Filosofia e crisi climatica: pensare con chiarezza per contribuire a garantire il futuro dell'umanità

 

Daniele Fulvi risponde alla domanda “Come può la filosofia contribuire a garantire il futuro dell’umanità?” Concentrandosi sull’esempio della crisi climatica, Fulvi suggerisce che la filosofia non vada ridotta a una semplice forma di educazione morale, il cui scopo è quello di generare speranza per il futuro. Al contrario, il modo migliore in cui la filosofia può contribuire a garantire il futuro dell’umanità è tramite un pensiero chiaro e adeguato riguardo la condizione esistenziale e planetaria generata dalla crisi.

Questo articolo ha ottenuto il Terzo Premio nel Global Essay Contest 2024 per Daily Philosophy. Qui viene riprodotta una traduzione dell’articolo originale in inglese, pubblicato da Daily Philosophy a questo link. Si ringrazia la redazione di Daily Philosophy per il permesso a riprodurre una traduzione di questo articolo.

 

di Daniele Fulvi

 

 

Filosofia come pensiero morale?

 

Poiché la crisi climatica è diventata la «questione determinante del nostro tempo», sempre più filosofi stanno dedicando i loro sforzi alla comprensione di questo problema. Molto spesso, viene suggerito che il modo migliore in cui la filosofia può affrontare la crisi climatica è insegnare alle persone a fare la cosa giusta – o meglio, insegnare in primo luogo quale sia la cosa giusta da fare. In poche parole, il ruolo principale della filosofia sembra essere quello di promuovere l’educazione morale. Come sostiene Kieran Setiya, la filosofia «migliora il nostro pensiero morale» ponendo «domande astratte ed esistenziali», come ad esempio «perché dovremmo preoccuparci della sopravvivenza dell'umanità?» Così facendo, la filosofia sottolinea l’importanza di prendersi cura di coloro che sono più vulnerabili agli effetti della crisi, nonché delle generazioni future e degli esseri viventi non-umani (ovvero animali, piante, e microorganismi vari). Di conseguenza, la filosofia eccede il dominio della politica o delle valutazioni tecno-scientifiche, colmando il divario tra teoria e pratica e fornendoci linee guida morali universali per pensare e agire in un modo più giusto. È quindi fondamentale, continua Setiya, che il pensiero morale ci aiuti a «mantenere la speranza per il futuro» invece di «continuare ad agire senza di essa».

 

Su questa linea, David Charles afferma che la filosofia dovrebbe promuovere un’etica basata sull’empatia e sulla speranza per contrastare l’allarmante mancanza di azione sul clima da parte di singoli individui e istituzioni. La filosofia dovrebbe quindi insegnare alle persone ad «agire per virtù, per la cura del pianeta, di noi stessi e delle nostre famiglie, e per l’empatia verso gli altri esseri umani». Attraverso l’educazione morale, la filosofia diventa un faro di speranza e una guida morale che ci mostra una “luce in fondo del tunnel” – per così dire – e un futuro migliore. Rafforzando il pensiero morale individuale e collettivo, avremmo pertanto una migliore comprensione dell’importanza di agire per il clima e di valori fondamentali come l’empatia e la solidarietà. Pertanto, l’educazione morale serve a fornire un insieme di valori più solidi e un senso di speranza che è presumibilmente fondamentale per il futuro dell'umanità.

 

Tuttavia, ritengo che sia profondamente riduttivo sostenere che la filosofia sia una mera forma di educazione morale, e che sia potenzialmente fuorviante affermare che rafforzare il nostro pensiero morale sia la migliore risposta possibile alla crisi climatica. Anche se questo non è necessariamente ciò che Setiya o Charles suggeriscono (e infatti non intendo criticare individualmente nessuno dei due), è comunque fondamentale chiarire che la filosofia ha un compito molto più gravoso rispetto a quello di insegnare alle persone ad apprezzare e poi a fare “la cosa giusta”, dandoci così speranza per il futuro.

