Spinoza in più punti della sua opera si schiera a favore della democrazia, senza però mai approfondire il tema e le ragioni di questa sua preferenza. Morirà, purtroppo, proprio prima di completare la sezione riguardante la democrazia nel suo Trattato politico. Cercheremo quindi di ricostruire le ragioni filosofico-politiche dell'aspirazione democratica che il filosofo mostra di avere in pieno Seicento.
Se l’obiettivo di Spinoza nel Trattato teologico-politico è quello di liberare gli uomini e la politica dall’oppressione della superstizione, il suo programma può essere portato a termine solo tramite la ragione: la vera conoscenza si pone come antidoto alla superstizione.
Se consideriamo etimologicamente il suo significato, la superstizione – super+stitio – indica proprio ciò-che-sta-sopra e che, sovrastando il mondo, pretende di governarlo, di dargli una sua regola, a cui gli uomini si sottomettono, ma, sia ben chiaro, solo per l’ignoranza di questi. La superstizione, infatti, riesce a porsi e dominare l’operato degli uomini solo perché sono essi stessi a conferirle tale potere, e non perché essa riesca realmente a tenersi in piedi di fronte al vero. All’opposto della superstizione si trova invece, tradizionalmente, la verità, che in Grecia prende il nome di episteme, e anch’essa, etimologicamente, indica, come la superstizione, ciò-che-sta-sopra – epì+histemi –, o, forse più precisamente, ciò-che-si-tiene-su-da-sé, come regola che governa il mondo. La verità, che per Spinoza coincide con la conoscenza di Dio, non è però tale per decisione umana, ma piuttosto è ciò che realmente ordina il kósmos, lo genera e lo struttura: essa si tiene-al-di-sopra delle cose autonomamente, riesce a tenersi ferma di fronte al falso. La differenza tra verità e superstizione passa proprio per il fatto che la superstizione riesce a costituirsi solo come una pretesa di dominio, mentre in realtà è fondata arbitrariamente dagli uomini, proviene semplicemente da racconti, tradizioni culturali, credenze. L’episteme invece non si fonda arbitrariamente, non è decisione dell’uomo, ma coincide, per Spinoza, con la conoscenza adeguata raggiunta tramite la ragione, e rispecchia l’ordine naturale scaturito da Dio. Sarà questo uno dei grandi temi della critica spinoziana alla superstizione: il suo assumere spesso il carattere di finalismo. È errato credere infatti che il mondo sia creato al servizio dell’uomo, quando in realtà quest’ultimo è solo una delle parti sottoposte al dominio di Dio. Il finalismo è allora superstizioso perché ipostatizza la parte, credendo che il Tutto sia al servizio di quest’ultima. In realtà, mostra Spinoza, sono le parti a godere della potenza del Tutto e a determinarsi al suo interno.
Vedremo che questo rapporto parte-Tutto si riflette anche nella teoria politica spinoziana, in cui il singolo gode della potenza della comunità politica e riuscirà a determinarsi e realizzare la propria natura solo all’interno di essa, mentre la potenza della comunità politica sarà a sua volta determinata dalla potenza delle sue parti. Sempre per analogia allora potremo notare come la superstizione e il finalismo, che ipostatizzano la parte, si determinino nella politica come tirannia, in cui il fine è l’utile di particolari individui – il tiranno o gli oligarchi – e non più di tutta la comunità politica, dell’intera dalla totalità degli associati. Si potrebbe obiettare che il fine dello Stato, per Spinoza, sia l’utilità, ma non si può parlare di utile di un individuo particolare, perché uno Stato orientato all'utile di un solo individuo si scadrebbe nella tirannia: lo scopo a cui tende lo Stato è invece l’utilità generale, di tutti gli associati. Lo Stato deve perseguire il proprio utile, che coincide con l’utile di ogni individuo. Viceversa, l’utilità individuale è lo stesso utile dello Stato, che aumentando la potenza di ogni associato aumenta anche la propria: la sua potenza è infatti determinata dalla somma delle potenze individuali. Non si dà quindi, in realtà, una differenza tra l’utile individuale e l’utile collettivo, ma questi coincidono nella società guidata razionalmente.
