Assistiamo oggi più che mai alla mancanza di dialogo, a quella dimensione in cui non solo due soggetti o più portano davanti rispettive posizioni, ma soprattutto i propri limiti. Dialogo vero è dove "manca" la verità, dove manca la sua concezione fallace di possesso. Questo limite è oggi acutizzato dai social, di cui l’uomo è sempre più schiavo. Tale realtà ha trasformato i soggetti in una platea di nescienti, dove gli individui recepiscono risposte. Questo mondo ha modificato l’uomo, ma in negativo. L’uomo senza il dialogo ha perduto la propria umanità.
di Cosimo Giorgio Romano
Uno dei tratti caratteristici del nostro tempo e della società nella quale viviamo è la perdita totale del domandare. Ci si domanda del perché di questa perdita dell’esperienza del domandare. Anzitutto bisogna dire che il nostro tempo vive di risposte, in ogni dove e in ogni attività troviamo una sorta di oracolo che si erge dal suo trono speculativo, decantando con voce baritonale il suo giudizio divinatorio: questo è vero; questo è il solo sistema politico o economico ammissibile. La scienza e la politica hanno raggiunto un alto grado di autocoscienza e tutto ciò che non rientra nel proprio mondo della vita è considerato errore e da ciò pari al nulla. La scienza non conosce la pia grazia dacché non rientra nella possibilità dell’esperimento; la politica rifiuta di rapportarsi agli altrui rapporti di potere oltre al proprio: il mondo atlantico rifiuta quello asiatico e quello asiatico l’atlantico. Il motivo di questa arroganza dei partecipanti è dovuto alla mancanza del domandare, all’impossibilità di porsi in dialogo, dacché le rispettive posizioni sono assunte come le sole valide e le opposte vedute non sono che vaniloqui e quisquilie angoscianti.
Purtroppo, ancora oggi guardiamo coi nostri occhi l’esito più radicale, negativo e violento di questo modo di essere nel mondo. I conflitti in Ucraina e nel martoriato Medio Oriente non sono che gocce di questo male che resta, ma dove l’uomo non riesce, forse volutamente, a porre riparo. Questa forma di arroganza è messa al bando anche nella filosofia critica kantiana. Nella sua prima grande critica, Kant ritiene che la nostra attività formatrice, quell’attività dello spirito comune a tutti, la quale attraverso le categorie forma e da senso al mondo, non sia unica ma molteplice. Quindi, attraverso la rivoluzione copernicana del pensiero, (come sostiene Kant nella Critica alla ragion pura) io, come soggetto conoscente, modello, come un perfetto artigiano, la cosa che ho davanti. Ma la rivoluzione sta proprio nella consapevolezza che non esiste un solo modo di modellare il mondo, ma diversi e molteplici. Del resto, questa forma di volontà di potenza è connaturata all’uomo, come lo è il darsi metafisico della ragione. Ma come è possibile limitare la portata metafisica in Kant attraverso il «corretto e sicuro cammino della scienza» (Kant, Critica della ragion pura), così è possibile anche limitare questo errore cognitivo, l’errore consistente nel ritenere la propria e specifica prospettiva come l’unica, sola, vera e feconda, attraverso la pratica del dialogo, attraverso una forma di apertura all’altro.
Ora, se l’etimologia vale ancora qualcosa, la parola dialogo deriva dal greco Diàlogos, composta da dià, tradotto in fra, e da lògos. Quest’ultima parola è per noi molto complicata, dacché ha molti e molti significati, ma in questo composto è legata a lègō, cioè dire. Balza subito all’occhio la dimensione collettiva, in virtù del fra, giacché è impossibile un dialogo con sé stesso. Il dialogo necessita di soggetti diversi, di diverse vedute. Ma non basta solo questo. I soggetti in dialogo non solo non devono rinunciare alla propria singolarità, alla propria veduta, ma parimenti bisogna giungere ad altro, dove questo altrove non è semplicemente l’altro dialogante, come se cercassimo di capire le sue intenzioni. Dialogo autentico c’è quando ciascuna peculiarità verrà messa in risalto alla luce di una dimensione ulteriore, una dimensione che sovrasta entrambi i soggetti. Una dimensione di tipo trascendentale. Vediamo come.
