Secondo Origene, nel Prologo del Vangelo di Giovanni, ho theós («il Dio») indica il Padre, l’Origine di tutto, mentre theós («Dio») designa il Figlio, il Logos coeterno al Padre. Potrebbe sembrare una semplice sottigliezza grammaticale, ma l’uso dell’articolo ha profonde implicazioni teologiche: consente infatti di distinguere le due Persone della Trinità senza compromettere l’unicità di Dio.
di Giovanni Zuanazzi
Il prologo giovanneo e soprattutto il suo primo versetto attirarono a lungo l’interesse di Origene di Alessandria, il grande Padre della Chiesa vissuto tra il II e il III secolo. Nel suo Commento al vangelo di Giovanni, dopo aver spiegato la prima frase del Prologo («In principio era il Logos»), all’inizio del libro II egli si impegna a commentare le due frasi successive: «e il Logos era presso Dio (letteralmente: "presso il Dio", perché nel testo originale "Dio" è preceduto dall’articolo determinativo: pròs tòn theón), e il Logos era Dio (senza articolo: theós).»
Origene, che amava evidenziare le più minute particolarità dei testi da lui studiati, nota che Giovanni usa la parola "Dio" a volte con l'articolo e a volte senza. E spiega questa differenza nel modo seguente: quando Giovanni scrive "Dio" con l'articolo, intende designare l'Ingenerato, la fonte della divinità, il Creatore dell'universo, il Padre; quando invece scrive "Dio" senza articolo, parla del Logos che è Dio come il Padre ma è distinto realmente dal Padre (cfr. Commento a Giovanni, II, 13-14). Se l’autore del Prologo avesse scritto che il Logos era "il Dio", avrebbe con ciò escluso l’esistenza di un’altra realtà divina oltre al Logos, di un’altra ipostasi (Origene è il primo a far uso di questo termine in un senso tecnicamente cristiano, preferendolo al termine prósōpon, introdotto da Ippolito con lo stesso significato).
È del tutto evidente che qui ci muoviamo su un terreno situato ai limiti del pensiero e del linguaggio: non solo il Logos è Dio come il Padre, ma ha la medesima sostanza del Padre (non è un altro Dio rispetto al Padre: Padre e Figlio sono un unico Dio, heîs theós), pur non essendo il Padre. E per farsi meglio comprendere Origene usa un paragone basato sulla stessa parola logos, che in greco può designare sia la ragione universale, sia la ragione che è propria a ciascun essere razionale:
« come il Dio dell’universo è “il Dio” e non semplicemente “un dio”, così la fonte del logos che è in ciascun essere dotato di logos è “il Logos”, mentre non sarebbe esatto chiamare “il Logos” allo stesso titolo del “primo Logos” quello che è in ciascun essere dotato di logos. » (Commento a Giovanni, II, 15; trad. E. Corsini)
La presenza o meno dell’articolo dovrebbe dunque servire a spiegare il rapporto di identità/differenza che sussiste tra il Padre e il Figlio: l’essere un solo Dio del Padre e del Figlio e insieme la distinzione fra il Dio presso cui era il Logos e lo stesso Logos divino. Ma l'Alessandrino prosegue osservando che la distinzione tra "il Dio" e "Dio" è fonte di turbamento per molti cristiani preoccupati del rispetto che si deve all’unico Dio. Così, per timore di affermare l’esistenza di due dèi alla maniera degli gnostici, essi cadono in opinioni erronee:
« infatti o negano al Figlio una individualità (idiótēta) distinta da quella del Padre, pur ammettendo che sia Dio colui che, a parer loro, soltanto di nome è chiamato “Figlio”; oppure negano al Figlio la divinità, salvandone la individualità (idiótēta) e la sostanza circoscritta (ousían katà perigraphḗn), concepita come distinta da quella del Padre. » (Commento a Giovanni, II, 16; trad. cit.)
In questo passo sono riconoscibili le due eresie trinitarie più vivaci al tempo di Origene e che egli vede, acutamente, come due varianti tra loro antitetiche di un medesimo errore: il cosiddetto monarchianismo. Errore che nasceva dall’esigenza di per sé legittima di salvaguardare l’unità/unicità di Dio (o, come allora si diceva, la monarchia divina), sacrificando però o la sussistenza personale del Figlio rispetto al Padre o la divinità del Figlio-Logos. Ecco allora:
(1) da una parte, il modalismo (che storicamente assunse varie forme, sulla base degli insegnamenti di Noeto, Prassea e Sabellio), secondo cui il Logos non è realmente «altro» dal Padre, essendo soltanto un modo di manifestarsi del Padre nella creazione e nel governo del mondo;
(2) dall’altra, l’adozionismo (rappresentato dai due Teodoto, da Paolo di Samosata e più tardi, a metà del IV secolo, da Plotino di Sirmio), secondo cui il Logos non è propriamente Dio ma una semplice creatura resa partecipe della condizione divina del Padre.
