In che modo la nuova serie TV di Disney+ sul celebre caso di Avetrana si schiera dalla parte degli avetranesi, risollevando dopo anni la questione dell’accanimento mediatico verso vittime, familiari e cittadini?
Se nell’ultimo mese avete passato qualche minuto sui vostri social o vi siete soffermati a guardare cartelloni alle fermate dei mezzi pubblici, vi sarà sicuramente capitato di imbattervi nella pubblicità della serie TV Qui non è Hollywood, distribuita da Disney+ e basata sulla storia vera dell’omicidio della quindicenne Sarah Scazzi, avvenuto ad Avetrana, in provincia di Taranto, il 26 agosto del 2010.
Il caso scatenò una serie di dibattiti: inizialmente, molti erano convinti della colpevolezza dello zio della vittima, Michele Misseri. L’uomo finì nel mirino degli inquirenti dopo aver ritrovato il telefonino della nipote scomparsa e averne rintracciato il cadavere, pur confessando l’omicidio in modo non del tutto coincidente con i risultati dati dalle indagini. Successivamente, Misseri accusò la figlia Sabrina dell’uccisione di Sarah, salvo poi ritrattare la confessione che, tuttavia, sembrava combaciare con la pista seguita dalla polizia. Dopo diversi accertamenti, anche la moglie di Misseri, Cosima Serrano, venne arrestata con l’accusa di omicidio: secondo gli inquierenti era stata infatti lei, insieme alla figlia Sabrina Misseri, a strangolare la nipote in quel pomeriggio di agosto del 2010. Il tutto sembrerebbe essere scaturito da una serie di episodi di gelosia da parte di Sabrina nei confronti della cugina.
Misseri aiutò le donne a occultare il cadavere, addossandosi la colpa anche durante i processi che seguirono e ricevendo denunce di diffamazione dal suo ex-avvocato Daniele Galoppa e dalla criminologa Roberta Bruzzone, poiché li accusava di averlo indotto a confessare la colpevolezza della figlia. La sentenza piombò sulla famiglia Misseri come una tempesta annunciata da tempo: Cosima e Sabrina vennero condannate all’ergastolo, Michele a otto anni per soppressione di cadavere. Il contadino di Avetrana è tornato in libertà nel febbraio del 2024 e ancora oggi sostiene di essere l’unico colpevole della vicenda. Nonostante il caso sembri in apparenza chiuso, dopo quattordici anni si discute ancora sulla colpevolezza delle due donne, che non si sono mai dichiarate responsabili dell’omicidio.
Nell’ottobre del 2024, la piattaforma di streaming Disney+ ha lanciato la serie Qui non è Hollywood, ispirata ai fatti di Avetrana. La trama rimane tragicamente fedele alla realtà, concedendosi qualche scena simbolica ai fini della narrazione, come quella in cui Cosima Serrano si gode l’ultimo momento di spensieratezza ballando sulle note della canzone Obsesiòn o il ricordo di Sarah che, nella scena finale, cammina per la via principale del paesino, oltrepassata dalle volanti della polizia che vanno ad arrestare Cosima.
La serie ha subito fatto parlare di sé: a pochi giorni dall’uscita, è stata temporaneamente bloccata dopo il ricorso del sindaco di Avetrana al Tribunale di Taranto, con la richiesta di omettere il nome della cittadina dal titolo che, originariamente, era Avetrana - Qui non è Hollywood. Il primo cittadino era preoccupato per il danno d’immagine che sarebbe derivato dall’associazione del nome della città a quell’orribile delitto; l’amministrazione comunale ha infatti richiesto anche la visione preventiva degli episodi, dichiarando: «Noi riteniamo che la nostra comunità meriti rispetto e una giusta connotazione e che la sua notorietà sia sempre più determinata dai tanti tesori che la storia ci ha lasciato (...)».
Nonostante il nome della cittadina pugliese sia spesso associato al caso Scazzi, le parole del sindaco Iazzi sono comprensibili sin dalla prima scena della serie, che sembra quasi profetizzarle. Vediamo, infatti, un bus turistico che si ferma davanti a villa Misseri, soprannominata ‘‘villetta degli orrori’’, riducendo l’omicidio della piccola Sarah a mero oggetto di intrattenimento e mancando di rispetto non solo alla vittima e alla sua famiglia, ma alla città intera. «Avetrana», dichiara il sindaco, «è una città accogliente, storica e ricca di vere attrazioni turistiche, ma soprattutto stanca di vivere da quattordici anni all’ombra del dolore dato dal delitto».
A testimoniare ciò sono le reazioni contrastanti degli abitanti di Avetrana: molti hanno accolto con gioia il cambio di titolo, sostenendo l’iniziativa del primo cittadino; altri, invece, appaiono ancora oggi rassegnati perché, proprio come nella scena profetica, Avetrana continuerà a rimanere una meta del controverso dark tourism, il turismo che mira a visitare i luoghi dove si sono consumate atroci tragedie.
Lo avevano scritto quattordici anni fa sui muri della città, qui non è Hollywood, una risposta alla spettacolarizzazione mediatica che aveva reso Avetrana un vero e proprio set di un film poliziesco. Una ragazzina scomparsa e ritrovata senza vita, una famiglia in pensiero con un segreto da nascondere, il tutto in una cittadina tranquilla, dove si conoscono tutti e non succede mai nulla. Ma non si trattava di fantasia, né di fiction, perché l’incubo della famiglia Scazzi era reale, come reale era anche il disagio e il dolore respirato dai cittadini avetranesi, non sostenuto dalla narrazione mediatica.
