L’uomo è segnato ontologicamente dall’inquietudine, la quale può condurlo alla “disperazione assoluta” (per utilizzare un’espressione kierkegaardiana). Gabriel Marcel invita l’uomo a scoprire da sé la realtà profonda della sua inquietudine, la fonte di essa e, a partire da questo riconoscimento, ad affrontarla a partire dalla sua condizione esistenziale. L’uomo è infatti un essere libero che può far fronte all’inquietudine almeno in due modi differenti: intraprendendo il percorso della comprensione razionale della realtà – in cui l’uomo basta a se stesso – oppure quello della fede – in cui l’uomo vuole riallacciare i rapporti con Dio – riscoprendo la via della salvezza.
di Andrea Allegra
« La conoscenza avrà come felice esito di liberarci dalle credenze illusorie che turbano la nostra anima » (Gabriel Marcel, L’uomo problematico).
Marcel sintetizza in quest’unica frase la concezione stoica della salvezza dell’uomo dall’inquietudine. Per gli stoici, quindi, liberarsi dallo stato di inquietudine significa raggiungere una dimensione di equilibrio attraverso una purificazione razionale, percorrendo la via della riflessione logica. Secondo gli stoici, dice Marcel, lo stato di inquietudine è legato alla paura della morte e il vedere il rapporto uomo-morte da una certa prospettiva piuttosto che da un’altra permetteva allo stoico di raggiungere un certo stato di calma e di tranquillità che, prima di intraprendere il percorso razionale che conduceva a questo nuovo equilibrio, era uno stato inimmaginabile per l’animo umano paralizzato dal terrore.
Marcel ci invita però a riconoscere l’inquietudine nella sua essenza, ci invita a disvelarla, a prenderne coscienza vera a partire dalla nostra condizione di vita; perché, in fondo, se scrutiamo bene la nostra esistenza, l’inquietudine non è mera paura della morte ma condizione esistenziale dell’uomo, derivante dalla sua finitezza. L’inquietudine, quindi, non è per Marcel legata alla morte bensì alla vita stessa. Riconoscere a pieno l’inquietudine significa, per l’uomo, riconoscere che essa deriva dalla sua condizione di finitezza che lo caratterizza. Per tale ragione, scrive Marcel che l’inquietudine «è il disagio forse dapprima segreto e inarticolato del quale è preda “l’anima”, per il fatto stesso della sua situazione fondamentale» (Gabriel Marcel, L’uomo problematico).
Per Marcel non è possibile agire come fanno gli stoici: non è possibile salvarsi da sé mediante il percorso della mera ragione. È certo che l’uomo deve prendere coscienza della sua inquietudine per non rimanerne vittima. La tappa iniziale del percorso di salvezza è quindi quella che conduce alla presa di coscienza dell’inquietudine che abita in noi. Dicevo che Marcel critica l’elemento razionale come metodo assoluto di salvezza, tant’è che scrive, da pensatore cristiano quale egli è, che anche «le parabole evangeliche molte volte si ripropongono proprio di liberarci da un razionalismo il cui risultato inevitabile consiste nel rafforzare la tendenza a compiacerci in noi stessi e nella considerazione dei nostri meriti.» (Gabriel Marcel, L’uomo problematico)
Per Marcel, l’uomo che pensa di poter trovare da sé la via della salvezza è un uomo perso. L’inquietudine lo raggiungerà sempre perché l’uomo non basta a se stesso. Solo l’uomo che riconoscere veramente l’inquietudine può scrutarne il senso: la mancanza di qualcosa o di qualcuno è la fonte dell’inquietudine. Potremmo forse dire: la mancanza di senso. L’obiettivo di vita dell’uomo consiste allora nell’intraprendere il percorso del senso della vita; per Marcel è chiaro che è il Vangelo la porta che permette all’uomo di accedere al senso della sua propria esistenza, perché la via che conduce al senso è quella che ri-conduce l’uomo a Dio, che è il solo che può portare l’uomo sulla via della salvezza.
