Il Leibniz di Hegel - Forza, tendenza e finalismo

 

Nel presente articolo intendo mostrare come gran parte delle intuizioni leibniziane, quelle di maggiore pregio o folgoranti per profondità e concentrazione, costituiscano dei dettagli luminosi che lo Hegel ha saputo cogliere con altrettanta incomparabile lucidità, potenziando invero lʼarmamentario esplosivo della sua dialettica.

 

di Giuseppe Montana

 

 

  1. Per le monadi in senso stretto non vʼè alcun posto nel sistema hegeliano. Ma ciò che Leibniz ha squadernato nella monade, quindi lʼintima partecipazione di ogni singolo io monadico all'intrasmutabile  Uno, la differenza come differenza determinata in sé o lʼautoeguaglianza come differenza interna (principio degli indiscernibili), il conatus come tendenza che preme e palpita teleologicamente verso il dispiegamento di un a priori rimasto latente (principio di ragion sufficiente), non fanno che confermare l'immenso debito hegeliano nei confronti di Leibniz. Eppure lʼenciclopedico Hegel, per comprenderlo più rapidamente e meglio, doveva renderselo sgradito e in opposizione, enfatizzando il più delle volte soltanto quelle ipotesi un po' premature costruite sulle rovine del cartesianesimo e che in effetti per profondità speculativa potevano ben definirsi "immaginazioni a priori". Ma su questo aspetto ritorneremo in seguito, per adesso addentriamoci nel vivo delle lezioni berlinesi dedicate al filosofo di Hannover.

 

Secondo Hegel, la dialettica della libertà dello Spirito, sempre di nuovo protesa verso lʼalto e lʼavanti, trova nella metafisica monadologica di Leibniz una forma espressiva, una figura manifestativa, nonché un grado di sviluppo più soddisfacente rispetto allo spinozismo. Il principio dellʼunità esclusiva della sostanza è ormai divenuto estraneo allo spirito settecentesco e perciò si invera, sotto la spinta propulsiva della negazione determinata – lievito vivo della dialettica – nellʼuniverso poliritmico e policentrico delle monadi leibniziane¹, dove in omnibus partibus relucet totum: dove in ogni parte risplende lʼinfinito, il quale non solo si esprime in ogni ente finito ma è da ogni ente finito espresso a sua volta e in maniera differente, giacché lʼunicità del fondamento è ora mediata dalla pluralità delle sostanze. Tutte le creature, anche le più piccole, non sono più intese come evanescenti prolungamenti di unʼunica sostanza o modificazioni privative di questa, bensì come identità narrative ontologicamente consistenti, singolari, inedite ed irripetibili: parti nellʼinfinito e non dellʼinfinito.

 

Per Leibniz, infatti, il finitizzarsi e il contrarsi dellʼUno, quale infinito finiente o universale distributivo, dà luogo ad una pluralità discreta di centri singolari autonomi, distinti tra di loro e indistinti dallʼUno. Questʼultimo è simultaneamente presente tanto in se stesso quanto nel suo altro, cioè nella puntualità immateriale del differente che ha però effettualità propria: ciò rappresenta per Hegel un radioso passo avanti verso la faticosa uguaglianza di sé con se stesso dello spirito nella diseguaglianza del divenire storico.

 

G.W. Leibniz
G.W. Leibniz

 

  2. Dal momento che la contrazione dellʼUno ha la sua concreta attualità nella singularitas propria delle forme sostanziali, queste ultime contraggono dal Principio primo, dalla sua ultrasingolare e  superessenziale unità,  la semplicità.

