Una riflessione su Han, Heidegger e il ruolo dell’io nella letteratura contemporanea.
di Riccardo Rinaldi
Da ormai oltre un decennio, Byung-Chul Han è uno dei più prolifici e apprezzati indagatori della crisi del contemporaneo. Negli agili testi che puntualmente dà alle stampe, l’autore sudcoreano ha composto nel tempo un ritratto nitido e impietoso della nostra società e del cupo destino cui sembra andare incontro.
Una società, quella neoliberale, che non rispecchia più il modello disciplinare di ispirazione benthamiana descritto da Foucault, il quale esercitava una costrizione sui corpi avvalendosi di ambienti e impianti di internamento (la famiglia, la scuola, il carcere); ma che invece, tramite forme di produzione post-industriali, immateriali e interconnesse, «scopre la psiche come forza produttiva» (Psicopolitica). Non più un regime biopolitico, quindi, ma psicopolitico: un potere invisibile, che agisce nel silenzio senza imporre restrizioni ma invitando i suoi sudditi a condividere, comunicare, partecipare. Un potere che non reprime le libertà dell’individuo, ma le sfrutta incentivandole. «La comunicazione coincide interamente col controllo. Ognuno è il panottico di se stesso.» (Ivi)
Una società digitale, de-fatticizzata. Uno sciame di individui isolati, che non diventano mai una folla mossa da intenti comuni, non si fondono mai in una pluralità coesa, ma dispongono di un profilo, conservano la propria identità anche nell’anonimato. L’uomo di oggi non è mai Nessuno: è invece sempre «insistentemente Qualcuno che si espone e ambisce all’attenzione» (Nello sciame). Un imprenditore di sé stesso, che bada unicamente a ottimizzare le proprie prestazioni – nel lavoro come nel tempo libero.
Una società palliativa, stregata dal sogno di eliminare il dolore dall’esistenza e condannatasi all’«inferno [o all’eterno ritorno] dell’uguale» (La società senza dolore). Una società edonistica, votata all’effimero, definitivamente secolarizzata, dove «il bello si estenua nel mi-piace», e l’estetizzazione, portata all’estremo, si rovescia in anestetizzazione. «La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo. […] La levigatezza non ferisce, e neppure offre alcuna resistenza. […] Rimuove così ogni negatività.» (La salvezza del bello)
Una società adialettica, esclusivamente positiva.
La rivoluzione digitale realizza una sorta di soggettività assoluta, un mondo in cui il soggetto incontra solo sé stesso. La quantità d’informazioni di cui disponiamo rende inutile chiedersi il perché delle cose: quando tutte le correlazioni sono note, i nessi di causalità sono superflui, la cogenza del sillogismo è superata dall’addizione indefinita. «Il Dataismo è nichilismo» (Psicopolitica), rinuncia totale a ogni forma di senso: non-sapere assoluto, il punto zero dello spirito. Ma quella dell’informazione e della trasparenza è davvero, come sostiene Han, una falsa chiarezza, un altro mito con cui si vuole celebrare la fine dei miti? Si ha voglia a sostenere che in natura non si diano crescite infinite: è bastato aggirare la forma corporea, e considerare l’uomo un semplice ammasso di dati, per poterlo consumare ad aeternum. Se la ragione e i sentimenti, sottoposti a troppi stimoli, si scontrano coi propri limiti, le emozioni, più fugaci e dinamiche, non si esauriscono mai: agendo sul sistema limbico (pre-riflessivo) che le governa, il capitalismo neoliberale ci invita costantemente a reagire, a dare sfogo ai nostri impulsi, illudendoci così di esprimere la nostra libertà. «Oggi in fondo non consumiamo più cose, ma emozioni: le cose non possono essere consumate all’infinito, le emozioni sì» (Ivi). Intervenendo sul nostro inconscio digitale, i big data sono quindi in grado di manipolare i comportamenti delle masse, senza che le loro ragioni emergano mai a un livello cosciente.