Come sappiamo Platone scrive sotto forma di dialogo e già questo dovrebbe dirci qualcosa. Ma il punto è altrove. Al centro dei suoi dialoghi troviamo la figura di Socrate, suo maestro, questa figura mastodontica ed emblema della filosofia per eccellenza. Socrate è definito nell’Apologia dall’oracolo il «più sapiente di tutti». Successivamente dopo questo responso, Socrate si domanda del perché l’oracolo lo abbia definito in questo modo e la risposta a questo interrogativo è perché «io so di non sapere». Ma è opportuno aggiungere un’ultima considerazione che Socrate fa, dacché afferma oltre «sapiente è solo il Dio». Quindi il massimo della sapienza possibile per l’uomo è riconoscere la propria insipienza e riconoscere di non essere sapienti rispetto all’autentica sapienza che è quella del Dio. Da ultimo, però, questa forma di conoscenza insipiente non è un risultato su cui acquietarsi, dal momento che questo risultato non induce Socrate ad arrestare la propria ricerca della verità, ma anzi lo induce a continuare a domandare, indagare e a chiedere per strada cosa sia la verità e cosa sia ciò di cui si occupano i singoli interlocutori.
Questa è la caratteristica della filosofia delineata dalle sue origini greche che tutt’ora risulta fonte d’ispirazione. Già gli autori medievali accettano questa forma di conoscenza che da Agostino sino Cusano continua a essere conservata con cura. Agostino accusa di «libido sciendi» (Gian Paolo Cammarota, Conoscenza in Le parole e numeri della filosofia) chi vuole con tutte le forze raggiungere la verità in ogni dove. Ma è soprattutto nella famosa «conversio» logica (Giulio d’Onofrio, Vera Philosophia), in cui cerca di dare legittimità della propria apertura al cristianesimo, dove l’impossibilità di raggiungere la verità viene ribadita con fermezza. Dobbiamo inevitabilmente ricordare come per Agostino la verità esiste (come viene affermato e discusso nel Contra Academicos) e su questo non è possibile sospendere il giudizio come avevano consigliato i probabilisti molto in voga ai suoi tempi, pena la formulazione di un paradosso. Tuttavia essa continua a sfuggirci senza mai trasformarsi in possesso. Questo perché la natura della verità è divina non umana e necessariamente bisogna operare una conversione, dove non è più l’uomo che si impegna a ricercare la verità, ma è la verità che si impegna a ricercare l’uomo per farsi conoscere. Anche nell’oggetto teologico Agostino trascina questo modo d’intendere, dove Dio rappresenta la somma paradossalità, in quanto lo si può comprendere nel momento in cui non è compreso, ma se diventa comprensibile non è lui. Infatti, Agostino afferma a tal proposito «l’unico modo di parlare di Dio è "non dicendo dicere et dicendo non dicere"» (come viene ribadito da Giulio d’Onofrio in Vera Philosophia).
Anche e soprattutto in quell’autore medievale, il quale più di tutti ha saputo incarnare in modo adeguato e puro la famosa premessa agostiniana «intelligo ut credam, credo ut intelligam», Anselmo, ricompare questa insipiente conoscenza in materia teologia. Anselmo è felicemente ricordato per aver espresso, attraverso un unum argumentum, la natura divina come «id quo maius» in Opere filosofiche. Ma nel momento in cui afferma che Dio è il maggiore e necessariamente deve esistere, pena il suo essere maggiore, immediatamente Anselmo arricchisce la sua argomentazione affermando che Dio è sì il maggiore, ma anche maggiore più di quanto possa essere pensato. Anche in Anselmo, Dio come verità continua a risultare ulteriore rispetto alla limitata e finita conoscenza creata, ribadendo ancora una volta l’impossibilità da parte umana di porre una sorta di confine alla verità stessa, facendo della verità un oggetto qualsiasi da possedere e da sventolare ogni qual volta è necessario. Sia in Agostino come in Platone, come abbiamo visto, la dimensione veritativa è una dimensione altra, ulteriore, la quale sovrasta chi crede di possederla; ma è in Cusano che questa forma espressiva, nota come dotta ignorantia, riceve la più alta e felice formulazione.