 

Le monadi sono perciò unità negative, ovvero «qualcosa di semplice; ciascuna è per sé, indipendente dinanzi allʼaltra; [ciascuna] è in se stessa qualcosa di determinato [.,.] è differenza determinata in sé» (Hegel, Lezioni di Storia della filosofia). Questa vigorosa intuizione leibniziana commentata da Hegel di fronte ai suoi studenti berlinesi, che si condensa nel principio degli indiscernibili, rappresenta un prezioso guadagno nel cammino del pensiero: un guadagno che Hegel rendeva evidente a se stesso nella Fenomenologia dello Spirito, nel suo viaggio di scoperta. Nel capolavoro hegeliano del 1807 la filosofia di Leibniz viene implicitamente evocata nel passaggio dalla percezione allʼintelletto e parimenti dallʼuniversale condizionato dalla sensibilità allʼuniversale incondizionato, cioè nel toglimento dellʼultimo in quanto separava lʼessere per sé e lʼessere per altro. 

 

È precisamente nel capitolo sulla percezione che il principio leibniziano degli indiscernibili si attiva, palesando la cosa percepita come il contrario di sé stessa. Essa «è per sé riflesso in se stesso, è Uno; ma questo essere per sé Uno è in [relazione] con il contrario, lʼessere per altro» (Hegel, Fenomenologia dello spirito), le molte proprietà. Non si dà infatti una cosa senza le sue proprietà, giacché queste ultime ineriscono a lei, sono raccolte in un sostrato unitario e inscritte nella sua trama relazionale. La cosa è determinata in se stessa e non in virtù di una nostra superficiale ed estrinseca comparazione: essa è contemporaneamente una e molti; e dato che lʼuno e i molti non sono separati ma intrecciati, la coscienza fattasi intus legere può cogliere lʼintelligibilità insita nellʼesperienza della percezione come ritmo e nesso dialettico di complicatio ed explicatio: forza come uno e forza come molti: «le differenze immediatamente poste passano immediatamente nella loro unità e loro unità immediatamente nel dispiegamento, e questo di nuovo nella riduzione» (Ivi)

 

A questʼaltezza della Fenomenologia, Leibniz rappresenta la cifra filosofica che raccoglie tale conquista speculativa: lʼidentità come differenza interna, sicché ognuno è in se stesso il contrario di se stesso e, a dispetto della differenza che ha in se stesso, è e resta uno.

 

  3.  Unità e differenza dunque non stanno per nulla lʼuno fuori dallʼaltro, «ma sono essenzialmente lati toglientisi in loro stessi; e che è posto solo il passare di essi medesimi lʼuno nellʼaltro» (Ivi). La monade è forza compressa o unità e contemporaneamente forza estrinsecata o differenza. Il decisivo risiede nel passaggio. Ma affinché vi sia passaggio, la monade deve avere già in lei stessa ciò che si pone come unʼessenza diversa, sebbene a titolo di possibilità inespressa, di virtualità non tematizzata o ancora di rappresentazione non conscia.

 

Ciò che sollecita il movimento monadico da unʼoscura immediatezza ad una esplicita e mediata chiarezza si chiama appetito. Esso costiuisce la tendenza delle monadi, il loro conatus, la loro evolutio, ovvero il loro costante proiettarsi in avanti e nel futuro, verso lʼesplicitazione delle potenzialità veritative ancora implicite e latenti entro di esse. Lʼappetito rappresenta propriamente la fame, il negativo del bisogno inappagato che è contemporaneamente positività dellʼimpeto, ossia impulso espansivo che cresce con la compressione e che tende verso lʼappagamento, verso il fine.

 

Non possiamo allora che essere dʼaccordo con Ernst Bloch² nel sostenere che il concetto di tendenza così delineato, intimamente connesso a quello di telos, è un altro tesoro leibniziano senza il quale la dialettica hegeliana non sarebbe stata forgiata così potente e dirompente. La destinazione, la inquiétude poussante, come qualcosa dʼinteriore che ha la sua espressione nel dispiegamento, come infinita possibilità che sfocia in infinita attualità, educa Hegel a pensare la storia come un processo evolutivo finalistico, in cui la ragione negativa, che è potenza motrice di tutte le cose, dirige ogni evento, muovendo dalla sua interna necessità e squadernandosi come una trama di senso in un mare magnum di possibilità: una trama in cui necessità e contingenza si intrecciano e si rilanciano finalisticamente verso lʼessere per sé dello spirito, verso la sua autorealizzazione e autorivelazione come ragione effettuale e reale.

