Giovanni Gentile, come storico del pensiero medievale – ancor prima che come politico – definì il poema di Dante il «primo libro di filosofia scritto in italiano», soprattutto per la sua rielaborazione e traduzione, linguistica e concettuale, delle categorie classiche. Ma, al di là della preoccupazione meramente quantitativa, a destare sempre grande interesse e un rinnovato entusiasmo, è la meticolosa e a tratti viscerale passione politica che permea molte delle opere dantesche. Dante non canta soltanto versi d’amore ma è anche "poeta civile", simbolo vivo e dinamicamente unitario dell’uomo che diviene specchio di due mondi, quello celeste e quello terrestre miracolosamente posti in relazione dalle straordinarie capacità poetiche dell'autore e dalla sua profonda conoscenza delle cose umane.
Provare a dare una interpretazione del poema dantesco è sempre un lavoro arduo, sicuramente affascinante ma al tempo stesso destinato a sollecitare nell'animo di chi si accinge in una tale impresa, un profondo senso di smarrimento e meraviglia. D'altronde è proprio questa l'esperienza che si ha ogni volta che si prova a leggere la Divina Commedia.
Ciò che a prima vista ci sembrava familiare diviene d'un tratto estraneo agli occhi della mente e la necessità di giungere ad una sintesi che sappia tener conto delle molteplici situazioni che il pensiero è costretto a rincorrere e riconsiderare, produce come suo effetto un interrogarsi guardingo e produttivo su ciò che un momento prima neppure ci appariva e che adesso ci accorgiamo essere il presupposto determinante di ogni futura indagine.
Ispirato da questo sentimento di profonda ammirazione e sincero desiderio di conoscenza, ho cercato di ritagliarmi per quanto possibile, un piccolissimo spazio in quella che è la sterminata teoria delle infinite possibilità interpretative della commedia dantesca, tenendo ben a mente come massima generale per questo lavoro, l'idea per la quale il bisogno della ragione non è sempre ispirato dalla ricerca della verità ma molto più spesso di quanto appaia, dalla ricerca del significato.
E proprio per evitare di rimanere impigliato in una tale tentazione di stabilire una equivalenza tra verità e significato, mi è parso più prudente partire dalla figura di Dante uomo mortale, capace di cantare non solo versi d'amore ma di essere anche un "poeta civile" il cui viaggio intrapreso nella commedia non può che esserne il simbolo vivo e dinamicamente unitario in cui si specchiano due mondi, quello celeste e quello terrestre, posti in relazione dalle straordinarie capacità poetiche dell'autore e dalla sua profonda conoscenza delle cose umane. È in questo modo che la fantasia poetica dell'universo dantesco riesce a rendere così plasticamente la condizione privilegiata del suo osservatore; e dopo aver rapito il lettore, raccontandogli cose celesti e divine, l’autore rivela il suo volto umano di poeta del mondo terreno, figura reale e non meramente allegorica.
Il grande interesse per la politica e il suo bisogno implacabile di raccontare le sorti del mondo terreno, di trovare appunto un significato ad esse al fine di comprenderle prendendone attivamente parte, guidano Dante attraverso un percorso nel quale la simmetria tra poesia e filosofia consente di render sub specie aeternitatis l'affresco del mondo degli uomini sotto un cielo colmo di speranza divina.
I rapporti conflittuali tra vita e morte, natura e grazia, volontà e dannazione, si articolano nella Commedia alla luce del valore profetico assunto da quell'arte la poesia, considerata dalla filosofia scolastica come cognitio minor, e che in Dante invece viene elevata a strumento privilegiato in grado mediare non soltanto sulle cose celesti ma soprattutto su quelle di questo mondo nel quale l'uomo si trova ad essere solo di passaggio come un abitante di una civitas peregrina alla quale crede spesso di appartenere esclusivamente.
Lo scenario nel quale si svolge la rappresentazione dantesca va per tale ragione concepito in spe, come un progetto in itinere dove la stessa prospettiva dell'uomo, essere mortale ma appartenente a Dio, è interamente consegnata alla decisione di un giudizio ultimo del quale Dante non si arroga mai il diritto di proferire l'ultima parola, limitandosi piuttosto a riproporlo all'attenzione degli uomini per ammonirli, ricordando loro la vera natura delle cose.
Alla luce di questa condizione umana, quella dell'homo viator e pur tuttavia capax dei, è possibile ricercare il significato occulto dell'atteggiamento di Dante verso le cose del mondo degli uomini nel corso del suo viaggio ultraterreno. Essere vivi significa vivere in un mondo che ci precede e che sarà ancora tale anche dopo la nostra dipartita; su questo punto Dante non smetterà mai di fornire indicazioni nel corso del poema, a voler sempre rammentare come l'arco di tempo della vita terrestre anche se finito ed assegnato in sorte ad ogni creatura vivente, possa determinare non solo l'idea di una vita dopo la morte ma dischiudere l'aspettativa di una esistenza diversa sulla terra e con essa una migliore esperienza del tempo speso laggiù.