Spinoza rileva lucidamente come gli impulsi particolaristici siano autodistruttivi nell’uomo, il quale può trovare la propria beatitudine e la propria felicità solo nella vita collettiva. Lo Stato, perciò, fa il proprio utile quando fa l’utile collettivo, pena sua degenerazione in tirannia e, da ultimo, la sua distruzione; e la persona si può realizzare pienamente solo nello Stato proprio in quanto questo indica e persegue ciò che è utile, ossia aumenta la potenza di ogni singolo e di tutta la comunità, unica dimensione in cui l’individuo può realizzarsi.
Risulta allora che l’antidoto alla superstizione e alla tirannia sono la ragione e la comunità politica in qualità di unico luogo in cui la ragione possa effettivamente farsi valere: la ragione conosce adeguatamente, disconosce la superstizione ed eleva a legge la verità, realizzandosi nella democrazia come forma politica in cui tutti hanno libertà di pensiero e parola e collaborano in vista dell’utile comune, mettendo fine all’arbitrio della tirannia.
Spinoza quindi, oltre ad una teoria della conoscenza per cui il singolo può riuscire a vincere le passioni tramite la conoscenza di esse, elabora anche una teoria politica in cui la comunità, oltre che mezzo per porre limiti alla violenza reciproca, diventa il luogo privilegiato di questa ricerca dell’utile e del bene sotto la guida della ragione.
Perciò, in uno Stato retto le leggi dovranno avere come obiettivo non la sottomissione degli uomini tramite la coercizione o il timore di punizioni ultraterrene, ma la guida razionale degli uomini, volta al loro utile e alla ricerca del vero bene. La forma politica più adatta a fare ciò è per Spinoza la democrazia, luogo in cui tutti i cittadini collaborano volontariamente alla ricerca razionale delle leggi migliori. Per fare questo devono essere garantite libertà di pensiero ed espressione.
Qui, dunque, ci occuperemo di mostrare come la democrazia, intesa proprio come potere del popolo che istituisce e legittima il potere dello Stato, sia per Spinoza una condizione fondamentale per la fondazione di una comunità politica retta e non tirannica, volta al bene comune e non a quello individuale del governante.
Per cominciare, dobbiamo innanzitutto avere ben presenti i principi teoretici da cui Spinoza muove e dai quali verrà necessariamente ricavata la sua teoria politica.
Partendo dall'identificazione tra Dio e natura (deus sive natura), Spinoza afferma che un rigido determinismo controlla tutti gli eventi, compresi quelli umani. Dato che anche la natura umana è parte della natura in generale, essa non riesce a sfuggire in alcun modo alle leggi naturali che la governano, e il concetto di volontà libera come autodeterminazione arbitraria – come libero arbitrio – diventa solo un inganno generato dalla conoscenza immaginativa e da quel finalismo che antropomorfizza la realtà. La natura umana non è infatti capace di autodeterminarsi, ma è continuamente affetta da cause esterne che ne determinano necessariamente le azioni.
Spinoza inoltre afferma che ciò cui ogni individuo anela più di tutto, la sua spinta principale, è il desiderio di autoconservarsi. Ciò che ci aiuta a perseguire a tale scopo, ossia che aumenta la nostra potenza, viene definito da Spinoza come utile, e ci provoca un sentimento di gioia: il bene. Viceversa, ciò che impedisce il conatus e diminuisce la nostra potenza è dannoso e ci provoca tristezza: questo è il male.
Sulla base della distinzione tra conoscenza inadeguata, generata dall’immaginazione e incapace di comprendere realmente la natura e le relazioni che intercorrono tra le cose, e conoscenza adeguata, che ha origine dalla ragione e che riesce a comprendere le relazioni tra le cose e le cause che determinano gli eventi, Spinoza distingue gli uomini che conoscono in modo inadeguato, e quindi sono passivi e schiavi delle passioni, dagli uomini guidati da ragione, possessori di conoscenza adeguata e capaci di vita attiva.
A seconda che si conosca adeguatamente o meno vi sono diversi gradi di libertà: se si è dominati dalle passioni, si crede di essere liberi ma in realtà si è schiavi, si crede di sapere quale sia il proprio utile, ma, siccome si ignora la propria natura e le cause delle cose, non si riesce a compierlo. Se invece si è guidati dalla ragione, si ha conoscenza adeguata delle cause delle cose e della propria natura. Uomini tali sanno cosa sono determinati a fare e sanno perciò cercare il vero utile, e possono dirsi liberi proprio in virtù della loro ragione, la quale, conoscendo le cose, li spinge a determinarsi secondo la propria natura, a ricercare il vero utile, ad autoconservarsi e aumentare la propria potenza nel modo migliore. Per essere davvero liberi bisogna allora conoscere adeguatamente. È questo il modo per controllare gli affetti, la vera potenza della ragione.