Si possono individuare due problemi fondamentali nel percorso di Han, che sono in fondo due facce della stessa medaglia: il problema (della presunta libertà) del soggetto e quello del suo rapporto con la trascendenza. Nelle sue parole:
« La libertà sarà stata solamente un episodio. Il termine episodio significa “parte intermedia”: il sentimento della libertà si manifesta nel passaggio da una forma di vita all’altra, fino a che anche quest’ultima non si rivela una forma di costrizione. Così, alla liberazione segue una nuova sottomissione: è questo il destino del soggetto, il cui significato letterale è “essere-sottomesso”. Oggi, non ci riteniamo soggetti sottomessi, ma progetti liberi, che delineano e reinventano se stessi in modo sempre nuovo. [… Ma] ormai, il progetto stesso si rivela non tanto una figura dalla costrizione, ma piuttosto una forma ancora più efficace di soggettivazione e di sottomissione. L’io come progetto […] si sottomette ora a obblighi interiori e a costrizioni autoimposte, forzandosi alla prestazione e all’ottimizzazione. » (Psicopolitica)
« [Il capitale] rappresenta una nuova trascendenza, una nuova forma di soggettivazione. Siamo nuovamente espulsi dal piano immanente della vita, nel quale la vita […] si riferisce a se stessa. A caratterizzare la politica moderna è l’emancipazione dall’ordine trascendente, ovvero dalle premesse fondate sulla religione. [… Ma] Vogliamo davvero essere liberi? Non abbiamo forse inventato Dio per non dover essere liberi? […] Non è il capitale un nuovo Dio, che ci rende di nuovo debitori? » (Ivi)
In uno dei suoi ultimi libri (Sano intrattenimento, Nottetempo), tuttavia, la posizione di Han appare più sfumata. Qui l’autore si impegna, con una serie di esempi, a dimostrare che il paradigma tradizionale della passione, della via doloris come strada maestra verso il vero e il giusto, e quello dell’intrattenimento che in ogni campo sembra oggi soppiantarlo, sono in realtà «consanguinei». Fin dal 1727, con la Passione secondo Matteo di Bach, la musica smette di essere esclusivamente laudatio dei per dedicarsi a «dilettare gli animi», formare il gusto delle persone e portare piacere. «Il faut méditerraniser la musique», dirà Nietzsche: abbandonare la meditazione sulla redenzione di stampo wagneriano e abbracciare una musica giovane, salutare, come quella di Offenbach, che promette «una salvezza dal bisogno permanente di essere salvati» (Ivi). O come quella di Rossini, un’arte del lusso che cerca l’effetto sul grande pubblico. Un divertimento in cui, lontana dalla parola, la musica parla la propria lingua, e proprio in questa artificiosità trova la sua forma più libera, “naturale”.
Con buona pace di Adorno, le prime aperture al piacere soggettivo del bello come sentimento autoerotico si trovano già nell’idealismo tedesco. Se è vero che in Kant il senso del bello ha a che fare col giudizio, col discernimento – e si estende alla sfera morale, che è obbligo, passione: mai divertimento –, l’acutezza è detta “lusso della mente”: l’ingegno fiorisce nelle sue divagazioni, non nel soddisfare i bisogni della vita pratica. L’intrattenimento è sì qualcosa di organico, animalesco, ma non un degrado spirituale tale da ostacolare la ricerca di un valore assoluto, del sommo bene. Nella contemplazione del bello le facoltà conoscitive sono alle prese con un gioco che prelude al lavoro della conoscenza vera e propria (Cfr., La salvezza del bello). Così per Hegel, se certo l’arte «è per noi un passato» – luogo di svago e di godimenti effimeri, non certo delle domande universali – anche quella per il bello è una passione autentica. Solo in ambito estetico, infatti, l’uomo è veramente libero: nel rapporto disinteressato con quanto ha il proprio fine in sé stesso, il soggetto può esprimere la propria singolarità fin quasi a confondersi con l’oggetto della sua ammirazione. Non siamo ancora in una dimensione gastronomica, di puro consumo: permane sempre una distanza, un indugio contemplativo attraverso il quale l’esperienza estetica deve elevarsi a un sapere più completo. E tuttavia si pongono le basi per una visione non dicotomica in cui, se l’arte è in rapporto con la verità, non deve necessariamente elevarsi al di sopra del quotidiano, implicando uno struggimento, una brama di trascendenza: l’intrattenimento, come arte del qui e ora, contribuisce all’ordine sociale, consolidando le norme morali in vere e proprie inclinazioni. Il suo sviluppo narrativo ha anzi più presa sul pubblico, cosa che lo rende, come già una volta il mito, più efficace dell’imperativo morale e più gradevole del laborioso cammino della ragione verso la verità.