Nello specifico, vi è una terzina nella commedia dantesca, nel canto XXXIII del purgatorio nel quale il tema delle cose umane viene posto in stretta relazione con la prospettiva di una visione extratemporale dell'essenza umana. In questo passo Beatrice, con tono deciso dopo aver parlato in modo oscuro al poeta, lo invita a mettere per iscritto le sue parole affinché siano riportate agli uomini sulla terra, il cui vivere è simile a un correre verso la morte.
Dante è qui come in tutto il poema, testimone privilegiato per conto di tutte le umane genti. Egli ha intrapreso un viaggio unico andando oltre i confini dell'esistenza terrena, riuscendo ad entrare in un rapporto più profondo col divino pur appartenendo sempre al mondo fenomenico. Dante resta corpo e sentimento per tutta la durata del viaggio; intelligenza e virtù umane abitano nel suo animo e tuttavia egli è spettatore inatteso al confine tra due mondi.
Questo atteggiamento di contemplazione rivolto al mondo delle cose che sono, non scioglie dunque il grande poeta dal suo vincolo di portare con sé il suo corpo mortale quale dimora corrente del suo spirito.
Dante è filosofo a pieno titolo, perché rivolto verso il mondo vero dell'essere ma pur sempre connesso a quello della sensibilità la cui presenza non è semplice controparte di un impulso alla autoesibizione della ragione nel tentativo di spezzare anzitempo i legami con quello.
Il mondo sensibile degli uomini: quello dei sentimenti, della speranza, della paura, in una parola il mondo della politica, si presenta qui come la scena comune a tutti i viventi ma allo stesso tempo profondamente diversa a seconda della percezione di ogni singolo individuo. Assetato di virtù e conoscenza, l'animo di Dante si avventura partendo dal piano della sensibilità - al quale l'uomo è legato da una intima necessità, senza tuttavia potersi concedere di perder di vista l'impossibilità costitutiva di una sua eventuale rinuncia ad essa, pena l'annullamento della sua umanità e perciò della sua politicità.
Attraverso la memoria e la rappresentazione ispirate qui dalla poesia ma guidate da un procedimento speculativo che ritrova nella filosofia il presupposto per ogni comprensione razionale, il poeta intraprende un itinerario che seppur sembrerebbe doversi concludere soltanto con un excessus mentis, è obbligato a dover riconoscere nella morte quale fatto eminentemente umano, una costante presenza della parte sensibile della natura umana.
Le parole di Beatrice pronunciate con tono deciso assumono un significato preciso: paiono alle orecchie del genere umano terribilmente vere, perché richiamano all'ordine la mortale creatura ricordandogli la sua origine, la forma (natura) e l'esperienza della morte attraverso la quale dovrà passare prima di poter procedere oltre.
La morte si costituisce qui quale principium individuationis della natura umana e consente al senso comune degli uomini di ritrovarsi, seppur alla luce di una opposizione di fondo rispetto a ciò che non essendo oggetto di esperienza, non appare mai in superficie e per tale motivo necessita di un grado di attenzione diverso e più alto, come in una situazione di fraterna familiarità.
Le parole di Beatrice: «Tu nota; e sì come da me son porte, così queste parole segna a' vivi del viver ch'è un correre a la morte», sollevano negli uomini che le odono il ricordo della loro origine e l'idea che esiste al di là di essi un essere il cui grado di realtà è più alto di quello attribuito a qualsiasi cosa sulla quale possa mai posarsi il loro sguardo.
Gli uomini durante la loro esistenza non possono mai fare esperienza della morte in modo diretto così da conservare un ricordo di essa; possono al massimo provare a comprendere qualcosa dalla morte degli altri loro simili. A Dante invece, è stata offerta l'occasione di andare oltre al fine di vedere e poi riferire cose al di là di ogni intelletto umano, aprendo così ad una interpretazione dell’esistenza intramondana capace di cogliere nella natura dell'uomo mortale un rimandare ad altro da sé.
La fermezza e solennità delle parole di Beatrice diviene grazie alle doti poetiche di Dante testimonianza per tutto il genere umano, segno di una tappa obbligatoria dell'itinerario che il poeta ha dovuto compiere nel suo instradarsi verso l'excessus mentis, senza perdere di vista lo sviluppo storico-filosofico dell'uomo nel mondo ma proprio al fine di assicurarne una sua migliore comprensione. Il risvolto politico appare qui più vivo che mai. Nel ricordare di Dante agli uomini la loro umanità attraverso la loro mortalità emerge l'idea di un io che, come quello umano, vuole ma non può realizzare immediatamente ciò che sente, errando quindi nelle sue scelte.
Tale posizione assume una preminenza logica rilevantissima per ogni successiva riflessione sull'agire dell'uomo nel mondo. Riportando poeticamente ciò che ha potuto udire da Beatrice, Dante si candida a diventare anch'esso parte viva del mondo degli uomini e non profeta già salvo per merito divino.
