Spazio delle mie brame è il bel saggio di Giuseppe Dambrosio, dedicato alle forme di controllo sui corpi che l’esercizio del potere esercita e declina negli spazi preposti all’organizzazione sociale e al suo contenimento; un lavoro che stimola una quantità di riflessioni, e che mette in luce il divario fra l’evoluzione del pensiero pedagogico e la rigidità dei luoghi in cui bambine e bambini, ragazzi e ragazze ne fanno quotidianamente esperienza.
di Serena Daniele
Prendendo spunto dal pensiero di Michel Foucault, secondo cui lo spazio viene disciplinato in base un modello segregativo, Dambrosio analizza gli esempi più eclatanti di tale modello – ospedali, caserme, manicomi e scuole – soffermandosi principalmente sugli edifici scolastici, mettendone in luce le contraddizioni: se la scuola ha il compito di formare esseri umani capaci di autonomia e di scelta, come può farlo in strutture limitate, costrittive, spesso fatiscenti, costruite in periodi storici incompatibili con l’attuale?
Lo spazio fisico scolastico è una costellazione di frammenti. Aule, corridoi, cortili, la cui fruizione è fortemente disciplinata. Ogni frammento è riducibile in caselle sempre più piccole fino a sovrapporsi ai corpi stessi degli alunni e delle alunne, che possono occupare banchi singoli. Dambrosio sottolinea in tal modo la persistenza del concetto che per formare le menti bisogna costringere i corpi: un controllo specifico e costante sui movimenti, che implica che né le materie più ‘nobili’ (lettere, matematica, storia) né quelle meno considerate (educazione motoria, musica) possano essere ‘vissute’.
Pochi anni fa, inoltre, la pandemia ha inferto un colpo tremendo al rapporto tra corpo e apprendimento: gli spazi inagibili hanno impedito ogni tipo di partecipazione, inibito il confronto e la relazione. La DAD e la DDI, per un periodo notevolmente lungo, hanno consegnato il passaggio del sapere a una virtualità mortificante, come un social media espanso in modo abnorme.
Quindi, la dimensione coercitiva dello spazio preposto all’apprendimento (muri, cancelli, aule ecc.) non solo non è stata smantellata dalla digitalizzazione, ma anzi è stata rafforzata trasformando ogni schermo in un occhio costantemente aperto, un dispositivo di controllo tanto più insidioso quanto familiare, perché presente anche all’esterno nelle innumerevoli telecamere sparse per la città.
A questa analisi, però, il libro oppone la visione della contro-educazione di Paolo Mottana e nel concetto di ultra-architettura di Giuseppe Campagnoli: «destrutturazione dello spazio disciplinare scolastico in virtù di un’educazione diffusa». Ovvero, trasformare l’intera città in un corpo educante, creando la possibilità di attingere al sapere in forma diretta, in base all’elaborazione costante dell’esperienza; così che l’equazione sapere-potere-sé, che sottende una pedagogia che investa la persona nella sua totalità di corpo-mente, che la renda autodeterminata e consapevole della propria soggettività, possa finalmente applicarsi ed essere risolta con la piena crescita individuale e collettiva.
Abbattere le barriere architettoniche e liberarsi del grande fratello che la rivoluzione digitale ha annidato in ciascuno di noi è possibile? E come sciogliere questa nuova scuola dalla stretta mortale della burocrazia, come liberarsi dalla perversione delle norme con cui gli operatori della scuola lottano ogni giorno?
È proprio analizzando la contrapposizione tra spazio costrittivo e corpi pensanti/desideranti che può scaturire una riflessione: nelle aule, insieme ai bambini ci sono i docenti, nella scuola insieme ai docenti c’è il personale non docente, appena fuori della scuola ci sono i genitori. È da qui che si potrebbe (e forse dovrebbe) partire per risolvere l’equazione impossibile della scuola come istituzione totale concepita non per formare ma per conformare le coscienze. In un contesto sociale oggi fortemente atomizzato, in una perenne istigazione al consumo, sembra impossibile rivolgersi alle figure adulte per creare una comunità educante e rompere il muro visibile e invisibile che nega ad alunni e alunne l’accesso al sapere attivo; eppure, nessuna rivoluzione è possibile senza ricostruire una condivisione reale di strumenti e obiettivi, adeguati all’oggi, liberi dai ricatti di una burocrazia infernale.
Alcuni luoghi per testare questa nuova alleanza ci sono: le scuole all’aperto, istituzioni nate anch’esse ai primi del secolo scorso e concepite per accogliere e istruire gli alunni gracili, accomunate da una didattica che privilegia il sapere attivo in linea con il movimento dell’éducation nouvelle, un movimento internazionale di riforma dell'istruzione emerso alla fine del XIX secolo e che ha raggiunto il suo periodo d'oro tra le due guerre. I suoi sostenitori proponevano un "rovesciamento copernicano", ponendo al centro dell'azione educativa il bambino piuttosto che il sapere accademico. Tre principi fondamentali accomunano le nuove scuole: la centralità del bambino, l'educazione morale (che porta all'autonomia ma anche all'aiuto reciproco e alla cooperazione) e l'uso di metodi attivi.
Altro orizzonte è quello indicato dallo scoutismo e dal pensiero filosofico e pedagogico di John Dewey, basato su una concezione dell'esperienza come rapporto tra uomo ed ambiente, dove l'uomo non è uno spettatore involontario ma interagisce con ciò che lo circonda, e il pensiero dell'individuo nasce dall'esperienza, quest'ultima intesa come esperienza sociale.
Infine, l’esempio della Casa del Sole all’interno del parco Trotter, a Milano, illustra un percorso educativo dagli spazi non totalmente conformi: le vaste aree del parco, inaccessibili al pubblico in orario scolastico, permettono una gran quantità di iniziative e attività didattiche; attorno al parco ruotano associazioni impegnate attivamente nel sociale e la scuola può contare sul supporto eroico di volontari esterni e genitori che hanno assunto in prima persona quel pezzo di responsabilità sociale e collettiva indispensabile alla comunità.
In Italia ci sono molti altri esempi di scuole all’aperto e modelli virtuosi di outdoor education, da approfondire e diffondere.
L’equazione impossibile diventa quindi possibile se tra lo spazio educante e i corpi discenti si inseriscono le variabili umane, imprevedibili, anch’esse non conformi, di chi rifiuta di fare da vassallo al sistema segregante, di chi trova soluzioni creative e magari extracurriculari per aiutare alunni e alunne a sviluppare la propria intelligenza emotiva, a emanciparli da ambienti e consuetudini umilianti e tossici, di chi si sottrae al modello competitivo e si libera finalmente del pregiudizio che la scuola ‘buona’ era quella che ha frequentato lui/lei. Solo genitori e docenti che non perpetuano la scuola come istituzione totale possono diventare veri e propri pedagoghi, liberandoci tutti da programmi ministeriali inscalfibili e dalle ansie da prestazione. È difficilissimo, lo sappiamo tutti: ma in una società come la nostra, disgregante e ipercontrollante, l’obiettivo imprescindibile è generare relazioni con lo spazio urbano, con l’ambiente, con l’alterità. E disporre di spazi fisici per corpi fisici, proporre la rappresentazione di un’opera o la soluzione di un compito di matematica attraverso il ballo, il gioco, la musica, cercare nelle città un sapere orizzontale che produca il riconoscimento che nessuno è davvero felice se non lo siamo tutt*, almeno un po’.
2 febbraio 2024
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