 

La dialettica hegeliana trova dunque una delle sue radici più profonde in Leibniz, la radice pungente e pungolante della tendenza come forza produttiva, che ha unʼorigine archeologica nella fame ed una vocazione teleologica che eleva a risultato lo spirito assoluto, il quale presuppone e ha allʼinizio la propria fine come proprio fine. Tendenza e risultato intenzionano così lʼhegeliano termine ultimo che insieme non è termine ultimo, bensì lʼintero, la totalità come causa finale, e in pari tempo la leibniziana ragion sufficiente come determinazione del fine, che nellʼappetito, nel suo oscuro e intenzionale premere, si manifesta fenomenicamente come fattore inclinante e non necessitante che sospinge titanicamente in avanti, alle possibilità più proprie radicate nellʼa priori della monade.

 

G.W.F. Hegel
G.W.F. Hegel

 

  4. Il principio degli indiscernibili e il principio di ragion sufficiente garantiscono così a Leibniz un posto di tutto rispetto nel santuario della Scienza della Logica hegeliana, dove ad ogni categoria corrisponde un filosofo importante, dimodoché il suo singolare impegno, divenuto proprietà e memoria dello Spirito, esprima per sempre una universalità. 

 

Come è noto però, stando al filosofo di Stoccarda, Leibniz ha commesso il suo errore filosofico-speculativo, allorché si è limitato a cogliere solo il concetto astratto di sostanza come forza, a cui manca concretamente lʼeffettualità. La monade è infatti unità negativa che trae direttamente dal suo fondo la relazione con gli oggetti esterni, la relazione con gli altri soggetti, e le determinazioni dellʼambiente in cui vive. Tutto è implicitamente presente in lei, anche quello che ignora, sicché ciò che è intrinseco non è necessariamente appercepito con chiarezza; ogni suo afferraggio concettuale si struttura e si articola difatti sullo sfondo di piccole percezioni inconsapevoli – come se tutto quello che la monade sa, lo avesse in fondo già sempre saputo, sebbene in modo confuso³. Ma se la monade è una totalità conchiusa e indipendente, tutto ciò che è altro da lei è posto come tolto; è soltanto un dileguare a cui manca il sussistere, ovvero un alcunché di astratto che perde intrinseco valore veritativo e conoscitivo. Inoltre, aggiunge Hegel, se intendiamo la monade come negazione assoluta dellʼaltro, la negazione toglie anche il sé, in quanto la negazione assoluta di ogni esser-altro è negazione assoluta che si rapporta solo con sé: lʼinessenziale toglie se stesso. Non è possibile per la monade rapportarsi a se stessa senza il simultaneo rapportarsi allʼaltro da sé che la presuppone; nella mediazione di se con se stessa essa si media necessariamente con lʼaltro da sé, come in un gioco di forze in cui si incardina la dialettica di sollecitante e sollecitato. Vi è dunque una contraddizione insoluta – commenta con tono austero nelle Vorlesungen. Vi sono cioè molte monadi singole «che debbono essere indipendenti ed il cui fondamento è che non stanno in rapporto reciproco» (Hegel, Lezioni di Storia della filosofia) e con ciò Leibniz è costretto a servirsi di Dio, Monas monadum, per spiegare e armonizzare, quale superiectum, la relazione tra le creature.