Nelle sue opere gnoseologiche principali, il De docta ignorantia e il De coniecturis, credo che Cusano sposti l’accento non tanto sui nostri gradi di giudizio, ma proprio sull’oggetto del giudizio, affermando che la verità è propriamente infinità e che la nostra umana conoscenza non può in alcun modo comprenderla. Questo perché la conoscenza umana che proposiziona e misura, ossia che opera attraverso il numero sempre passibile del più e del meno, non può mai comprendere la verità nella sua precisione. Ora, poiché nelle cose finite è sempre possibile il più e il meno e non si arriva mai al massimo di precisione in cui consiste la verità, quest’ultima non appartiene al piano del finito, ma dell’infinito, il quale risulta per noi incomprensibile. Con questa ammissione Cusano non intende che la sua fonte ci sia del tutto preclusa, poiché la consapevolezza della nostra ignoranza è pur sempre una forma di sapere, una comprensione incomprensibile. Per Cusano, ma come per lo stesso Socrate, essa racchiude in sé un lato positivo, giacché l’accento non deve cadere su ‘ignoranza’, in quanto essa è al tempo stesso anche ‘dotta’. Ed è qui che si raggiunge il nucleo del discorso. Come abbiamo detto all’inizio il tema non è tanto la conoscenza, ma la verità stessa, questa infinita e sovrabbondante fonte sorgiva. Nel suo De coniecturis, Cusano afferma che il nostro giudizio è congettura, ma questo non significa che sia una forma di opinione, come la moderna traduzione del termine vuole inculcarci; la congettura cusaniana non intende riproporre lo spettro del relativismo, c’è di più. Il nostro modo di conoscere è congettura dacché avviene in alteritate, nell’alterità. È lo stesso Cusano a utilizzare un’immagine per spiegare cosa significhi quest’espressione. Dobbiamo immaginare di osservare un volto (a mo’ di esempio Cusano utilizza quello del sommo pontefice, all’epoca Eugenio IV). Osservando il suo volto noi crediamo certamente di affermare qualcosa di vero, ma tuttavia se ci eleviamo dal senso alla ragione (tipica proposta platonica della scalarità della conoscenza in senso, ragione e intelletto), comprendiamo che tutto quello che può affermare il senso è contratto rispetto all’angolatura propria di quel determinato occhio, che è diversa da quella dell’occhio di tutti gli altri viventi (come ci ricorda D. Monaco in Cusano e la pace della fede).
Da ciò, per Cusano, ogni attività conoscitiva è sempre un’attività limitata, limitata dalla propria posizione, situazione emotiva e angolatura prospettica. Nessuna delle conoscenze finite possiede una posizione privilegiata, ma solo l’infinità stessa, solo - nel sistema di Cusano - Dio ne è in possesso. Possiamo utilizzare un ulteriore esempio prefigurandoci l’immagine di una città. I singoli soggetti posti lungo diverse alture non avranno mai un’immagine chiara e completa della città, ma solo l’immagine del proprio angolo visuale. Solamente il Dio possiede una veduta completa, una vista totale, come se fosse il solo a guardare la città dall’alto. Cusano si spinge però oltre, in un’altra sua principale opera, il De pace fidei. Nata come risposta alle brutalità commesse dal sultano durante la presa di Costantinopoli, l’opera rappresenta l’auspicio a placare le lotte religiose attraverso la pratica del dialogo. Ed è proprio il corpo del testo ad essere un grande concilio celeste, presieduto da Dio e composto dai più autorevoli rappresentanti delle diverse confessioni religiose. Attraverso i punti principali del suo sistema sopra citati, la contrazione della nostra conoscenza e l’individualità della stessa, Cusano denuncia come pratica prettamente umana, la predisposizione a considerare vera, sempre in ottica teologica, ogni tipo di consuetudine, da cui nascono non pochi dissidi.
