Per quanto possa sembrare strano, è cosa ormai comune dimenticarsi di se stessi. Fra i conti da pagare e le documentazioni da firmare, le esigenze dello ‘’spirito’’ vengono spesso messe da parte, addirittura relegate in quella categoria dai i datori di lavoro tanto disprezzata, e che chiamiamo ‘’tempo libero ’’. Dopo una lunga giornata di lavoro, i corpi diventano insensibili e la mente, al pari, si chiude perché esausta di accogliere informazioni. E allora, dopo un po’ di tempo, si ha la sensazione di non sapere più chi si è, pur avendo ancora la possibilità di riflettere la propria immagine nello specchio del bagno, mentre ci si lava i denti. L’abitudine intorpidisce, ma uno sforzo potrebbe destare la propria identità addormentata, come potrebbe fare la scrittura, quella peregrinazione intima che diviene una promessa di scoperte dopo aver inforcato la penna.
Un diario. Ci vorrebbe un diario in momenti come questi: la luna piena è immobile nel cielo nero visto attraverso i vetri appannati del balconcino di casa; dal fondo della strada si sente un gran vociare, tutti dicono tutto e niente: nemmeno una parola si riesce a tirar fuori, sana, dal garbuglio delle conversazioni. Scrivere quando si è sul prato, mentre i bimbi corrono in cerca del divertimento che credono lì, in mezzo alle loro biglie attraversate dalla luce del giorno. Annotare quando si fa sera, anche quando non è accaduto nulla di diverso dagli altri giorni e settimane, anche quando gli occhi hanno svolto lo stesso percorso di ogni giorno. Una ragione per cui scrivere si trova sempre. La mente, infatti, non accettando di ingerire le stesse case, le stesse voci, la stessa solfa di saluti e false domande che non richiedono risposta, potrebbe compiere viaggi singolari nelle terre del dubbio. La monotonia è una malattia che reprime il desiderio e convince quanto meglio – perché più comodo – sia procedere sulla stessa via evitando infortuni dolorosi. Ma essa porta inevitabilmente a condurre un’esistenza povera, come quella di un uomo-fantasma che dà per scontata ogni cosa, persino l’immenso mistero della sua vita.
Un foglio e una penna sono ciò che servirebbe quando il tumulto del traffico ci allontana dai nostri pensieri fino a farci giungere al termine della settimana scarichi, eppure penosamente vuoti. La scrittura può trasformarsi in un profondo dialogo con sé stessi, come se ci si posizionasse di fronte ad uno specchio in grado di rovistare anche ciò che c’è al di sotto della pellicola più superficiale. A quel punto, riflettere sulle parole diventa, di conseguenza, riflettere su ciò che si è e sul come si è. La nostra forma, ossia, nel senso peirciano del termine, il «come» noi siamo, può essere difficile da cogliere per la sua stessa natura dinamica: mutiamo pur conservando qualcosa di noi. Allora trovare le parole per raccontarci e per raccontare si rivela uno sforzo, che, però, maturerà risultati che soltanto quest’atto di concentrazione può donare. «Venti minuti di attenzione intensa e senza fatica», scrive S. Weil in Attesa di Dio «valgono infinitamente più di tre ore d’applicazione con la fronte corrugata, che fanno dire, con la sensazione di aver fatto il proprio dovere: “Ho lavorato sodo”». Ma, come ricorda subito dopo la filosofa francese, bisogna ammettere che quei venti minuti di attenzione sono molto più difficili perché «nella nostra anima c’è qualcosa che ripugna la vera attenzione molto più violentemente di quanto alla carne ripugni la fatica». E questa potrebbe essere considerata una delle ragioni per cui scrivere oggi è meno frequente, un atto meno sentito di quando, per poter accedere ad un’informazione, era necessario alzarsi dal proprio sofà per recuperare dalla biblioteca una loquace enciclopedia. Sullo schermo, infatti, la ricerca è immediata ed è così che si perde il ‘’gusto’’ di conoscere, quel desiderio che soltanto una piccola o grande avventura può alimentare. La ricerca è quest’avventurarsi e mi sembra sia ciò che convince Valeria Pisani, la protagonista del Quaderno Proibito di Alba de Céspedes, ad acquistare in una tabaccheria un quadernetto. La donna ripone tanta cura nello scriverci su qualcosa ogni volta che l’è possibile, ma ancor di più impiega le sue energie per pianificare di volta in volta dei modi per non farsi scoprire dai suoi figli e da suo marito Michele mentre scrive.