 

Al contrario, la filosofia deve svolgere un ruolo primario nel fornire non solo un solido sistema di valori morali, ma soprattutto un’adeguata comprensione della crisi e del nostro ruolo all'interno di essa, al fine di contribuire a mantenere il pianeta abitabile sia per gli esseri umani che per quelli non-umani. In altre parole, la filosofia non dovrebbe essere concepita come una forma di pensiero morale che promuove azioni virtuose e aumenta la speranza per il futuro. Piuttosto, la filosofia dovrebbe essere una pratica di pensiero chiaro che faccia luce sulla concretezza della difficile condizione scaturita dalla crisi attuale e favorisca azioni adeguate per fronteggiarla a livello planetario. Di conseguenza, è necessario comprendere la crisi climatica in tutta la sua portata per affrontarla adeguatamente, senza basarci su supposizioni false o fuorvianti rispetto al nostro ruolo all’interno della crisi.

 

Pensare con chiarezza all'interno della crisi

 

È innegabile che la crisi climatica minacci il futuro della maggior parte di forme di vita sulla Terra. Se il riscaldamento globale continuerà ad essere incontrastato, le conseguenze potrebbero essere ancora più catastrofiche di quanto si possa temere. A partire dalla sempre maggiore riduzione di biodiversità, dall’innalzamento vertiginoso del livello del mare e da eventi meteorologici sempre più estremi, lo scenario peggiore (ma non impossibile) è quello di una sesta estinzione di massa. Infatti, diversi scienziati ritengono che solo forme di vita meno complesse, come microbi e batteri, saranno in grado di adattarsi abbastanza velocemente al riscaldamento globale ai suoi ritmi attuali e sopravvivere alla crisi.

Pertanto, il cambiamento climatico costituisce una crisi esistenziale a livello planetario: anche solo un aumento temporaneo delle temperature globali oltre 1,5°C o 2°C (che sembra ormai inevitabile) altererà in modo permanente la flora e la fauna esistenti. Inoltre, non è più possibile mitigare la crisi semplicemente riducendo le emissioni di Co2 e la nostra impronta carbonica individuale e adottando un stile di vita più virtuosoDovremo piuttosto integrare la riduzione delle emissioni e i cambiamenti comportamentali con le cosiddette tecnologie a emissioni negative, che dovrebbero rimuovere la CO2 in eccesso dall'atmosfera e immagazzinarla in pozzi di assorbimento del carbonio. Queste tecnologie, tuttavia, potrebbero non essere sviluppate in tempo o impiegate su scala adeguata per rimuovere una quantità sufficiente di CO2, e non risolvono realmente il problema. Nel migliore dei casi, ci permettono di guadagnare tempo per capire le prossime mosse per contrastare la crisi. 

 

Incendio nella contea di Madera, in California
Incendio nella contea di Madera, in California

 

La crisi climatica è quindi una crisi nel vero senso della parola, ovvero una situazione estremamente grave che richiede una soluzione disperata – che potrebbe anche non esistere. Il termine greco κρίσις (krisis), inoltre, deriva da κρίνω (krino, “giudicare”) e da κριτικός (kritikós, “capace di distinguere”); tale termine indica il giudizio, la capacità di fare distinzioni e di scegliere. In origine, Ippocrate usava questo termine per indicare un momento decisivo nelle condizioni cliniche di un paziente, cioè quel momento in cui lo stato di salute di un paziente poteva solo migliorare o peggiorare, ma non poteva rimanere invariato. In altre parole, un paziente in stato di crisi può solo guarire o morire. La stessa cosa vale per il complesso di organismi viventi del nostro pianeta. Il fatto che ci troviamo in una crisi climatica e ambientale indica letteralmente che la maggior parte del mondo biofisico esistente sarà portato a una rinnovata vitalità, oppure perirà per mezzo di una (ennesima) estinzione di massa, stavolta indotta dall’attività umana. In entrambi i casi, il mondo vivente, così come tutto ciò che esce da una vera crisi, non sarà più lo stesso.

 

Sebbene il paragrafo precedente possa sembrare cupo e persino un po’ fatalista, esso non fornisce informazioni inaudite. Martin Schönfeld, in un editoriale del 2011 per il Journal of Global Ethics, aveva già preannunciato che il cambiamento climatico «pone tutti i problemi tradizionali sotto una nuova luce. Esso si presenta come il contesto primario di tutti i problemi. Non si tratta quindi di una voce nell’elenco dei problemi, ma della nuova lista su cui sono scritte le vecchie voci. Per dirla senza mezzi termini, [il cambiamento climatico] è la lista». Di conseguenza, Schönfeld suggerisce che il cambiamento climatico non è un problema che dobbiamo risolvere, ma piuttosto una condizione esistenziale che dobbiamo affrontare. Per chiarire, questo non significa che non si debba (o non si possa) fare nulla per contrastare il cambiamento climatico. Piuttosto, l'affermazione di Schönfeld evidenzia la natura radicalmente esistenziale dei problemi filosofici che la crisi climatica pone.