«Alle diverse nazioni hai certamente inviato diversi profeti e maestri, alcuni in un’epoca, altri in un’altra. La condizione umana terrena ha tuttavia questo di proprio che una consuetudine inveterata, venga difesa come fosse la verità»
Da ultimo, quindi, Cusano ritiene che la verità, in quanto appartenente al piano dell’infinto, non possa essere posseduta da nessuna delle conoscenze create; tuttavia, esse rappresentano parte dell’infinita, indivisibile e sovrabbondante fonte sorgiva della verità stessa.
Concludo dunque questa mia disamina storico filosofica citando un eminente esponente della scuola neokantiana, Ernst Cassirer. L’obiettivo di Cassirer è ampliare il trascendentale kantiano, ponendo l’attenzione sul fenomeno del linguaggio. Il linguaggio è la nostra principale forma simbolica, tramite la quale l’uomo cerca di dare senso al mondo; tuttavia, il linguaggio è primariamente e necessariamente anche storico. Per Cassirer il concetto di ‘pura ragione’ è del tutto fallace, poiché la ragione stessa si costruisce storicamente. Non esiste una lingua pura o «adamitica» ormai perduta e a cui bisogna inevitabilmente ritornare, ma, ponendo l’accento sulla storicità linguistica, esistono diverse lingue con diverse visioni del mondo. Con ciò, per Cassirer, non ha più senso domandarci quale lingua più si avvicina al vero significato di una cosa. La domanda sulla “realtà in sé” è del tutto mal posta e manca di orientamento. Assomiglia alla domanda se la forma di una certa sedia o il disegno di un certo tappeto siano “adatti”. Ma, l’essere “adatto” è propriamente un concetto relativo, se una certa cosa è adatta o no dipende dal suo rapporto con l’ambiente, con l’arredo al quale dovrà appunto adattarsi. Ora, Cassirer estende la varietà delle lingue alla varietà dei modi di esprimersi dello spirito umano, i quali rendono il mondo via via visibile. Vicino al mondo della scienza troviamo il mondo delle lingue, del mito, della religione, dell’arte, della logica e financo della danza. Tutte queste forme simboliche hanno ciascuna una propria struttura e una propria legge morfologica-costruttiva.
«Nessuna di queste forme simboliche trapassa semplicemente in un’altra, ma ciascuna di esse designa un modo preciso di concepire il mondo e costituisce e mediante in esso il proprio lato del “reale”». W. Eilenberger, Il tempo degli stregoni
Il quesito della verità in sé oppure della domanda su come una certa cosa sia e non sia non si può porre in modo sensato prescindendo dalle varie forme simboliche; a seconda della forma simbolica presa in considerazione quella domanda avrà una forma diversa. Per Cassirer non si dovrebbero adottare le proprie limitazioni e i propri pregiudizi come misura della realtà, come continua ad avvenire ancora oggi, basti pensare ai vari -ismi. Ad esempio, nel mondo della fisica i concetti di vita, di grazia o destino non compaiono, ma per la biologia quello di “vita” è centrale, come è centrale per le religioni la “grazia” o il “destino”. Se, però, per il mondo della fisica il concetto di grazia non esiste perché non si lascia ricondurre a nessuna realtà fisica, questo non significa che sia nulla, ma dimostra una sola cosa: che non si è compreso il significato della forma religiosa e di tutte le forme di vita che poggiano su di essa. Tutti questi -ismi sono accomunati secondo Cassirer dallo stesso errore di fondo, da una narcisistica volontà di potenza.
Concludendo. Cosa ci dice allora la filosofia come ricerca della verità, da ultimo? Ci dice che noi sì la possediamo, ma nel senso di esserne posseduti: è la verità che possiede noi, quindi sempre ci trascende. La verità rimane sempre ancora ulteriore al nostro finito personale possesso di essere. Con ciò sforziamoci a raffreddare le nostre passioni troppo calde, concentriamoci a coltivare la relazione con gli altri, senza considerare ognuno di noi cittadini di un’altra patria. Prendiamo sì posizione, ma al contempo pronti a valutare le ragioni degli altri.
31 gennaio 2024