« Gli uomini non saranno in grado, nella loro maggioranza, di diventare eticamente e intellettualmente più liberi, se incrementeranno la loro potenza di esistere attraverso un passaggio dalla dimensione immaginativa della passività a quella razionale e, da quest’ultima, alla “scienza intuitiva”, accessibile unicamente al saggio. […]. L’area della passività e della servitù potrà essere ridotta e si mostrerà – contro Hobbes – che la ragione sorge e fiorisce non sul terreno della paura, ma su quello della sicurezza, ossia di una speranza priva di dubbi e di una mente che ha limitato le proprie fluttuazioni. » (R. Bodei, Geometria delle passioni)
Dal retto uso della ragione scaturisce allora la virtù: è virtuoso chi desidera vivere, ossia asseconda il proprio conatus, e, al contempo, conosce adeguatamente. La differenza, quindi, sta tutta nella conoscenza adeguata: si cerca sempre il proprio utile secondo Spinoza, ma lo realizza veramente quanto più si conosce razionalmente.
La potenza divina è anche fonte della legge natura e del diritto naturale, che definisce le leggi secondo cui ogni individuo è determinato ad agire:
« Ma siccome la potenza di tutta la natura è la potenza dell’insieme di tutti i suoi individui, ciascun individuo ha il pieno diritto su tutto ciò che può, ossia il diritto di ciascuno si estende fin dove si estende la sua potenza determinata. E poiché è legge di natura che ogni cosa si sforzi di perseverare nel suo stato, ciascun individuo possiede il pieno diritto a perseverare nel suo essere, a esistere e agire come è determinato naturalmente. » (Trattato teologico-politico)
Diritto naturale e potenza si identificano: ognuno avrà tanto diritto naturale quanta sarà la sua potenza di agire. Tale potenza si può però esprimere in ogni uomo o come ragione, nel caso abbia conoscenza adeguata, o come passione, nel caso abbia conoscenza inadeguata.
Ora, dato che non tutte le espressioni della propria potenza sono indifferentemente buone, bisogna determinare quale sia la modalità migliore, per fare in modo che venga utilizzata al meglio nella ricerca del vero utile. Se infatti il diritto naturale è sempre legittimo tanto che lo si eserciti sotto la guida della ragione che sotto la guida delle passioni, è chiaro d’altro canto che esercitarlo secondo ragione sia meglio che farlo seguendo il cieco istinto.
Ammesso dunque che agire liberamente significa «conoscenza delle leggi che regolano i fenomeni naturali e del loro carattere di necessità, consapevolezza della propria appartenenza a tale sistema, e comportamento pratico coerente con tale consapevolezza» (Studi su Hobbes e Spinoza), la virtù può essere definita come «abito conforme a ragione per eccellenza, […] capacità di agire in modo autonomo, ossia secondo le leggi della propria natura o essenza, al fine di perseguire il proprio utile» (Ivi).
Il conatus è sì il presupposto e il fine di ogni nostra azione, ma non tutte le nostre azioni possono veramente soddisfare tale desiderio: se infatti siamo guidati dalle passioni, e quindi non conosciamo adeguatamente, non è detto che ciò che compiamo ci sia veramente utile, perché potrebbe arrecarci danno, dato che ne abbiamo conoscenza inadeguata. Per avere invece la certezza su cosa sia effettivamente buono dobbiamo essere guidati dalla ragione, che ci fornisce una conoscenza adeguata delle cose. La virtù allora coincide proprio con questo agire guidato dalla ragione, agire che ci sarà sempre utile in quanto intende le cose e le sue cause.