 

Quattro anni prima della pubblicazione dell'editoriale di Schönfeld, Stephen Gardiner sosteneva che, per rispondere efficacemente alle sfide planetarie ed esistenziali poste dalla crisi climatica, sia necessario sviluppare un’«etica della transizione». In altre parole, «in assenza di una visione d’insieme convincente», la filosofia deve porsi «tra la teoria d’insieme e il pragmatismo» e affrontare le questioni ambientali più concrete. La filosofia, quindi, «traccia la strada da seguire» e ci permette di comprendere il tipo di mondo vivente che emergerà dalla crisi.

 

Più di recente, la Direttrice Generale dell'UNESCO Audrey Azoulay ha affermato che una mitigazione infruttuosa della crisi significherebbe «un fallimento nel preservare l'abitabilità del nostro mondo e la diversità delle specie che lo abitano». Per far fronte alla condizione planetaria ed esistenziale della crisi climatica, continua Azoulay, «il nostro rapporto con la natura e con gli altri esseri viventi necessita di un ripensamento radicale». Pertanto, «dobbiamo progettare e creare un mondo veramente condiviso» e sviluppare «una nuova etica per il mondo vivente, che serva da base per una riconciliazione duratura tra gli esseri umani e tutte le altre specie e forme di vita». Le affermazioni di Azoulay sono profondamente filosofiche e sottolineano l’urgenza di garantire che il riscaldamento globale venga ridotto prima che renda il pianeta definitivamente inabitabile sia per gli esseri umani che per gli esseri non-umani.

 

È importante chiarire che, sebbene sia Azoulay che Gardiner sottolineino l'importanza dell’etica in questo processo, le loro affermazioni non devono essere interpretate come un generico invito a dare priorità allo sviluppo di valori morali alternativi. In altre parole, essi non identificano necessariamente una forma rinnovata di pensiero morale come la migliore risposta alla crisi e come un faro di speranza necessario per il futuro della vita sulla Terra. Piuttosto, le loro affermazioni sono molto più pratiche ed efficaci se le intendiamo come un invito a riorganizzare praticamente il mondo vivente, in modo da renderlo ancora abitabile per le sue attuali forme di vita. Il punto è vedere e pensare con chiarezza, valutare cosa si può fare concretamente per la crisi, e non alimentare un senso di speranza basato su un’astratta riflessione morale.

 

Inoltre, la speranza non è sempre e necessariamente una cosa buona. Com’è noto, Baruch Spinoza definisce la speranza come «una gioia instabile, originata dall’idea di una cosa futura o passata, del cui risultato in qualche modo dubitiamo», che va di pari passo con la paura, cioè «una tristezza anch’essa instabile, originata dall'immagine di una cosa dall'esito dubbio»Di conseguenza, per Spinoza la speranza è fondamentalmente irrazionale e non filosofica, e una causa diretta della superstizione, poiché nasce da una falsa credenza sulla realtà delle cose. Va detto che Spinoza non nega che la speranza possa anche contribuire al raggiungimento di buoni risultati collettivi e motivare le persone ad agire verso un obiettivo comune. Tuttavia, data la sua inaffidabilità, Spinoza sostiene che è necessario liberarsi dalla speranza e dalle false credenze su cui essa poggia.