Nessun segreto da non rivelare, nessun tradimento da confessare in un primo momento occupa le sue pagine, ma c’è qualcosa da salvaguardare, ciò che nessun altro componente della famiglia può capire: il suo essere una donna pensante. Valeria Pisani si accorge soltanto scrivendo quanto sia importante preservare la sua voce interiore che da anni reprimeva con il lavoro e le faccende di casa. L’esser data per scontata è qualcosa che la fa terribilmente soffrire perché lei lo sa, c’è una parte di e in lei che non ha mai avuto il coraggio di rivendicare a nessuno. Ecco che quest’abitudine al mascheramento le ha zittito il desiderio di conoscersi attraverso il tortuoso canale del pensiero. Il diario, allora, diviene, come scrive Blanchot nel Lo spazio letterale, un «memoriale» e non semplicemente una confessione. «Di che cosa lo scrittore deve ricordarsi?», continua Blanchot. «Di se stesso, della persona che è, quando non scrive, quando vive la vita quotidiana, quando è vivo e vero, e non morente e senza verità. Ma il mezzo di cui si serve per ricordarsi a se stesso, è, fatto strano, l'elemento stesso dell'oblio: scrivere. Da ciò deriva che la verità del Diario non consiste nelle interessanti osservazioni, letterarie, che vi si trovano, ma nei particolari insignificanti che lo collegano alla realtà quotidiana». La consapevolezza e, così con essa, anche la qualità della scrittura si accrescono quando Valeria Pisani scrive e scrive pagine, interrottamente. All’inizio le parole erano appuntate, sterili, ma una volta iniziato le cose hanno preso un’altra piega e lo scrivere è diventato una forma essenziale d’espressione. C’è qualcosa nell’essere umano, è quello che comprende la protagonista del romanzo di Céspedes, che non è possibile sopprimere neppure con le attività più faticose e le faccende più rumorose. Si potrebbe definire questa ‘’chiamata’’ come una necessità da ascoltare e coltivare il proprio pensiero, perché se così non fosse, rinunceremmo ad una parte di noi, alla nostra aspirazione all’integrità. Scrivere aiuterebbe a far uscire fuori ciò che altrimenti rimarrebbe imprigionato, causando insofferenza e insoddisfazione.
Il diario, dunque, potrebbe essere concepito anche come un’efficace modalità di evasione dal grande o dal piccolo pubblico che spesso risulta essere una minaccia per il proprio benessere psichico. È evidente, a questo proposito, che, pur essendo un «animale sociale», proprio come è scritto nella Politica di Aristotele, l’essere umano ha bisogno dei suoi spazi vitali per poter organizzare le sue idee e per poter assimilare ciò che, stando in compagnia di qualcun altro, non sarebbe possibile fare. «Ah, quante cose mi vengono in mente di sera quando sono sola» scrisse Anna Frank nel suo prezioso diario che definì il suo punto di partenza e il suo punto di arrivo. Quando si scrive il proprio presente, diventa meno complesso progettare il futuro. Ad esso possiamo appellarci attraverso le parole che possono assumere la forma di una preghiera, di un sogno sperato, di un progetto desiderato o di una previsione logica. Leggendo il diario della piccola Anna Frank diviene più semplice, inoltre, figurarci la sua persona e le sue speranze rimaste accese fino all’inverosimile come la candela che usava nel suo buio rifugio. Attraverso la testimonianza di un diario possiamo sfiorare la parte più profonda dello spirito, l’essenza autentica dell’autore che apparirebbe altrimenti velata in altri scritti dove confluiscono, in genere, più artifizi ed orpelli decorativi.
Scrivere di sé e del mondo è un atto che potrebbe mantenerci vivi, ossia consapevoli di quanto accade fuori e dentro di noi. Le parole concretizzerebbero i nostri pensieri che altrimenti si disperderebbero nell’amalgama indistinguibile di ciò che non è stato espresso, quel materiale su cui non ci siamo soffermati per domandarci, indagare e poi cercare di comprendere. Troppo spesso lasciamo che le nostre vite si confondano con l’aria ed il vento che sradica dalle chiome anche le foglie più verdi, le intuizioni più originali e più profonde, portandosele via per sempre. Siamo esseri pensanti e parlanti e l’atto dello scrivere è chiaramente in grado di racchiudere entrambe queste ecceità esclusive dell’essere umano. «Nulla è realmente accaduto» scrive Virginia Woolf nel Diario di una scrittrice del 1953 «finché non viene scritto in un diario».
30 ottobre 2023
DELLA STESSA AUTRICE
SULLO STESSO ARGOMENTO
M. Nuzzaco, Perché oggi la filosofia?
A. Martini, La solitudine: il doppio volto di una dea misteriosa