Origene polemizza anche altrove contro queste dottrine. Troviamo infatti la descrizione di queste due correnti e la loro connessione nell'ampio sviluppo sull'eresia che è contenuto in un frammento del Commento alla Lettera a Tito. Le due correnti vi sono presentate in ordine inverso:
« Quanto a coloro (gli adozionisti) che dicono che il Signore Gesù è un uomo previamente conosciuto e predestinato, che non esisteva sostanzialmente e di per sé prima della sua venuta nella carne, ma che, nato uomo, non aveva in sé che la divinità del Padre, non possono, neppure loro, essere accolti senza pericolo nei ranghi della Chiesa; tale è anche il caso di coloro (i modalisti) che, più per superstizione che per pietà, per non dare l'impressione di parlare di due dèi, né viceversa di negare la divinità del Salvatore, affermano che l'essenza del Padre e del Figlio è una e identica – in altre parole: che, sebbene essa riceva due nomi secondo la diversità delle cause, non c'è che una sola ipostasi, cioè una sola persona presente sotto due nomi; costoro in latino sono chiamati Patripassiani. » (Commento alla lettera a Tito, 3, 10-11)
Nella risposta che rivolge ai suoi avversari, Origene insiste: nel Prologo di Giovanni "il Dio" (ho theós) designa "Dio-in-sé" (autótheos), e per questo anche Gesù nella sua preghiera al Padre dice: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio» (Gv 17, 3); "Dio" (theós) si deve invece chiamare chi, al di fuori del Dio-in-sé, può diventare divino per partecipazione alla sua divinità. E tra questi, in modo di gran lunga più eccellente, è "Dio" il «primogenito di ogni creatura» (Col 1, 15), «il Logos che era presso Dio», che era «nel principio» (Gv 1, 1). Egli è radicalmente diverso da coloro che secondo l’uso biblico sono denominati "dèi", perché divinizzati da Dio e ai quali si fa riferimento nella formula scritturale «il Dio degli dèi» (Sal 49 [50], 1), ossia le potenze angeliche e le anime razionali. «Vero Dio» (alēthinòs… theós) è dunque "il Dio" (ho theós); gli dèi che sono in conformità a lui sono come le «riproduzioni di un prototipo» (eikónes prōtotúpou). Ma «l’immagine archetipa» (hē archétupos eikṓn) di queste molteplici immagini è il Logos che rimane sempre con Dio nella contemplazione perenne delle profondità del Padre (cfr. Commento a Giovanni, II, 17-18).
Nella complessa argomentazione origeniana si rileva lo sforzo, da un lato, contro i modalisti, di difendere l’individualità del Figlio in quanto Dio, e, dall’altro, contro gli adozionisti, di tenere il Logos separato dagli altri esseri (potenze angeliche, anime razionali) che in quanto creature possono partecipare della divinità ma solo per adozione, non per natura. Di qui anche l’impegno ad attenuare il più possibile quelle tracce di subordinazionismo nella relazione tra il Padre e il Figlio che la lotta contro il monarchianismo modalista sembrava portare con sé.
Per una corretta valutazione della teologia origeniana del Logos occorre tener conto del contesto polemico in cui essa si è sviluppata e anche del fatto che prima del Concilio di Nicea (325) parlare della superiorità del Padre rispetto al Figlio non era considerato di per sé un errore. Anche alcuni passi della Scrittura, come Gv 14, 28 («il Padre è più grande di me») e Mc 10, 18 («Nessuno è buono, se non Dio solo»), insieme al già citato Gv 17, 3, erano interpretati come una vera e propria inferiorità del Figlio, che difficilmente poteva essere conciliata con l’affermazione paolina dell’uguaglianza delle Persone della Trinità. Certo, poteva trattarsi di un’inferiorità di ruolo, non di un’inferiorità per così dire ontologica.
In alcuni luoghi delle sue opere, nel rilevare la subordinazione del Figlio (e dello Spirito) rispetto al Padre, Origene sembra spingersi più in là (cfr. ad es. Commento a Giovanni, II, 149 e XIII, 151). Se da una parte egli condanna coloro che volevano sminuire la dignità del Figlio separandolo dalla divinità del Padre, dall’altra prende le distanze anche da chi vuole esaltare, a suo avviso oltre il giusto, il Figlio ponendolo sullo stesso piano del Padre.
Ad orientare Origene verso queste conclusioni concorrevano numerosi fattori, quali l’esempio di Filone di Alessandria e in generale l’influenza del medioplatonismo. Ma soprattutto l’adozione della teologia dell’immagine (con l’annessa gerarchizzazione dell’immagine-copia rispetto al modello) e l’attribuzione del ruolo di mediatore al Figlio già in quanto Logos divino (e non solo in quanto Logos incarnato).
D’altro canto, è anche nettissima in Origene l’affermazione della preesistenza del Logos, che è fin dall’eternità presso Dio. L’Alessandrino esprime questa teoria con la famosa frase (confermata da Atanasio) che sostiene esattamente l’opposto di quello che diranno gli ariani: «non c’è stato un tempo in cui il Logos non sia stato» (I principi, I, 2, 9 e IV, 4, 1; Commento alla lettera ai Romani, I, 5).
27 dicembre 2024
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