La mistificazione di storie simili non è nuova. Il genere del true crime, una tipologia di intrattenimento che documenta e racconta i casi di cronaca nera, è molto diffusa anche in Italia. Basti pensare a trasmissioni televisive come Chi l’ha visto?, Un giorno in pretura e Storie Criminali, solo alcune delle più celebri tra le tante che hanno avuto a che fare con la vicenda Scazzi. Cosima e Sabrina vi sono state più volte intervistate, anche dal carcere, e il corpo di Sarah è stato ritrovato proprio mentre la sua famiglia era in collegamento a Chi l’ha visto?.
Qui non è Hollywood non è l’unica serie basata su un crimine reale a essere andata incontro a polemiche. Ricordiamo Yara, rilasciata pochi mesi fa e incentrata sul rapimento e successivo omicidio della tredicenne Yara Gambirasio, per cui è stato condannato all’ergastolo il manovale Massimo Bossetti. Anche il caso Gambirasio ha sollevato numerosissime ipotesi circa l’innocenza dell’accusato, che continua a rimanere in carcere. Dopo l’uscita del documentario, in molti ritennero ingiusto che egli fu intervistato per raccontare la sua versione dei fatti, omettendo particolari e rischiando di distaccare la sua immagine dal motivo per cui si trova in carcere.
A rendere controverse queste tematiche sono anche le rappresentazioni fuorvianti dei luoghi in cui vengono ambientate: una narrazione di questo tipo rischia di legare permanentemente il nome della città al delitto, vanificando gli sforzi di chi cerca di rescindere il legame con quello stigma mediatico che altro non provoca che dolore. Questo è accaduto nel caso di Avetrana, Erba, Cogne, Senago, Firenze, Perugia e molte altre città notoriamente ‘’incriminate’’.
Giungiamo quindi a una domanda: quando si esagera? Quando si oltrepassa il confine tra documentare i fatti e narrarli in modo morboso, rendendo attraente ciò che dovrebbe essere repulsivo? Lo scopo e i rischi di rappresentazioni così controverse è un tema ricorrente nella filosofia e nella psicoanalisi. A parlare di tragedia come spettacolo è in primis Aristotele: durante la visione della tragedia, lo spettatore provoca in sé stesso un meccanismo catartico, arrivando a purificarsi emotivamente. Il true crime, ci direbbe lo stagirita, ci permette di affrontare le nostre paure e, attraverso la comprensione di queste vicende, di intuire i pericoli che ci stanno attorno per evitarli.
Ad Aristotele, che avrebbe trovato nelle fiction un potente strumento di comunicazione utile a divulgare conoscenze, si sarebbe sicuramente opposto Rousseau che, in Lettera sugli spettacoli, sosteneva la necessità di un teatro più morale, volto a educare gli spettatori. Il teatro infatti rischia di rendere attraenti i personaggi malvagi, di empatizzare con loro fino a dimenticarne la colpevolezza. Applicando questo pensiero anche ai media più moderni, un Bossetti esposto su una piattaforma come Netflix potrebbe passare da carnefice a innocente, fino a diventare quasi affascinante agli occhi degli spettatori.
Anche la filosofia di Edmund Burke potrebbe essere in linea con questo discorso, soprattutto in relazione alla sua concezione del sublime. Egli scrive che sublime è «tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore» (E. Burke, A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful).
Il sublime è per Burke una fascinazione, un trovare piacere nell’evolversi di un pericolo che non riguarda necessariamente noi, e che ci provoca una sensazione di precaria sicurezza. Applicando il pensiero burkeano alle fiction di crime, potremmo concepire il piacere e l’interesse che scatenano in noi sia come un monito che ci ricordi il costante pericolo che corriamo nella società odierna, sia come una visione di un evento terribile che possiamo fermare da un secondo all’altro semplicemente spegnendo il televisore.
Ad oggi, potremmo dire che questi pareri sono incastrabili tra loro. Nel ventunesimo secolo, la tecnologia ci fornisce miliardi di informazioni e sta a noi, soggettivamente, scegliere in che modo affrontare l’onda mediatica. Non possiamo dimenticarci che Qui non è Hollywood è una serie tv, e pur notando l’eccellenza dei costumi, la precisione delle ricostruzioni, l’efficacia delle scene più simboliche, ma anche gli spunti di riflessione forniti, dobbiamo tener conto della problematicità dell’ossessione mediatica derivata da una fruizione senza giudizio.
In moltissimi casi di cronaca nera, questo ha portato a non rispettare le vittime della vicenda e a un’astrazione da pareri di esperti e sentenze emanate dai tribunali, arrivando a rendere un inferno persino la vita degli abitanti della città in cui si è consumato un delitto, visti come personaggi di una storia di fantasia, anziché come persone vere su cui è ricaduto uno stigma sociale pesante. La polemica intorno a Qui non è Hollywood ci mostra la realtà distorta che viene a crearsi se, per giudicare dei fatti, ci basiamo totalmente su una narrazione romanzata, pensata per una serie TV che, per quanto possa essere simile alla realtà, rimane al di là della sottile linea che delimita la finzione.
13 dicembre 2024
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