La definizione di politica in Carl Schmitt: intensità, inimicizia ed estensione

 

Schmitt, nel suo saggio Der Begriff des Politischen del 1932, descrive schiettamente la politica soltanto come una contrapposizione tra amico e nemico. Ma quali riflessioni possiamo ricavare da una definizione così semplice?

 

Paolo Uccello, "Battaglia di San Romano" (1438)
Paolo Uccello, "Battaglia di San Romano" (1438)

 

Tra tutte le eredità che il pensiero di Carl Schmitt ha lasciato ai posteri, a quasi un secolo dalla pubblicazione delle sue opere principali, una su tutte ha pesantemente influenzato la teoria politica novecentesca e contemporanea, ovvero la sua definizione di politica. La sua laconica identificazione con la contrapposizione tra amico e nemico, con tutto il suo bagaglio di riflessioni sugli elementi giuridici principali (Stato, guerra, libertà), su come sia costituita la natura umana, e molto altro, ha influenzato il pensiero politico sia descrittivo che normativo per la sua agevolezza e immediatezza. Ma la semplicità è solo apparente: all’interno di questa breve concezione si trovano varie diramazioni e spunti di riflessione che rendono la definizione schmittiana molto più sfaccettata ed elaborata di quello che appare superficialmente.

 

Più che estrapolare una definizione della politica, l’obbiettivo di Schmitt nel suo Il concetto di “politico” è stato quello di individuare le categorie duali proprie del settore concreto della politica, come ne esistono per gli altri settori dell’umanità (buono/cattivo per la morale, bello/brutto per l’estetica, e via discorrendo): «La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind (Carl Schmitt, Il concetto di “politico”). In questo caso, le categorie introdotte sono quelle di Freund, amico, e Feind, nemico, inteso quest’ultimo non tanto come il nemico privato, l’inimicus, ma quello pubblico, l’hostis: non un avversario singolo, ma un insieme di uomini che si oppone vigorosamente, e soprattutto fisicamente, non metaforicamente.

 

Nella riflessione schmittiana sono due le caratteristiche che rendono la contrapposizione politica autonoma rispetto a tutti gli altri Sachgebieten (come il filosofo politico chiama questi settori della vita umana). Il primo è il livello di intensità della relazione politica, estremamente alto, quasi vitale: «Il significato della distinzione di amico e nemcio è di indicare l’estremo grado di intensità di un unione o di una separazione, di un’associazione o di una dissociazione» (Carl Schmitt, Il concetto di “politico”). Il politico, quindi, è il Sachgebiet più coinvolgente, più totalizzante di tutti, perché spinge l’uomo verso uno scenario che gli altri settori, con le loro contrapposizioni, non riescono a raggiungere: quello dell’opposizione vitale, della lotta per la sopravvivenza, il pathos massimo che una relazione può raggiungere.

 

La seconda caratteristica è che le categorie politiche, sebbene vengano definite come autonome, all’atto pratico non lo siano: esse scaturiscono sempre da una degenerazione delle categorie di altri Sachgebieten, sono il risultato della contrapposizione degli altri piani (estetico, morale, economico etc.) che assume un livello di affezione più alto, più forte: «Ogni contrasto religioso, morale, economico, etnico o di altro tipo si trasforma in un contrasto politico, se è abbastanza forte da raggruppare effettivamente gli uomini in amici e nemici» (Carl Schmitt, Il concetto di “politico”). 

 

La forma della politica che Schmitt vuol far emergere dalla sua riflessione è quella di uno spettro che aleggia intorno a tutti i settori della vita umana, che può trasformare ogni contrapposizione in un dualismo politico. Conditio sine qua non affinché questa trasformazione avvenga, è la volontà di intraprendere una lotta, una guerra, per difendere la propria esistenza e quella dei Freunde, contro quella dei Feinde. Proprio la guerra viene presentata come il presupposto necessario delle categorie politiche:

 

« La guerra non è dunque scopo e meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico » (Carl Schmitt, Il concetto di “politico”).

 

Carl Schmitt (1888-1895)
Carl Schmitt (1888-1895)

 

Non importa che la guerra sia esplicita, formalizzata: serve solo che diventi opzionabile, che sia paventata. Ciò che rende il conflitto bellico così intrinsecamente fondamentale per la contrapposizione politica, è il suo esclusivo e concreto riferimento alla morte. Se siamo disposti a morire o a uccidere, per difendere la nostra fazione ed abbattere quella contrapposta, allora quella che stiamo vivendo è una situazione politica, perché le categorie in questione sono entrate in quella fase in cui l’uccisione diventa una possibilità reale: «I concetti di amico, nemico e lotta acquistano il loro significato reale dal fatto che si riferiscono in modo specifico alla possibilità reale dell’uccisione fisica» (Carl Schmitt, Il concetto di “politico”). Ecco il minimo comune denominatore per definire con precisione il politsche Sachgebiet secondo Schmitt. La politica, quindi, diventa l’aspetto della vita umana in cui si regolano tutte quelle relazioni sociali tendenti all’uccisione, reale o paventata: in cui la posta in gioco è così alta che l’assassinio diventa uno scenario concretamente possibile. Il ruolo della violenza è così importante per la politica, secondo l’autore, che in alcune parti del testo politica e lotta diventano imprescindibili, inseparabili, come se l’una non potesse esistere senza l’altra, e viceversa: «La possibilità reale della lotta […] dev’essere sempre presente affinché si possa parlare di politica» (Carl Schmitt, Il concetto di “politico”).

 

L’assunto antropologico, quasi metafisico, di questo legame insolubile tra politica e guerra, è che l’uomo sia cattivo per natura («Tutte le teorie politiche in senso proprio presuppongono l’uomo come “cattivo”», Carl Schmitt, Il concetto di “politico”). Essendo l’uomo intrinsecamente malvagio, sarà sempre atto alla violenza; ed essendo sempre propenso alla violenza, avrà sempre bisogno della politica per regolare e gestire le sue interazioni sociali. Questo sillogismo per Schmitt è così vero e autorevole, che non è possibile prendere in considerazione una scomparsa definitiva della politica. Piuttosto che questo scenario impossibile, è più probabile che avvenga la fine di una determinata fazione (ovvero l’uccisione di un determinato popolo), a vantaggio del nemico: «Il “politico” non scompare dal mondo per il fatto che un popolo non ha più la forza o la volontà di mantenersi nella sfera del “politico” stesso: scompare semplicemente un popolo debole» (Carl Schmitt, Il concetto di “politico”).

 

Guerra, intensità, morte, universalità, cattiveria: ecco l’enorme sfondo in cui si muove la definizione schmittiana della politica. Ovviamente questa teoria non è stata esente da critiche, nel corso dei decenni. L’obbiezione più sostanziosa evidenziava come questa concezione fosse troppo sbilanciata sul ruolo del nemico, mancando tutta la parte della definizione delle amicizie e della loro gestione: «Il punto è che Schmitt si concentra sempre sul Nemico, e non spiega mai cosa sia l’Amico, in cosa consiste l’Amicizia» (Giovanni Sartori, Journal of Theoretical Politics). Ma soprattutto alla luce di queste critiche la definizione di Schmitt ha dimostrato il suo valore come definizione profonda, multiforme, eterogenea e ricca di numerosi spunti di riflessione. 

 

(Work on this paper received support/benefit from a scholarship granted by the Vice Rector for Research of the University of Innsbruck/Austria)

 

19 febbraio 2024

 




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