L'evoluzione del concetto di Autarkeia tra Occidente e Oriente

 

Quanti di noi possiedono la capacità di bastare a se stessi? Quanti di noi sono padroni di se stessi? Attraverso grandi filosofi e letterati  della tradizione classica analizzeremo  insieme il concetto di autarkeia in occidente, per affrontare poi una trattazione analoga per quanto concerne l'oriente. Scopriremo in questo modo quanto tali remote dottrine millenarie siano ancora estremamente attuali e come i loro precetti abbiano influenzato pensatori di età moderna e contemporanea.

 

La parola αυτάρκεια deriva dal pronome greco αυτός e dal verbo αρκέω, che possono tradursi rispettivamente con "se stesso" e "bastare", pertanto la cosiddetta autarchia è, etimologicamente, la capacità di essere autosufficienti.

 

Nella cornice delle filosofie ellenistiche, αυτάρκεια (autarkeia) è la capacità di bastare a sé stessi e accontentarsi della propria vita, a prescindere dalle cose mondane e dalle varie vicissitudini della vita, ben incarnando dunque gli ideali di αταραξία, imperturbabilità dell'animo, e αδιαφορία, distacco dagli eventi esterni.

 

Le varie scuole di pensiero solevano raggiungere questa capacità attraverso la totale alienazione dal piacere, tuttavia vi erano due dottrine che ne predicavano un moderato perseguimento: l'Epicureismo e il Cirenaicismo.

 

Il primo insegnava ai propri discepoli, da una parte, a stare lontani dal piacere cinetico - dal greco χύνεσις (in moto), era il piacere tipico di coloro che avevano trovato godimento nei beni terreni, cosa che lo rende pertanto un tipo di piacere effimero, poiché porta alla felicità solo finché ce ne si può deliziare; dall'altra parte, insegnava loro a perseguire invece il piacere catastematico - dal greco καθίστημι (stare fermi), era il piacere tipico di quei saggi che vivevano secondo il motto «λάζε βιώσας», «vivi nascosto», astenendosi dai piaceri terreni, cosa che lo rende invece un tipo di piacere duraturo, che permette di trovare la felicità autarchicamente dentro se stessi.

 

La seconda scuola filosofica, il Cirenaicismo, fondato dall'allievo di Socrate e Protagora, Aristippo, si focalizzava invece sulla necessaria presenza dei piaceri terreni nel tentativo dell'uomo di raggiungere la felicità, fermo restando che questi dovrebbero costituire solo dei mezzi per il suo raggiungimento e non coincidere con essa stessa.

 

Quest'ultima concezione di quello che può essere definito edonismo autarchico può anche essere vista come un abbozzo ante litteram del famoso principio Oraziano «carpe diem», «cogli l'attimo», che, contrariamente all'opinione comune, non incoraggia una sfrenata ricerca del piacere, ma intende bensì valorizzare ogni singolo momento del presente in cui si vive.

 

Un altro esponente della letteratura latina il quale, a sua volta, tratta del concetto di αυτάρκεια (autarkeia) è il poeta di età augustea Virgilio. Nel quarto libro della sua opera Georgica, infatti, Virgilio parla di un povero vecchierello che possedeva solo pochi iugeri di terreno ed era solito faticare tutto l'anno, ma, nonostante ciò, «regum equabat opes animis», il che significa che, nel suo animo, eguagliava la ricchezza dei re. Attraverso questa metafora bucolica, il messaggio che il poeta vuole trasmettere è che a prescindere da quanto poco qualcuno possieda in termini oggettivi, colui che è αυτάρκης (autarkeis) non solo si accontenterà di ciò che possiede, ma ne sarà anche genuinamente soddisfatto.

 

Riflessione di carattere diverso è quella del filosofo Stoico di Cordoba, Seneca, che ci fa capire che al giorno d'oggi quasi nessuno è αυτάρκης (autarkeis). La maggior parte di noi infatti non è padrona del proprio tempo e, secondo Seneca, coloro che non sono padroni del proprio tempo non sono nemmeno padroni di se stessi, il che significa che non sono αυτάρκαι.

 

Occupati otiosi, che letteralmente significa lavoratori indolenti, è l'ossimoro che il filosofo usa per descrivere coloro che sprecano il proprio tempo nel tentativo di soddisfare la loro avidità e avarizia: queste persone dedicano la loro vita al raggiungimento di ricchezza, potere, successo, e nonostante ciò all'arrivo della vecchiaia  non sono contente, desiderano di più, e incolpano la natura per non aver concesso loro una vita più lunga.

 

A tal proposito, all'inizio dell'opera De Brevitate Vitae Seneca sostiene che «non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus» ("non abbiamo poco tempo, ma ne perdiamo molto"); dovremmo invece realizzare, come egli stesso sostiene nelle Epistulae Morales ad Lucilium, che «tempus tantum nostrum est», ("solo il tempo è nostro"), e faremmo meglio a servircene al meglio finché ne abbiamo la possibilità.

 

Epicuro e Seneca
Epicuro e Seneca

Per quanto concerne invece la tradizione orientale, il Buddismo incentra la sua riflessione sulla padronanza di sé e sostiene che tutti noi durante la nostra vita andiamo ad imbatterci nei cosiddetti cinque impedimenti, che ci ostacolano dal raggiungimento della padronanza del nostro sé:

  • desiderio dei sensi;
  • cattiva volontà;
  • imprigionamento;
  • irrequietezza;
  • dubbio.