 

Ma su quale falsa credenza si basa la speranza, nel contesto della crisi climatica? È innegabile, infatti, che la crisi climatica raffiguri letteralmente un futuro il cui esito è estremamente dubbio e incerto, al punto che non sappiamo nemmeno se ci sarà un futuro per la vita sulla Terra. Questo sembra allinearsi con la nozione di “speranza radicale”, che Jonathan Lear descrive come «diretta verso una bontà futura che trascende l’attuale capacità di comprendere cosa essa sia»Tuttavia, aggrapparsi alla speranza che un vago bene futuro dipenda da un miglioramento del nostro pensiero morale è altamente non filosofico, poiché denota un’incapacità di comprendere il presente, e non solo il futuro. In questo caso, la speranza è l'opposto di conoscenza e potere: se conosco la gravità concreta della crisi, sono consapevole delle misure radicali necessarie per mitigarla (che potrebbero anche non esistere o non funzionare correttamente). Questo mi dà il potere di agire in modo informato e adeguato sia a livello individuale che collettivo, pur nell’incertezza dell’efficacia futura di tale agire. Se invece ignoro tale gravità, mi affido all’errata convinzione che un’astratta riflessione morale sia lo strumento più alto per garantire un futuro più luminoso per l’umanità.

 

Ma a differenza dei preti, i filosofi non sono tenuti a insegnare alle persone ad agire moralmente in vista di una qualsivoglia bontà futura che va oltre la loro comprensione. Al contrario, il modo migliore (se non l’unico) in cui la filosofia può contribuire a garantire il futuro della vita umana e non-umana sulla Terra è quello di fronteggiare senza ambiguità l’attuale condizione esistenziale scaturita dalla crisi climatica, in cui non solo non c’è una “luce alla fine del tunnel”, ma non c'è nessun tunnel da cui uscire. C’è invece un mondo vivente ed emergente che è fondamentalmente alterato rispetto al mondo che conosciamo, e con il quale dobbiamo imparare a vivere (e convivere), se possibile. Questo sembra essere un passo necessario per la filosofia (e per i filosofi) per pensare in modo chiaro e responsabile all’interno e oltre la crisi.

 

Con questo non intendo suggerire che valori come l’empatia, la solidarietà e l’altruismo non siano importanti o non possano portare a un futuro migliore. Allo stesso modo, non intendo negare che l’educazione morale sia una risorsa preziosa e necessaria per combattere le ingiustizie e le disuguaglianze sistemiche – che la crisi climatica ha ampliato. Tuttavia, ritengo che sia necessario un ulteriore sforzo affinché la filosofia possa svolgere un ruolo significativo nel garantire un futuro per la vita umana e non-umana sulla Terra. Come già detto, la filosofia non assolverà al suo compito limitandosi a insegnare alle persone a pensare e ad agire moralmente o a nutrire speranza per il futuro. Piuttosto, la filosofia è preziosa nella misura in cui ci permette di pensare in modo adeguato e di vedere le cose con chiarezza – anche se ciò significa accettare l'incertezza radicale di un’esistenza instabile a livello planetario, aggrappata a precari tentativi di mitigazione della crisi.

 

In pratica, questo significa riconoscere che la crisi climatica non è nata dalla carenza di pensiero morale, ma piuttosto da un modo di essere insostenibile attraverso il quale gli esseri umani hanno portato la maggior parte dell’attuale mondo biofisico sull’orlo dell'estinzione. Pertanto, l’azione per il clima deve essere basata su questa condizione estrema, invece di affidarsi all’ingannevole speranza che un rafforzamento del pensiero morale sia la strada migliore per il bene futuro dell’umanità. Questo punto verrà approfondito nella prossima sezione.

 

Non c'è speranza (e meno male!)

 

Data la portata planetaria ed esistenziale della crisi, Catriona McKinnon sottolinea che non dovremmo abbandonarci al «falso conforto che l’umanità sia sulla buona strada per “risolvere” il cambiamento climatico», come alcuni esperti e politici sostengono troppo ottimisticamente sulla base degli obiettivi globali fissati dall’Accordo di Parigi. Al contrario, «la portata dei cambiamenti di cui abbiamo bisogno per “risolvere” davvero il cambiamento climatico avrà un impatto sulla vita di ogni persona»In altre parole, per affrontare la crisi non sono necessari semplici cambiamenti nel nostro pensiero morale e nei nostri valori. Piuttosto, sono necessari cambiamenti molto più radicali per consentire una giusta ridistribuzione delle risorse tra il Nord e il Sud del mondo e per un equo utilizzo e un’efficace implementazione delle tecnologie a emissioni zero ed emissioni negative. Inoltre, questi cambiamenti dovrebbero agire su un livello ancora più fondamentale, ovvero sulle fondamenta stesse del nostro rapporto con il mondo vivente, cioè sia con gli altri esseri umani che con gli esseri non-umani.