Abbiamo detto che ogni uomo ha una parte della potenza della natura e quindi tanto diritto di natura quanto gliene permette questa potenza. Ognuno allora può aspirare a realizzare qualsiasi scopo che tale potenza gli consenta. Spinoza rileva però che la maggior parte degli uomini è schiava delle passioni. La natura del conatus fa in modo che i desideri di questi ultimi confliggano tra di loro, creando una contrapposizione tra i vari diritti naturali individuali, che sono tutti ugualmente legittimi, e generando conflitto: «Vediamo che ognuno, per natura, desidera che gli altri vivano secondo la sua propria indole, e che, mentre tutti desiderano egualmente la stessa cosa, si ostacolano l’un l’altro; e mente tutti vogliono essere lodati o amati da tutti, si odiano a vicenda.» (Ethica more geometrico demonstrata). Nasce allora una conflittualità tra gli uomini, che tendono tutti a imporre arbitrariamente il proprio diritto sugli altri. Questa situazione di conflittualità però non è accettabile dagli uomini, che senza gli altri non riescono a vivere comodamente, e sarebbero così costretti ad una vita di sospetto e paura per l’altrui sopraffazione. Spinoza nota infatti che «la società è utilissima e anzi assolutamente necessaria non solo per vivere al riparo dai nemici, ma anche per fare economia di molte cose. Difatti, se non volessero prestarsi aiuto reciproco, gli uomini mancherebbero dei mezzi e del tempo necessari per il loro sostentamento e la loro autoconservazione.» (Trattato teologico-politico).
Spinoza capisce come gli impulsi particolaristici siano autodistruttivi per l’uomo, e che dunque esso ha naturalmente la necessità di vivere in comunità per preservare e anche ampliare il suo diritto e la sua potenza in concordia con altri uomini:
« Quando dunque è definito dalla potenza di un singolo ed è proprio di un solo individuo, il diritto naturale è inesistente e frutto di sola e irreale opinione, giacché non vi è alcuna certezza di conservarlo. È indubbio, del resto, che ognuno ha tanto minore potenza, e dunque tanto minore diritto, quanto più sono numerosi i motivi che ha per temere. […]. In conclusione, quindi, il diritto di natura, proprio del genere umano, si può difficilmente concepire senza leggi comuni che rendano uniti gli uomini. » (Trattato politico)
L’uomo allora non può autoconservarsi senza la comunità in cui si inserisce ma deve per forza di cose vivere insieme agli altri e confidare anche nella loro potenza per poter valere qualcosa, mentre senza di essi è perduto, non riuscendo ad esercitare la sua potenza e affermare il suo diritto. Il diritto comune è dunque la condizione per tutelare i diritti individuali. Solo la potenza della società, infatti, è abbastanza grande per far fronte alla natura e alla precaria situazione umana: «Se due uomini si accordano reciprocamente e uniscono le loro forze, insieme avranno più potere – quindi più diritto sulla natura – che ciascuno da solo» (Ivi).
L’individualismo è autodistruttivo: l’ira e l’odio che si generano tra gli uomini che non sottostanno a un diritto comune sono affetti dannosi, che impediscono di conoscere e conservarsi: «La ragione espelle ogni impulso particolaristico, come per ciò stesso distruttivo, e suggerisce l’unità» (Studi su Hobbes e Spinoza).
Possiamo quindi sottoscrivere che «individualità e transindividualità sono contemporanee sia logicamente, sia fenomenicamente, e qualsiasi tentativo di pensare gli uomini come enti isolati e indipendenti è frutto della cattiva immaginazione, che introduce la separatezza tra i modi, rimuovendo i nessi causali che li legano assieme.» (G. Duso, Il potere).
Per essere virtuosi gli uomini devono vivere assieme e regolare i loro impulsi mediante un diritto comune e leggi comuni, organizzandosi per formulare delle norme di comportamento che guidino tutti a una pacifica convivenza.