Chi esce inaspettatamente ridimensionato dalla disamina di Han è invece Martin Heidegger, cui l’autore ha dedicato la sua tesi di dottorato. L’avversione del filosofo di Friburgo per la chiacchiera e per la dittatura del si, che pregiudicano la possibilità di un’esistenza autentica per l’esserci, viene a più riprese giudicata come il retaggio di una fede religiosa. Tutto quanto si interpone a un rapporto primario con l’essere, secondo Heidegger, relega l’uomo nell’infondatezza della quotidianità: ma se i media prescrivono una situazione emotiva, uno stato interpretativo cui l’esserci non può sottrarsi, con le sue rime e le sue etimologie volte a ri-fattualizzare il mondo, egli fabbrica una realtà altrettanto virtuale e ingombrante. L’homo solitudinis che, immerso nel lavoro e nel raccoglimento, si dispone all’ascolto dell’essere, alla passione del pensiero, per divenire un’eco dell’immemoriale (Cfr., Ivi), non è in realtà che il contraltare dell’uomo contemporaneo alienato nella comunicazione, secondo Han.
Eppure Heidegger non è solo il filosofo dell’angoscia di fronte alla morte, che mette in guardia dalla «tentazione della deiezione». Tra i numerosi testi in cui auspica esplicitamente un superamento del soggetto, possiamo ricordare una conferenza del 1938 intitolata L’epoca dell’immagine del mondo dove Heidegger illustra come, in epoca moderna, ponendosi alla base di ogni rappresentazione dell’ente (sostituendosi al Dio medievale come fundamentus inconcussum veritatis), l’uomo introduca la metafisica occidentale nella fase del suo definitivo compimento. Vale come essente solo ciò di cui il soggetto può calcolare con certezza la natura e la storia. La scienza moderna è esatta perché intrinsecamente matematica: prende in considerazione, nell’ente ridotto a suo oggetto, solo quanto conosce in anticipo – da cui l’esperimento. Farsi un’immagine del mondo significa porsi dinnanzi le cose nella loro semplice presenza, ricondurle al soggetto come alla loro misura. Ma così facendo, esso «fa entrare anche se stesso in scena»: rappresentando, il soggetto trova la garanzia del proprio essere-rappresentato, con-scientia. «Con l’interpretazione dell’uomo come subjectum, Cartesio crea il presupposto metafisico per la successiva antropologia di ogni specie e indirizzo», la quale, in quanto dottrina che «spieghi e valuti l’ente nel suo insieme a partire dall’uomo e in vista dell’uomo» – del tutto impensabile in epoca antica –, «incammina la metafisica nella direzione che porta all’estinzione e alla sospensione di ogni filosofia» (in nota). Quella che nel testo heideggeriano può apparire come una nota a margine, riletta con la dovuta distanza risuona oggi come un’illuminante intuizione:
« È fuori di dubbio che il Mondo Moderno, liberando l’individuo, ha fatto trionfare il soggettivismo e l’individualismo. Ma è altrettanto certo che nessuna epoca precedente ha elaborato un oggettivismo così spinto e che in nessuna età precedente il non-individuale trovò tanto credito sotto forma di collettivo. » (Sentieri interrotti).
Lo scoglio verso cui tutti i libri di Han sembrano inesorabilmente fare rotta – il rapporto tra la libertà del soggetto e la trascendenza –, sembra quindi essere stato avvistato da Heidegger con largo anticipo, quando la rivoluzione digitale compariva forse solo nella letteratura fantascientifica.
Ora, se nei suoi scritti precedenti Han ha chiaramente dimostrato come Orwell, Foucault, Stiegler, ecc., valutando il potere neoliberale secondo le categorie di quello disciplinare, ne abbiano mancato l’essenza (attribuendo tuttavia egli stesso un carattere intenzionale, finalistico, in definitiva soggettivo a questo potere), in Sano intrattenimento, come abbiamo anticipato, il suo giudizio è più ambivalente. Se l’intrattenimento sembra oggi assolutizzarsi, farsi cronico, eliminando la differenza tra lavoro e tempo libero e parassitando le forme di sapere già esistenti fino a piegarle ai propri criteri di ottimizzazione, in realtà esiste da sempre un comune denominatore tra passione e divertimento, il piacere. Lo stesso Kafka, che scrive di notte per non impazzire, per fuggire al dramma di un’esistenza invivibile, lo fa per un piacere più grande, una ricompensa più dolce della vita cui rinuncia: lo scrittore non è solo un martire che soffre al posto dell’umanità per rendere godibile il peccato, ma è anche colui che baratta la felicità «per un piacere più alto chiamato scrittura. La sua ricerca del piacere capitalizza anche la salma» (Ivi). Prendendo a paradigma il digiunatore della celebre novella, Han illustra come l’arte della rinuncia, dell’astinenza – della passione –, non sia che un modo per trasformare «la negazione di quello che è in una forma di godimento» (Ivi). Non è un caso, conclude, se la pantera che sostituisce il digiunatore nel finale del racconto, animale edonistico e figura del piacere sensuale, occupi la sua stessa gabbia.