 

Analizzando attentamente la Monadologia ci si rende però conto che Hegel si fa beffe di un limite che è imputabile solo alla sua lettura ermeneutica. È pur vero che Leibniz definisce effettivamente la monade come unità senza pluralità, come atomo spirituale privo di finestre, quindi come unità negativa determinantesi del tutto interiormente, ma questo aspetto negativo della monade, se visto dialetticamente in controluce, manifesta il suo risvolto positivo, sicché la rete infinita di stratificazioni relazionali che connettono la monade con se stessa, con il mondo e con gli altri, non è tolta ma è presente al suo interno come intra-relazione. Del resto, se la monade è la parte che ha in sé il tutto di cui fa parte, in questo tutto è compresa anche la pluralità delle relazioni⁴, tipiche ed essenziali, che la connettono con gli altri momenti o punti dellʼuniverso – non solo con gli altri soggetti.

 

Hegel non ha colto questa sfumatura dialettica della relazione in Leibniz, anzi lʼha indebitamente impoverita, rinchiudendola nellʼinsulso recinto dellʼontoteologia, del concursus dei, che non ha alcuna pregnanza veritativa. Si potranno certamente discutere le sue conclusioni (se di conclusioni si può parlare in una filosofia del pensiero pensante) ma comunque non basterebbe per provare che in Hegel non tornino a vivere e a rilanciarsi rinnovate le più grandi intuizioni leibniziane. Leibniz è, e resta, affine ad Hegel nel modo più profondo, per poliedricità, capacità di ricezione e valorizzazione, come aveva brillantemente inteso e lumeggiato Nicolai Hartmann.

 

¹ Con ciò Hegel non intende affermare che lo spinozismo sia andato perduto; la grande intuizione della sostanza di Spinoza è conservata ma è in pari tempo liberata dal suo semplice riferimento a se stessa, dalla sua immediatezza. Come è noto, con Hegel, le posizioni filosofiche sono assunte come cifre che condensano atteggiamenti esistenziali: ogni filosofo occupa il suo posto preciso nella «galleria degli eroi della ragione pensante» dove trova il suo autentico valore universale e il suo onore concettuale. Ma in ogni filosofo cʼè un orizzonte di pensiero che implica uno sfondo che non è stato reso esplicito. Nessuna tesi filosofica è perciò incondizionatamente falsa, anche se superata: lo è nella sua unilateralità, non lo è come sforzo espressivo, come contenuto del sapere, ovvero come momento negativo di transizione nellʼinarrestabile trama storica dello Spirito.

² Cfr. E. Bloch, Subjekt-object [1949]; trad. it. A cura di Remo Bodei, Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel, il Mulino, Bologna 1982

³ Per Leibniz, lʼinconscio è a tutti gli effetti un modo di essere in noi dellʼuniverso: un modo di essere non consapevole fintanto che non lo abbiamo fatto nostro. Ogni monade, come microcosmo, è più vera dove non si conosce ancora o dove si conosce poco. Se quindi adottassimo la strumentazione storiografica del precorrimento, questa notizia intuitiva leibniziana costituirebbe una valida e audace risposta allʼidealismo hegeliano e al suo panlogismo che, nonostante la dialettica, rifiuta sempre il non-manifestatosi. Il decisivo infatti non dovrebbe risiedere nella consapevolezza delle proprie percezioni, ma nel percepire stesso: lì rifulge la verità, la quale sempre precede e sempre sopravanza ogni nostra appercezione. 

⁴ Per Leibniz, lʼinconscio è a tutti gli effetti un modo di essere in noi dellʼuniverso: un modo di essere non consapevole fintanto che non lo abbiamo fatto nostro. Ogni monade, come microcosmo, è più vera dove non si conosce ancora o dove si conosce poco. Se quindi adottassimo la strumentazione storiografica del precorrimento, questa notizia intuitiva leibniziana costituirebbe una valida e audace risposta allʼidealismo hegeliano e al suo panlogismo che, nonostante la dialettica, rifiuta sempre il non-manifestatosi. Il decisivo infatti non dovrebbe risiedere nella consapevolezza delle proprie percezioni, ma nel percepire stesso: lì rifulge la verità, la quale sempre precede e sempre sopravanza ogni nostra appercezione. 

 

29 novembre 2023

 









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