« Nessuno può dubitare che sia più utile agli uomini vivere secondo le leggi e i fermi dettati della nostra ragione, i quali, come si è detto, non vogliono che il vero utile degli uomini. Inoltre, non c’è nessuno che non desideri vivere, per quando possibile, al sicuro e senza paura. Il che, tuttavia, non può darsi minimamente se a ciascuno è lecito fare ogni cosa come lui vuole, e se viene concesso più spazio all’odio e all’ira che alla ragione. […]. Se poi considereremo che senza l’aiuto reciproco gli uomini vivono necessariamente in estrema miseria senza poter coltivare la ragione, vedremo con la massima chiarezza che gli uomini dovettero necessariamente unirsi per vivere al sicuro e nel modo migliore. E perciò dovettero far sì che il diritto che ciascuno aveva per natura su tutto divenisse di tutti. […]. Dovettero perciò stabilire e pattuire con la massima fermezza di dirigere ogni cosa per il solo dettame della ragione. » (Trattato teologico-politico)
Lo Stato viene fondato, secondo Spinoza, quando gli uomini decidono di rinunciare, per quieto vivere, al loro diritto di natura e alla potenza individuale che gli viene garantita dalla natura. Essi allora convengono nel darsi un nuovo diritto, che sarà detto diritto civile, e di limitare così il loro diritto naturale solo a ciò che consente questo diritto deciso e approvato in comune, e valido per tutti. La caratteristica principale che sostiene il patto è la sua utilità: esso consente di vivere in armonia con altri uomini, godendo della comodità della divisione del lavoro e della sicurezza che il nuovo potere costituito garantisce.
Si noti come il nuovo diritto civile non si viene a sostituire – come in Hobbes – al diritto naturale, ma è solo una sua nuova determinazione: ciò che è consentito, ciò che è diritto di ognuno, è quello che viene deciso in comune come legge, e non più quello che desideriamo come singoli individui nello stato di natura. Alla mera potenza individuale si sostituisce la ben maggiore potenza collettiva, che permette ai cittadini di autoconservarsi con meno fatica, e quindi di realizzare la propria natura, procurando anche un diritto di natura più ampio e sicuro.
La società, per potersi formare, deve darsi delle leggi, norme di condotta che ogni associato deve osservare: «Gli uomini infatti non possono vivere per natura senza leggi comuni» (Trattato politico).
Ma quale criterio bisogna seguire per formulare le leggi? A cosa bisogna guardare? Spinoza risponde che, per avere una forma di governo retta e razionale, le leggi devono guardare all’utilità collettiva, e non a quella di un singolo individuo. Per mirare all’utilità collettiva esse devono essere allora formulate secondo ragione: «La moltitudine può essere guidata da un’unica mente (come è richiesto dallo Stato) solo con leggi che sono stabilite sul dettato della ragione» (Ivi).
Occorrono delle buone leggi, dettate razionalmente, perché uno Stato adempia al suo fine e ricerchi l’utile comune. Se le leggi di uno Stato invece non sono promulgate per dettato della ragione, esse divengono mero arbitrio, pura conoscenza immaginativa e superstizione, dettate piuttosto dalle passioni e dall’ignoranza, e questo è proprio ciò che Spinoza vuole evitare col Trattato teologico-politico: che la superstizione diventi legge. Siccome poi, come si è visto prima, la ragione comanda di conoscere adeguatamente, le leggi dovranno fare in modo che gli uomini si perfezionino, che siano sempre più guidati dalla ragione che dalle passioni:
« In quanto vivono sotto la guida della ragione gli uomini sono utilissimi all’uomo, e perciò, guidati dalla ragione, saremo spinti necessariamente a fare in modo che gli uomini vivano secondo ragione. Ma il bene che chiunque viva sotto il dettato della ragione, cioè che cerchi la virtù, appetisce per sé, è intendere; perciò il bene che chiunque cerchi la virtù appetisce per sé, lo anelerà anche per gli altri uomini. » (Ethica)
Le leggi devono quindi mirare a rendere virtuosi gli uomini, ossia a fare in modo che essi intendano adeguatamente e abbiano abiti conformi a ragione. Si noti inoltre che «come nello stato di natura è nel pieno della sua potenza l’uomo che è guidato dalla ragione, così è nel pieno della sua potenza e del suo diritto la società civile che è fondata e guidata dalla ragione» (Trattato politico).