Cos’è allora questa prigione invisibile tra le cui sbarre continuiamo ad aggirarci? Siamo sicuri che basti colmare il divario creatosi tra una sempre più diffusa incapacità di elaborare, raccontare, e l’ormai consolidata propensione a far di conto, per ritrovare la retta via? È il soggetto a rivelarsi ormai inadeguato: pretendiamo di avvalerci di categorie moderne per risolvere questioni che non sono più alla sua portata. Il problema non è in fondo ancora quello di Nietzsche? Cos’è la gabbia se non un dio morto, mai risorto, e del cui trono l’uomo non si è rivelato all’altezza? Chi pensa questo pensiero? E se non lo pensasse nessuno, se fosse privo di soggetto?
Il medium digitale non fa che portare a termine un processo avviato da secoli. Come ha spiegato Heidegger, a partire da Cartesio ogni cosa viene interpretata come espressione della vita dell’uomo, vissuto: così l’arte, ricondotta nell’orizzonte dell’estetica; e così la religione – è il Cristianesimo moderno, divenuto visione del mondo, a condurre all’attuale sdivinizzazione (Entgötterung). Qualcosa come l’umanesimo non sarebbe neppur potuto venire in mente ai Greci (che infatti non avevano nessuna immagine del mondo): il solo modo rimasto all’uomo per accantonare quest’eredità è oltrepassando la metafisica, ovvero comprendere come il soggetto non sia la sola possibilità del suo essere storico. Oggigiorno, tuttavia, egli non può che uniformarsi al dominio tecnicamente organizzato del pianeta: «non può svincolarsi da questo destino [Geschick] della sua essenza moderna, né può sospenderlo con una decisione sovrana» (Sentieri interrotti, nota). Per questo, nell’epoca in cui la modernità raggiunge l’estremo limite della propria grandezza, il pensiero dovrà mostrarsi «ancora una volta capace di un Dio» (Ivi) e concepire l’essenza dell’uomo secondo un inizio più originario.
Se l’arte in genere si illude da tempo di essersi messa alle spalle il problema del soggetto, frantumando la frontiera tra opera e autore, il pensiero calcolante che ha reso possibile l’odierna ubiquità del digitale lo ha più praticamente eluso. C’è però un ambito in cui il nodo dell’io permane tuttora indeciso e irrisolto, quello delle lettere. Nella presentazione dell’ultimo numero della rivista Sotto il Vulcano, intitolato Selfismo (Feltrinelli, 2022), si può leggere: «Il soggetto, che il Novecento sembrava aver consegnato alla dissoluzione e il postmoderno a un’esplosione di percezioni, pratiche e pensieri, a partire dal Duemila si è ripreso la scena. Mezzo secolo dopo “la morte del soggetto” decretata da Michel Foucault nel 1966 in Le parole e le cose, ci ritroviamo immersi in un’epoca in cui l’io è più vivo che mai». La novità dell’auto-fiction consisterebbe nel mettere in scena esistenze comuni, in cui il maggior numero di lettori si possa identificare. L’autore entra in competizione con la propria opera, la quale anzi non serve che a consolidare la sua fama, purché egli non venga meno al patto di raccontare esclusivamente fatti realmente vissuti. Ma può anche darsi che il ricorso alla prima persona non sia che una reazione, un tentativo di «sondare, […] ricostruendolo nella narrazione, il mistero di qualcosa che viene a mancare» (Ivi).