Marcel invita l’uomo a riscoprire la sua condizione creaturale e finita, la sua condizione di manchevolezza, perché solo così l’uomo potrà intraprendere il cammino della comprensione della sua esistenza: obiettivo di vita di ogni uomo. Come può, l’uomo, in quanto creatura finita, salvarsi da solo? L’uomo umile e sincero è allora colui che ha preso piena coscienza della sua reale condizione. Solo a partire da questa presa di coscienza la prospettiva con la quale l’uomo si guarda e guarda la realtà inizia a mutare. Dice Marcel che:
« l’orizzonte si trasforma se l’uomo è consideratore come la creatura libera di un Dio trascendente e se il suo destino è la salvezza e cioè un’armonia da instaurare o da ristabilire tra lui e la potenza superiore che lo ha chiamato all’essere. Ma questo orizzonte si trasforma anche se a questa creatura è concesso di riconoscere o d’ammettere di trovarsi in uno stato di caduta conseguente al peccato. » (Gabriel Marcel, L’uomo problematico)
Marcel ci invita a domandarci: perché pensare di poterci salvare da soli? Perché insistere su una direzione che non è la nostra? Perché non mantenere un atteggiamento di umiltà riconoscendoci come esseri finiti? Sono domande che ognuno di noi deve porsi per poter chiarire la propria condizione esistenziale.
Marcel invita l’uomo a riscoprire la sua condizione autentica e a percorrere questo tipo di strada che non conduce verso un altrove indefinito ma verso la realtà di se stessi. È un invito, quello di Marcel, a guardare in faccia la realtà. Ma la realtà ci dice anche che l’uomo è un essere libero che, in quanto tale, può decidere da sé la direzione da percorrere.
Le direzioni sono almeno due e le abbiamo già incontrate. La prima direzione: l’uomo può decidere di salvarsi da solo, percorrendo una via che è quella stoica o spinoziana della comprensione razionale della realtà per vincere l’inquietudine, pensando in questo modo di fare chiarezza assoluta sulla sua condizione di vita, quando, però, in realtà, sta solo fuggendo – consapevolmente o meno – dal mistero – per usare un termine caro a Marcel – della realtà: l’uomo, in questa circostanza, è chiaro che non coglie, o non vuole cogliere la sua finitezza e il suo non bastare a se stesso: non procede verso la via della dipendenza da altro, dell’umiltà e della autenticità. La seconda direzione: l’uomo è consapevole di vivere in un mistero assoluto: lui si scopre come mistero, la realtà è un mistero. Il mistero non è da intendersi qui come qualcosa che prima o poi potrà essere svelato, “risolto”, ma è la condizione essenziale del reale: è il riconoscimento dell’impossibile determinazione concettuale della realtà. Riconoscere il divenire che noi siamo, che la realtà è, significa rifiutare la sua determinazione per affermare la relazione che lo crea. Ecco che, l’uomo consapevole della sua finitezza va nella direzione della relazione con l’infinito rifiutando la via asettica della sua “comprensione” in termini razionali e determinanti.
L’uomo che intraprendere il percorso dell’autenticità vive la relazione con l’essere e non il distacco-conoscitivo che vuole determinarlo. È a partire dalla presa di coscienza dell’inquietudine esistenziale che lo segna, che l’uomo può iniziare a percorrere il cammino spirituale che conduce a Dio; oppure può decidere di intraprendere il percorso solitario della mera razionalità del sé finito fingendosi infinito e cioè bastevole a se stesso.
È chiaro, ormai, che chi riesce a intraprendere la via della relazione con l’infinito è il fedele. Il fedele è colui che spera in Dio. La condizione della speranza è quella per cui non è più possibile, per il fedele sincero, disperare, perché ha deciso veramente di affidarsi a Dio, al Tu Assoluto che lo sostiene. Significativa e chiarificante è la posizione di Marcel:
« quello che si può chiamare il segno ontologico della speranza – speranza assoluta [(corsivo mio)], inseparabile da una fede essa stessa assoluta che trascende ogni condizionamento, e con ciò, […] ogni rappresentazione. […] si presenta come risposta della creatura all’essere infinito al quale sa di dover tutto ciò che è e di non poter senza scandalo porre alcuna condizione. Dal momento in cui mi prostro […] dinanzi al Tu assoluto che nella sua infinita condiscendenza m’ha tratto dal nulla, sembra che io mi vieti per sempre di disperare, o più esattamente che riconosca implicitamente nella disperazione un indizio di tradimento tale da non potermici abbandonare senza pronunciare la mia propria condanna. Che significherebbe infatti, in questa prospettiva, disperare, se non dichiarare che Dio s’è allontanato da me? Oltre al fatto che una simile accusa è incompatibile con la posizione del Tu assoluto, si può osservare che, pronunciandola, mi attribuisco illegittimamente una realtà distinta che non può appartenermi » (Gabriel Marcel, Homo viator)
Il fedele che vive autenticamente la fede è quindi colui che non può permettersi di vivere nella disperazione, è colui che non può disperare. Il fedele che vuole vivere autenticamente la fede è colui che si affida totalmente a Dio – rifugio e dispensatore di senso per agguantare l’inquietudine – rimanendo in attesa di una risposta proveniente dall’Infinito.
XX agosto 2024
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