Siccome la potenza di un uomo è determinata maggiormente dalla sua ragione piuttosto che dalla forza del suo corpo, così la potenza di uno Stato deve essere maggiormente determinata dalla razionalità delle sue leggi: leggi razionali produrranno uomini razionali, che sono più potenti di uomini ignoranti guidati dalle passioni, e con cittadini più potenti anche lo Stato diventerà più potente. Sembra che le conclusioni di Spinoza siano simili a quelle di Platone nelle Leggi: «Istituire leggi e formare Stati è davvero il mezzo fra tutti più idoneo per alimentare la virtù degli uomini». Una società che agisce in modo irrazionale invece pecca, in quanto omette di compiere l’utile collettivo: «Possiamo affermare che una società pecca quando compie qualcosa contro il dettame della ragione. Una società civile è infatti nel suo pieno diritto quando agisce secondo il dettame della ragione. Viene dunque meno alla sua natura, o pecca, quando agisce contro la ragione» (Trattato politico). Il fine delle leggi in uno Stato retto deve quindi essere una certa elevazione dei cittadini, perché la loro utilità e la loro virtù passa solo dalla conoscenza adeguata.
Ma come si realizza l’istituzione di leggi razionali? E quale è la migliore forma di società, se si vuole che questa sia guidata dalla ragione? Spinoza non ha dubbi: è quella democratica. Mentre i governi monarchici e aristocratici sono più soggetti ai capricci e all’arbitrio dei pochi, la democrazia riesce meglio a preservarsi dalle passioni individuali:
« In uno Stato democratico si devono temere di meno gli imperativi assurdi. È quasi impossibile, infatti, che la maggior parte di un’assemblea, se è molto grande, convenga in qualcosa di assurdo, poiché il suo fondamento e il suo fine, come si è notato, è di evitare gli appetiti assurdi e di contenere gli uomini, per quanto è possibile, entro i limiti della ragione, affinché vivano in pace e in concordia. » (Trattato teologico-politico)
Nella monarchia e nell’aristocrazia c’è maggior pericolo che i pochi diano una svolta autoritaria ed emanino leggi per la propria utilità personale invece che per quella comune, mentre nella democrazia gli impulsi particolaristici vengono limitati reciprocamente. È per questo che Spinoza prevede l’istituzione di un consiglio eletto dal popolo anche per le forme monarchiche: la decisione in ultimo luogo spetta al sovrano, ma questo deve sempre discutere le leggi all’interno di un consiglio, che ne controlla l’operato e la conformità alla ragione. Sembra allora che ogni forma politica retta sia fondamentalmente democratica, nel senso che il popolo, o dei suoi rappresentanti, deve sempre avere voce in capitolo sulle decisioni, in modo da evitare l’arbitrarietà.
Andando più avanti Spinoza indica i diritti più importanti che si devono preservare in ogni forma politica, e in questo risiede il vero carattere democratico del suo pensiero, ossia la libertà di pensiero e di parola: solo grazie a questi vi può essere un governo non arbitrario. Solo se vi è libertà di parola, di opinione, di confronto tra i cittadini, le leggi possono essere migliorate e la razionalità può esprimersi: i cittadini, secondo Spinoza, possono infatti liberamente pensare che una legge non sia adeguata e proporre all’assemblea di modificarla per renderla conforme a ragione – sempre evitando di infrangerla finché essa è in vigore. Qualsiasi pretesa invece di negare la libera espressione, di sottrarsi al confronto con l’altro, vuol significare che quell’espressione non è considerata utile, importante, necessaria. Chi nega agli altri di esprimersi pretende di essere già nella ragione, nel vero, e quindi pretende già di sapere, prima del confronto, che le opinioni contrarie sono sbagliate, mentre in realtà potrebbero non esserlo, e potrebbe trovarsi lui stesso nella superstizione. È proprio questo atteggiamento ad essere superstizioso e antidemocratico, perché ipostatizza un punto di vista, senza sapere se sia quello vero, e lo pone al di sopra degli altri come innegabile, ma tale ipostatizzazione è arbitraria, perché ha smesso di porsi al vaglio della ragione, diventando dogma. «Libertà di pensiero e di parola […] sono gli strumenti attraverso i quali la società educa se stessa, si autocontrolla e sollecita le innovazioni che il processo storico reale richiede» (Studi su Hobbes e Spinoza).
Se da una parte la democrazia è il modo migliore per sfuggire all’arbitrio dei pochi, essa permette anche di rendere più razionali possibile le leggi di uno Stato, senza tralasciare l’opinione di nessuno, ma anzi partecipando tutti al governo, contrastando così le passioni individuali in vista dell’utile comune.