La stessa Annie Ernaux, cui non a caso è stato attribuito l’ultimo Nobel per la letteratura, sostiene di scrivere per far esistere ciò che è stato, per dare consistenza a ciò che andrebbe perso: una lotta contro il tempo come forza disgregante, oblio. Ma sebbene ella definisca la distanza e l’attesa necessarie alla riconquista del passato come «un rituale laico di salvezza che la scrittura può permettersi», in un’intervista del 2017 su La Lettura, a proposito de Il Posto, afferma:
« Dirò una cosa terribile, io che non credo più a nessuna forma di religione: è un’opera che deve molto alla figura di Cristo, inteso come sacrificio, come percorso di conoscenza, come simbolo degli uomini; proprio come mio padre, che viene spogliato della regalità genitoriale per essere visto dalla propria figlia per ciò che è. Si avvera una sorta di umanizzazione laddove poteva esserci l’idealizzazione. Ho impiegato nove mesi a riscriverlo e a rispettare un unico imperativo: scrivi solo ciò che sai ».
Anche in questo caso, più si scava nell’io alla ricerca del suo punto di massima purezza, più si va incontro a Dio. Cos’altro è l’inciso rivolto al lettore nell’Evento – sorta di manifesto della letteratura di Ernaux: «Aver vissuto una cosa, qualsiasi cosa, conferisce il diritto inalienabile di scriverla. Non ci sono verità inferiori» (L’evento) –, se non una versione alternativa e speculare della tesi fondamentale del Dataismo – «tutto ciò che può essere misurato, dev’essere misurato» (Cfr. Psicopolitica)? Cosa si fa se non cercare il principio del proprio sapere, raschiando sul fondo della stessa gabbia cui fa segno anche la celebre conclusione del Tractatus di Wittgenstein: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere»?
Per emanciparci dall’assoggettamento al trascendente e riabituarci all’immanenza della vita, Han auspica, in modo invero un po’ vago, un’estetica dell’evento come irruzione del fuori, di una forza totalmente improduttiva: un’esperienza della discontinuità che strappi «il soggetto a se stesso, facendo in modo che non sia più tale, o che sia completamente altro da sé, che giunga al suo annullamento, alla sua dissociazione» (Ivi). La sua visione di fondo conserva tuttavia una certa dose di manicheismo – la trascendenza è sempre negativa – e la sua posizione sul ruolo del soggetto non è adeguatamente elaborata. Cosa significa, precisamente, che essendosi l’intrattenimento ormai elevato a paradigma di ogni cosa, «[…l]a distinzione tra realtà vera e finzionale […] non è più rilevante» (Sano intrattenimento)? Chi dovrebbe farsi carico di questa consapevolezza?
In Demeure. Maurice Blanchot (1998), Derrida analizza il rapporto tra finzione e testimonianza, rifacendosi liberamente al goethiano Dichtung und Wahrheit, per mostrare come la letteratura nasca nell’indecidibilità intrinseca a questo binomio. Se la validità di un processo si basa sulla veridicità delle testimonianze che vi si ascoltano, si presume che il testimone sia stato solo di fronte all’evento di cui riferisce: la testimonianza ha quindi sempre a che fare con la possibilità della menzogna. Altrimenti sarebbe una prova e il testimone diverrebbe inutile. Apparentemente incompatibile con la finzione, la testimonianza implica per natura il simulacro, la dissimulazione: per essere tale, deve «lasciarsi infestare da ciò che di principio esclude dal suo foro interiore, la possibilità, almeno, della letteratura» (traduzione mia). Si è testimoni solo quando nessuno può testimoniare al nostro posto: il segreto è quindi «la condizione stessa della testimonianza». E chi conosce questo segreto meglio del digiunatore kafkiano?
« Nessuno infatti era in grado di rimanere ininterrottamente presso il digiunatore per tutta la serie di giorni e di notti che il digiuno durava, nessuno quindi poteva sapere di scienza propria se il digiunatore avesse digiunato senza interruzione, inappuntabilmente; solo il digiunatore poteva saperlo, solo lui, quindi, essere contemporaneamente lo spettatore perfettamente soddisfatto del proprio digiuno. Ma soddisfatto egli invece non lo era mai, per un’altra ragione. » (Un digiunatore di Franz Kafka)
« […] Provatevi a spiegare a qualcuno l’arte di digiunare! » (Ivi)
Il soggetto può garantire l’unicità e autenticità della propria parola, del proprio segreto, solo quando smette di essere io, poiché se nell’istante in cui viene pronunciata ogni frase diviene ripetibile, è «affetta da tecnologia», «virtualità» (Cfr., Demeure), in quello stesso istante s’insinua la possibilità della letteratura come finzione, racconto, illusione. Chi dice «io» mente, oppure non è uno scrittore.
9 marzo 2023