 

Con il suo lavoro pionieristico sulla filosofia ambientale, Val Plumwood aveva già previsto la natura radicale di tali cambiamenti. Plumwood sostiene che la filosofia occidentale sia dominata da una forma di dualismo secondo cui l’uomo e la natura sono dimensioni ontologiche separate e incommensurabili. Come afferma la stessa Plumwood, tale ideologia dualista considera «l’essere umano non solo superiore, ma anche diverso in natura dal non-umano, che è concepito come una sfera inferiore non cosciente e non comunicativa, puramente fisica, che esiste come mera risorsa o strumento per la superiore sfera umana»La natura è quindi concepita come un sistema passivo e ostile, che può essere sfruttato e migliorato da (ma anche sottomesso a) la razionalità e l’interesse personale degli esseri umani.

 

Questo approccio è pericoloso non solo perché legittima l’idea che il mondo naturale sia secondario rispetto all’esistenza umana, ma anche perché presuppone che gli esseri umani e la natura non siano reciprocamente interdipendenti. Per contrastare questa pericolosa ideologia, secondo Plumwood, è necessario opporsi al canone dominante del pensiero occidentale e cambiare il nostro modo concreto di stare al mondo. La filosofia serve quindi a ripensare la complessità della reciproca interdipendenza di tutti gli esseri viventi e a contribuire alla costruzione di un pianeta abitabile e più giusto. Inoltre, porsi come obiettivo il superamento del dualismo ontologico tradizionale significa anche che la filosofia ha il compito fondamentale di riposizionare l’uomo all'interno della natura, e non al di sopra di essa. Ciò comporta non un’astratta riflessione morale, ma «un’etica del luogo», ossia un modo concreto di essere che implica «la capacità di vivere in modo da non degradare altri luoghi, [ovvero] i luoghi di altre persone e anche quelli di altre specie»In pratica, questo favorisce una migliore comprensione del fatto che il cambiamento climatico – sebbene causato dall’attività umana – danneggia principalmente il mondo naturale, e che noi possiamo sopravvivere alla crisi solo se anche il mondo naturale vi sopravvive.

 

Brian Burkhart ci aiuta a chiarire questo punto. Essere intrecciato con il mondo non-umano, secondo Burkhart, significa collocare l’esistenza umana su «un terreno relazionale di affinità [kinship]» in cui «gli esseri umani non fluttuano liberi dalla terra, ma sono fondamentalmente intrecciati con questo terreno relazionale di affinità». Tale intreccio non si riferisce semplicemente a una relazione materiale e causale tra gli esseri umani e la natura, e tra gli esseri umani e gli esseri non-umani, ma rimanda a un livello ontologico più fondamentale. Di conseguenza, gli esseri umani non sono né i padroni indiscussi della natura, né incommensurabili con il mondo naturale “inferiore” e oggettivato. Al contrario, la natura modella e partecipa attivamente alla vita umana, proprio come gli esseri umani modellano e partecipano attivamente alla vita del mondo naturale.

 

Tommaso Ferrando, Brescia, 1472
Tommaso Ferrando, Brescia, 1472

 

Qui la filosofia emerge in tutto il suo rilievo, ma non come «movimento astratto del tempo e della storia», come nel caso della «filosofia e della religione europee, che sono ormai avulse dalle terre e dai luoghi europei e funzionano come ideali universali in tutte le terre e in tutti i luoghi»In poche parole, la filosofia non è una forma di pensiero morale astratto che fornisce valori universali che tutti gli esseri umani devono adottare in risposta alla crisi climatica. Piuttosto, la filosofia è una pratica concreta di conoscenza che (ri)mette gli esseri umani al loro posto. In altre parole, la filosofia si muove a partire dalla conoscenza che emerge dall’intreccio reciproco tra esseri umani e natura, invece di astrarre da essa. La crisi climatica minaccia proprio questo intreccio, poiché il futuro della maggior parte della vita sulla Terra è in pericolo a causa dell’attività umana. Tale intreccio può perdurare solo se il pianeta rimarrà abitabile sia per gli esseri umani che per gli esseri non-umani, il che a sua volta richiede una rifondazione del mondo vivente.

