comincia la libertà di un altro individuo. Se la libertà deve tener conto dell’altro, essa non potrà che trovarsi in una certa relazione inclusiva con l’altro e non nello “spazio” che, separandoci dall’altro, permette libera manovra.
Concludendo, la tesi di Cortella può fungere da ossatura teorica su cui cominciare a organizzare nuove idee filosofiche, capaci di illuminare a dovere la relazionalità. Mentre oggi essa è relegata al mondo dei social, in cui, più che rapporti fra uomini, si leggono narrazioni di sofferenti e incarogniti: insomma, di uomini infelici. Se Aristotele insegnava l’alterità come esperienza essenziale per la vita buona e felice, dovremmo cominciare a chiederci perché oggi più che mai siamo così tremendamente spaventati e soli.
17 marzo 2023