Il desiderio dei sensi ha origine ogni qualvolta ci imbattiamo in qualcosa che bramiamo, sia esso qualcosa che vediamo, udiamo, annusiamo, assaporiamo o proviamo; la sfida, di conseguenza, è quella di evitare di cadere in tentazione. Non solo i Greci e i Romani, dunque, pensavano che l'alienazione dal piacere potesse aiutare nel percorso verso la padronanza di sé. Il desiderio dei sensi e il conseguente piacere, infatti, sono anche alla base delle ossessioni, che a loro volta ci impediscono di essere padroni di noi stessi in quanto possono degenerare in vere e proprie dipendenze.

 

La cattiva volontà è ciò con cui ci confrontiamo quasi ogni volta che le cose non vanno come pianificato: ci ritroviamo di fronte ad aspetti e situazioni che non ci piacciono o per cui proviamo un'avversione e, per poter andare avanti, l'unica cosa che possiamo fare è imparare a lasciar andare quella malevolenza. Dobbiamo infatti comprendere e accettare che ci sono cose che non possiamo controllare, cose che Seneca definirebbe adventicia, inaspettate, e dobbiamo imparare a convivere con esse.

 

Quello che ho deciso di chiamare imprigionamento è stato tradotto originariamente con indolenza e torpore, ed è infatti uno stadio caratterizzato da sonnolenza, negligenza, mancanza di energie e di motivazione e, spesse volte, può addirittura portare allo sviluppo di varie forme di depressione. Quando ci ritroviamo in questo stadio anche un piccolo sforzo può sembrare estremamente difficile da compiere, e non c'è via di fuga alcuna dalla metaforica prigione se non troviamo il modo di evadere da quella gabbia mentale in cui ci siamo intrappolati.

 

L’irrequietezza è quello stato mentale in cui i cosiddetti occupati otiosi sono bloccati. Tutte quelle volte che la nostra mente è turbata, tutte quelle volte che pensiamo troppo, rimuginando sul passato o preoccupandoci per il futuro, in tutti quei momenti veniamo sopraffatti da cose che non possiamo cambiare né controllare: dobbiamo ricordarci, infatti, che non abbiamo potere alcuno su passato e futuro, il presente è l’unico tempo a nostra disposizione.

 

L’ultimo impedimento, il dubbio, sorge quando siamo troppo indecisi e spaventati e abbiamo troppa poca fiducia in noi stessi. Se ci riconosciamo intrappolati in questo stadio dobbiamo rimanere fedeli a noi stessi e seguire, con raziocinio, i nostri istinti, e “farlo e basta”, anche se non ne siamo completamente sicuri, poiché probabilmente non lo saremo mai del tutto.

 

Una soluzione per tutti questi cinque ostacoli è offerta dall’acronimo RAIN, ideato circa venti anni fa dall’esperta di Mindfulness e Vipassana Michele McDonald:

  • R - riconoscere, come primo passaggio, lo stadio in cui ci si trova, siccome non vi è modo alcuno di risolvere un problema se non si è consapevoli di averlo;
  • A - accettare il problema, accettare la persona che si è e le emozioni che si provano, accettare la situazione: serve a rendere i passaggi successivi più semplici;
  • I - indagare il proprio stadio, cercare di capire la ragione per cui le cose sono andate in un modo piuttosto che in un altro, e focalizzarsi poi su come sia possibile evolvere da lì;
  • N - Non identificarsi con lo stadio mentale in cui ci si ritrova.

Quest'ultimo step, la non-identificazione, è molto importante nella dottrina Buddista, che predica infatti, attraverso il concetto di anātman o non-Io, che non esiste una vera e propria essenza che costituisca il proprio Io, ma chi siamo è solo una mera combinazione dei seguenti cinque aspetti: Corpo, Coscienza, Attività Karmiche, Emozioni e Sensibilità. Semplificando, dobbiamo essere consapevoli che non siamo il nostro corpo, non siamo la nostra mente, non siamo le nostre azioni, non siamo le nostre emozioni o sentimenti, siamo solo in grado di vedere questi aspetti di noi stessi.

 

La difficoltà, tuttavia, risiede nel comprendere che il concetto di anātman non implica l'assenza di un Io ontologico, in quanto sarebbe un paradosso, ma significa invece che ciò che convenzionalmente chiamiamo Io altro non è che un flatus vocis per la combinazione dei cinque aspetti sopra menzionati, peraltro impermanente e interdipendente. Impermanente perché, come direbbero rispettivamente il pre-socratico Eraclito e il poeta romano Ovidio, «πάντα ρέι» e «omnia mutantur, nihil interit», in quanto "tutto scorre ed è in continua evoluzione" e, pertanto, anche il nostro cosiddetto Io muta a sua volta ad ogni minimo cambiamento dei cinque aspetti di cui sopra. Interdipendente perché, come enuncia la Teoria del Caos attraverso il famoso Effetto Farfalla, ogni cosa ha un'influenza su ogni altra cosa, a tal punto che «il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo», il che significa che il cosiddetto Io, oltre ad essere in perpetuo mutamento, è interconnesso a qualsiasi fenomeno e non può, in ultima istanza, esistere in quanto tale.

 

 

Per quanto insolita e remota possa sembrare oggigiorno una simile speculazione sul concetto di anātman, dobbiamo riconoscere che se ne fa ampio uso nell'ambito della psicoterapia. Fin dal momento in cui decidiamo di recarci da uno psicologo, infatti, iniziamo ad applicare il primo step del metodo RAIN, riconoscendo di avere un problema, cosa che in termini hegeliani potrebbe definirsi risveglio della coscienza infelice, in quanto rappresenta il momento in cui prendiamo finalmente consapevolezza della nostra condizione e desideriamo conseguentemente migliorarla. Soltanto allora, dopo aver riconosciuto il nostro problema, la terapia può guidarci, attraverso l'accettazione e l'indagine, alla non-identificazione con il problema iniziale e, da ultimo, alla padronanza di noi stessi e all’αυτάρκεια (autarkeia).

 

29 settembre 2023

 




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