 

È evidente che né Plumwood né Burkhart facciano appello a moralità o speranza per giustificare la loro critica. Al contrario, il loro lavoro è in linea con l’idea che la filosofia dovrebbe permetterci di pensare in modo più chiaro e adeguato all’effettiva condizione in cui la crisi ci ha posto, senza l’assunto irrazionale e non filosofico che gli esseri umani siano incommensurabili con la natura – o intrinsecamente superiori a essa. Allo stesso modo, la filosofia non dovrebbe indulgere nella banalità che un pensiero morale più acuto fornisca la necessaria speranza di un futuro migliore sia per gli esseri umani che per gli esseri non-umani.

 

A questo proposito, la filosofia dovrebbe sottolineare con la massima chiarezza che non c'è speranza, il che dovrebbe essere accolto come un’ottima notizia. Infatti, affermare che non c'è speranza significa riconoscere che non c’è spazio per, né bisogno di, superstizioni irrazionali o false credenze, se si vuole garantire in qualche modo il futuro di tutti gli esseri viventi. Sono invece una forma di pensiero chiaro e una conoscenza affidabile che possono contribuire a garantire il futuro della vita sulla Terra. Prendendo di nuovo spunto da Spinoza, un’idea adeguata di una cosa «situa chiaramente e distintamente il suo oggetto in tutti i suoi nessi causali e relazioni concettuali, e mostra non solo che esso è, ma che cosa è e come e perché è». Una conoscenza adeguata, quindi, mostra inequivocabilmente che le radici della crisi sono nel modo insostenibile in cui gli esseri umani hanno sfruttato il mondo naturale e le sue risorse, i cui effetti catastrofici sono probabilmente irreversibili.

 

Se invece ci affidiamo al «nostro incontro fortuito e casuale con le cose del mondo esterno», allora ci troviamo ad abbracciare la falsa credenza che la crisi climatica sia emersa principalmente da un cattivo giudizio morale e sia aggravata dalla mancanza di speranza. La filosofia dovrebbe quindi basarsi sulla condizione esistenziale planetaria che la crisi climatica ha generato, in cui il futuro della vita sulla Terra come la conosciamo è in pericolo e dipende dalla nostra precaria capacità di preservare l’abitabilità del pianeta.

 

Invece di scoraggiarsi, è fondamentale sottolineare la rilevanza pratica di un’adeguata conoscenza della crisi per la vita quotidiana. È importante che le possibili risposte alla crisi si basino sulla realtà concreta di un mondo vivente permanentemente alterato, e non sulla falsa convinzione che un’astratta idea di moralità sia la migliore risposta filosofica alla crisi stessa. Infatti, è solo attraverso una conoscenza concreta e adeguata della condizione in cui ci troviamo che possiamo imparare a vivere in essa, a permettere alle altre specie viventi di fare altrettanto, e a generare un futuro più giusto ed equo per tutti. Concettualmente, questo ci permette di affrontare meglio il futuro radicalmente incerto della vita sulla Terra, prendendo coscienza del fatto che stiamo vivendo in una condizione esistenziale drasticamente diversa da ciò a cui siamo abituati. Concretamente, ciò significa adottare modi alternativi di esistere, sia come individui che come specie. Ad esempio, un’adeguata conoscenza di questa condizione ci permette di essere aperti e curiosi rispetto a nuove pratiche in agricoltura, conservazione della biodiversità, riforestazione, cattura della CO2, ingegneria climatica e bioingegneria, che sono (piaccia o meno) parte integrante del futuro della vita sulla Terra.

 

Questo non è il momento di «prefigurare un bene per il quale coloro che lo sperano non hanno ancora i concetti adeguati per comprenderlo», come nell’idea di speranza radicale di Lear. Questo è, piuttosto, il momento di comprendere adeguatamente il presente e costruire di conseguenza un futuro vivibile. Sebbene non vi sia alcuna garanzia di successo di questo approccio, e il futuro della vita sulla Terra sia tutt’altro che certo, la portata planetaria ed esistenziale della crisi deve essere affrontata per ciò che è. Dopotutto, la «creazione di un mondo veramente condiviso» auspicata da Azoulay non si compierà rinnovando i nostri valori morali, ma mantenendo il pianeta abitabile per tutte le forme di vita che lo popolano.

 

dicembre 2024

 









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