Assumendo su di sé il peso etico dell'irrazionalità umana e delle sue nefandezze, può compiere un'impresa mai tentata da nessun altro uomo primo d'ora, armato "soltanto" di una straordinaria coscienza di sé, si avventura nella selva oscura del mondo, conscio delle difficoltà che gli si presenteranno. Animato da questa superbia intellettuale, quale condizione necessaria per poter tentare la sforzo conoscitivo richiestogli dall'impresa, Dante è sempre ben ancorato al mondo dei suoi simili, gli uomini: egli è homo novus, profeta degli uomini per gli uomini.
Il profeta che vede grazie ad un excessus mentis, è tale perché comunicando ciò che ha visto, riconosce come compito centrale della sua missione la necessità di accusare quanti tra gli uomini che governano questo mondo mortale, sono responsabili di averlo reso un nido di malizia e perfidia, arroganza e divisione.
L'esser profeta degli uomini implica il dover riconoscere a sé stesso la permanenza in questo mondo che egli può però guardare con gli occhi di chi ha visto e sa più di quanto sia stato concesso a qualsiasi altro uomo. Come il filosofo platonico che una volta uscito dalla caverna politica e aver contemplato la luce del sole, deve far ritorno in essa per un debito contratto con la città (umanità), anche Dante è consapevole a suo modo che il viaggio intrapreso non si concluderà con il suo arrivo nel paradiso ma dovrà proseguire con una ulteriore katabasis tra gli uomini, in quel nido di malizia e divisione.
Dante poeta civile e profeta degli uomini non può sottrarsi al suo dovere per il quale ha ricevuto sostegno e illuminazione; il «viver ch'è un correre alla morte» è quindi anche e soprattutto il destino di Dante.
Senza la consapevolezza della sua mortalità e del suo legame indissolubile col mondo, il poeta-profeta non avrebbe mai avvertito quell'impellente bisogno di “sovraumanarsi”, intraprendendo questo viaggio e saziandosi di ciò che ha appreso per portarlo poi in dote ai suoi simili.
Ecco dunque riapparire anche in Dante, seppur con esiti differenti, il conflitto tra la polis e la cittadella dell'anima della filosofia platonica. Anche in Dante la forza della volontà umana è all’opera non solo nell'attività spirituale ma si manifesta parimenti nella percezione del mondo sensibile, di quel mondo verso il quale Dante è in perenne conflitto, proprio come accadeva al filosofo platonico. Tuttavia, l'atto della visione in Dante è supportato dalla Grazia; la potenza del suo conoscere benché sia quella di un intelletto umano, riesce a trovare la strada nella selva oscura dell'ignoranza perché sul suo cammino vegliano forze ben superiori. La guida di Beatrice ne è la dimostrazione: essa soltanto può venire in soccorso alla difficoltà che il Dante uomo incontra ogni qual volta tenta di comprendere le cose intelligibili avvicinabili solo dal pensiero, similmente alle idee delle quali il Socrate della Repubblica diceva che possono essere pensate ma non viste con lo sguardo dagli uomini.
Il viver d'ogni uomo che corre verso la morte è così l'ingombrante presenza tra gli uomini di un interrogare profondo molto più antico della stessa natura umana sulla quale l'ultima parola spetta a Dio. Dante è consapevole del fatto che non è possibile voler comprendere l'intelligibile eliminando il sensibile che gli fa da sfondo, perché sarebbe come voler camminare sotto al sole senza scorgere la propria ombra.
Per tale ragione, è grazie a questo interrogare, nato dalla sua parte umana e sensibile che l'uomo diviene presente a sé stesso, «quaestio mihi factus sum», io stesso sono divenuto il centro del mio domandare, sebbene in rapporto a ciò che è oltre la mia esistenza.
Ciò non indebolisce in Dante la forza della volontà umana che anzi ne trae soltanto giovamento a tal punto da desiderare che la propria anima «s'insempri» tutt'una con l'assoluto «sovraumanandosi».
Il carattere dell'individualità umana che l'attesa e il ricordo della morte riscoprono, diviene in Dante il punto di svolta per una ri-comprensione della sfera politica tra gli uomini: il desiderio di assoluto e l'origine della ricerca sono tanto umani quanto il corpo di ogni creatura mortale.
L'angustia che opprime il petto di Dante all'inizio del suo viaggio è lo stesso sentimento tutto umano che ritorna nel canto XXXIII del purgatorio nelle parole di Beatrice a ricordar la miseria dell'esistenza umana. E tuttavia proprio questa misericordia e pietà verso quella terra desolata che è il mondo degli uomini, si sono ora trasformate nel percorso verso l'alto ma conservano il naturale atteggiamento proprio di un abitante della civitas peregrina, un homo viator che in ragione della sua libertà in quel luogo, inizia la ricerca consapevole di essere parte di un progetto più grande e complesso altrove.
L'eccedenza veritativa proveniente da quel «viver ch'è un correre a la morte» è qui consapevolezza di sé, la stessa consapevolezza del poeta, iscritta nella mente di ogni creatura razionale affinché essa si riscopra attivamente partecipe di due mondi dotati di pari dignità e soggetti alla luce di “due Soli”, i quali dovranno trovare un'intesa e un accordo perché entrambi preposti a trarre gli uomini dalla servitù alla libertà.
15 settembre 2023