Ogni forma di governo quindi, per potersi dire razionale, deve essere in un certo qual modo democratica: in essa deve essere permessa la libera espressione e il libero pensiero di tutti, per poter ripensare le leggi se necessario, e anche perché in questa maniera, oltre a promuovere la libera espressione della ragione, si tengono sotto controllo le passioni individuali. Non avverrà mai dunque che un governo esautori completamente il popolo di ogni potere, che gli tolga le libertà senza mettere se stesso in pericolo, ma, anzi, per legittimarsi come tale esso deve necessariamente passare per il popolo e fondarsi sul suo consenso.
« Gli uomini, inoltre, niente sopportano meno che servire i propri simili e subirne il comando. […]. Da ciò consegue, in primo luogo, questa alternativa: o tutta la società, se è possibile, deve tenere collegialmente il potere, affinché tutti si autogovernino e nessuno sia tenuto a servire un suo eguale. […]. Infine, poiché l’obbedienza consiste nel fatto che qualcuno esegue dei mandati per la sola autorità di chi comanda, l’obbedienza non può affatto esistere in una società in cui il potere è di tutti, e le leggi sono sancite per comune consenso. […]. Ognuno agisce non per l’autorità di un altro, ma secondo il proprio, personale consenso. » (Trattato teologico-politico)
Sebbene Spinoza ritenga che si possa ricorrere a strumenti di coercizione per far rispettare le leggi, egli crede che solo tramite la conoscenza della necessità delle leggi si possa essere veramente virtuosi, e che uno Stato retto si possa realizzare solo tra cittadini che conoscono adeguatamente e obbediscono perché amano la legge e lo Stato in quanto utilissimi: «Ma chi rende a ciascuno quanto gli spetta perché conosce la vera ragione e la necessità delle leggi, costui agisce con animo fermo e per proprio, non per altrui decreto: a ragione, perciò, è chiamato giusto» (Ivi). La ragione conosce solo il bene e lo desidera in quanto tale, di modo che solo colui che conosce e fa il bene per se stesso è virtuoso:
« Il fine dello Stato non è quello di trasformare gli uomini da esseri razionali in bestie o in automi, ma quello di permettere che la loro mente e il loro corpo adempiano con sicurezza alle loro funzioni e gli uomini si avvalgano liberamente della ragione, non si combattano con odio, con ira o con inganno, né si sopportino con animo iniquo. Il fine dello Stato è dunque, nei fatti, la libertà. » (Ivi).
Spinoza dirà quindi che buono e giusto vengono decisi e hanno valore solo per mezzo delle leggi di uno Stato e solo all’interno di esso, mentre per diritto di natura nulla è giusto o ingiusto intersoggettivamente, ma solo relativamente al desiderio del singolo. L’uomo può così dirsi virtuoso e giusto solo se rispetta le leggi istituite razionalmente e in comune dagli uomini. E così sarà libero, se lo fa con animo ben disposto perché conosce la loro utilità e la loro razionalità, e non perché ha timore di punizioni: «Chi infatti, come già si è detto, fa il bene per la vera conoscenza e l’amore del bene, agisce con libertà e con animo fermo; chi invece compie il bene per timore del male, agisce costretto dal male e in modo servile, e vive su comando di altri.» (Ivi).
D’altra parte, sarà importante che ad ogni uomo che osservi le leggi venga accordata la libertà di realizzare la propria natura, di non avere da temere per ciò che professa e ciò che pensa, perché l’utilità della libertà di pensiero ed espressione si riflette immediatamente in azioni che possono migliorare le leggi dello Stato e beneficiare l’utilità collettiva.
La teoria politica spinoziana pone allora una duplice esigenza: da una parte quella dell’individualità che per affermarsi nel suo diritto ed essere veramente libera ha bisogno di una dimensione transindividuale – la società, la politica, la comunità civile –, e dall’altra parte quella della comunità politica, che per sussistere ha bisogno della partecipazione attiva dei suoi membri alla vita collettiva, e che deve garantirgli per questo gli spazi di libertà in cui muoversi. La ragione dunque, per quanto possa sembrare che sia la guida solo di pochi individui, comanda a questi di ritornare nella caverna platonica, per unirsi agli altri e guidarli.
In conclusione, possiamo dire che per Spinoza la legittimazione del governo e la potenza dello Stato dipendono dalla volontà e dalla potenza del popolo, senza di cui non vi sarebbe una forma retta di Stato, ma solo un dominio violento imposto con la forza, che è utile solo al dominatore e quindi non ha la forza per porsi come patto e fondarsi sull’utilità collettiva. Nella democrazia invece il potere appartiene sempre originariamente al popolo, in quanto esso può esprimere il proprio consenso o dissenso sulle leggi – sia direttamente che tramite i consigli eletti. Sembra dunque che per Spinoza sia necessario che ogni governo debba essere in un certo qual modo democratico, ossia che in ogni forma politica si debba garantire il confronto tra persone per poter migliorare e cambiare le leggi. Si può azzardare a dire che un potere che non garantisca queste libertà non solo non possa dirsi democratico, ma nemmeno politico: se infatti chi governa non guarda all’utile collettivo, così facendo rompe il patto originario che impone di fare l’utile comune, e instaura solo un dominio violento e tirannico. Dopo la rottura, la comunità politica che su di esso si fonda non ha più motivo di esistere, e il popolo è legittimato a non obbedire più ai comandi delle leggi in quanto queste gli si mostrano irrazionali e non più istituite nel suo utile. Già Platone scriveva: «Avendo definito tirannica la cura esercitata su persone costrette e politica, invece, l’arte di prendersi cura volontariamente di branchi di animali bipedi che volontariamente accettano, non dichiareremo dunque che chi da parte sua possiede quest’arte e questa cura è a pieno titolo re e uomo politico?» (Politico).
Quindi, solo tramite l’accettazione volontaria delle leggi può darsi una comunità politica vera e volta all’utile comune. È contingente poi che venga scelta una o l’altra forma costituzionale – monarchica, aristocratica o democratica: il nucleo fondante della politica è proprio quell’accettazione volontaria delle leggi e dell’autorità sovrana compiuta dal popolo. Questa pare essere un’esigenza non solo della politica spinoziana, ma di ogni teoria politica sia antica che contrattualistica.
La democrazia, intesa come volontà del popolo che detiene il potere, sembra dunque essere la conditio sine qua non della politica in generale. Se le leggi sono imposte e non accettate volontariamente, vi è tirannia, arbitrio, e non comunità politica, ma solo persone obbligate con la forza a stare insieme e servire un despota. Lo stesso parrebbe sostenere Aristotele: «L’autorità del padrone e dell’uomo di stato non sono la stessa cosa e neppure tutte le altre forme di dominio sono uguali tra loro, come pretendono alcuni: l’una si esercita su uomini per natura liberi, l’altra su schiavi» (Politica).
Ciò di cui Spinoza non mette in luce, ma che si deduce dai suoi ragionamenti, è che lo stesso tiranno, tentando di fare il suo utile particolare a scapito di quello collettivo, in realtà non riesce a realizzare neanche il proprio. Se infatti l’utilità massima per un uomo sono gli altri uomini guidati da ragione, ognuno, per fare il proprio bene, dovrà fare in modo che anche gli altri uomini siano guidati dalla ragione e che aumentino la propria potenza. Il tiranno, invece, tenta di fare il proprio utile semplicemente servendosi degli altri, magari mantenendoli in uno stato di minorità tramite la superstizione. Senza realizzare l’utile comune, ossia impedendo che gli uomini vengano guidati da ragione, il tiranno non realizza in questo modo nemmeno il proprio, in quanto, invece di fare in modo che anche gli altri uomini aumentino la propria potenza, egli li affossa. Se quindi il tiranno volesse davvero fare il proprio utile dovrebbe promuovere lo sviluppo della ragione in tutti. Non avvertito di questo, egli fonda il suo dominio sulla superstizione, sulla conoscenza immaginativa e inadeguata, perché la ragione comanda l’unità con altri uomini. Leggi tiranniche dunque non saranno né buone, né giuste, e il tiranno non sarà mai virtuoso: non può darsi un dispotismo giusto.
L’utile del singolo può perciò passare solo tramite l’utile collettivo, l’individualità può affermarsi e realizzarsi veramente solo nella relazione con altre individualità. Viceversa, ogni affermazione del diritto che non passi per l’accordo e la volontà altrui, che pretenda di sottrarsi al confronto razionale, è invece affermazione di un diritto arbitrario, fondato sul timore, sulla forza e sulla superstizione, e che quindi non sa tenersi fermo come tale.
11 ottobre 2023
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