Il nuovo neoclassicismo e l’attuale frettoloso panorama Occidentale

 

Orwell, nel suo 1984, scrisse che il male della società del post-dopoguerra sarebbe stato rappresentato dai mass media. Oggi, a causa dell’eccessiva strumentalizzazione del mito del self-made man, il valore di tutto è diventato quantificabile solo in base a quanto vende, e la pubblicità, veicolata dai mass media, è il modo più veloce per “sembrare” migliori. Ma da dove nasce tutto ciò e qual è stato l’impatto che ha avuto nella società contemporanea?

 

 

L’origine dei problemi attuali è rintracciabile nella sperimentazione economica, tecnologica e politica figlia del secondo dopoguerra. Se da una parte, almeno inizialmente, il boom economico post Seconda Guerra Mondiale ha creato un periodo idilliaco, la successiva generazione, ovvero quella protagonista degli anni settanta e ottanta non è stata all’altezza delle aspettative, privilegiando lo spreco.

 

Così, il sistema Occidentale è entrato in quella violenta crisi che tutt’oggi viviamo.

 

Quest’ultima non è però una crisi derivata da problemi internazionali o “giganti” spauracchi epocali, come potrebbe essere una Guerra Mondiale. Infatti, l’attuale crisi è una crisi nelle fondamenta del sistema, dove si è insinuato il dubbio che il sistema stesso, in un certo qual modo, non rappresenti più coloro che lo portano avanti.

 

Ovviamente, questo è un discorso che spesso è stato tirato in ballo nei momenti di dubbio e diffidenza verso le istituzioni politiche, ma la verità è che oggi più che mai a spaventarci non sono i grandi disastri internazionali bensì i piccoli problemi quotidiani, strettamente legati proprio alla nuova visione imposta dalla società per la società stessa: la velocità.

 

Mass media, pubblicità, social e tutto ciò che ragiona sulla diffusione in larga scala, oggi ci impone uno standard che non è più semplicemente quello del self-made man, ma a quest’ultimo aggiunge la necessità di risultati immediati e veloci.

 

Chiaramente c’è un intoppo nella macchina societaria. Infatti, i classici problemi quotidiani che accomunano tutti, come restare imbottigliati nel traffico mentre ci si dirige a lavoro, potrebbero essere facilmente risolti in una società sviluppata come la nostra.

 

 

Eppure, lo stesso ritmo frenetico a cui la società moderna ci obbliga di agire ci impedisce di fermarci a pensare, ci impedisce di essere ciò che realmente siamo, citando Kierkegaard.

 

Per risolvere questa crisi, figlia non dell’operato della generazione attuale, i protagonisti di oggi sono sempre più stressati dal frenetico ingolfamento delle istituzioni che fanno da cardine alla società.

 

Ma, se il nuovo standard è rappresentato dal prediligere soluzioni basate su velocità e quantità, invece che sulla qualità necessaria per arrivare a soluzioni complesse, allora questo standard ci obbliga a rinunciare al pensiero, imponendoci di scegliere soluzioni semplici e immediate per risolvere ogni problema nel minor tempo possibile.

 

Questo sentimento sociale di non appagamento è lo stesso che fece da motivo fondante del Neoclassicismo Novecentesco Italiano, costola del Neoclassicismo di metà Settecento. Anche a quel tempo, infatti, la sperimentazione sulle arti, sulla letteratura e sull’architettura, ha proposto una nuova visione dell’emozione come veloce, tagliente, confusionaria e fondamentalmente brulla, ponendo il dubbio sulla reale utilità di quel modello a causa della mancanza di un ordine di base. Da questo malcontento si è rapidamente originato il Neoclassicismo Novecentesco Italiano. 

 

Oggi, accettando il parallelismo ma adeguandolo al contesto, il problema non riguarda tanto la mancanza di ordine ma la mancanza di un ordine nell’ordine, poiché il lavoro finisce per chiedere scadenze così brevi che bisogna necessariamente dare il massimo, giorno per giorno restando nelle regole, senza poter curare ciò che realmente si vorrebbe esprimere; quindi, in definitiva, senza pensare.

 

Il lascito più grande della crisi dello scorso secolo è proprio il fatto che non si creano più opere monumentali, tranne per quelle commerciali, poiché l’attenzione è stata spostata, in blocco, verso i piccoli piaceri; e ciò è accaduto perché si lavora troppo e le scadenze sono troppo immediate. Il pensiero e la passione sono diventati un lusso.

 

L’aver portato via la possibilità di fare cose complesse, giustificando il tutto con la mancanza di denaro, il debito pubblico e le crisi finanziarie, ha così provocato una ricaduta a cascata verso l’attuale società veloce e senza un’anima alla sua base. Dopo anni a confrontarci con questo standard abbiamo assistito al postmodernismo, che ha pian piano ucciso, con la critica, tutto quello che di grande veniva tentato dall’essere umano. Ma ciò ha dato spazio, al contrario, all’avanzata di piccole realtà che tentano oggigiorno di venir fuori dal mare di problemi quotidiani, per creare qualcosa di monumentale… partendo proprio dal basso.

 

 

Lo abbiamo visto, al cinema o sul web, con i film autonomi e distribuiti anche in modo gratuito, con budget di produzione di qualche migliaio di euro a fronte delle grandi produzioni cinematografiche da centinaia di milioni di euro usati per effetti speciali e pubblicità. Lo vediamo nel self-publishing che permette ai giovani autori di evitare il confronto con una casa editrice e di tenere per loro buona parte dei ricavi, come speravano Milton e Locke già nel Seicento. Lo vediamo anche, con il riconoscimento del piccolo imprenditore contro la multinazionale e del piccolo artista musicale indipendente contro le major. Così, al mito del self-made man frettoloso, oggi, viene contrapposto l’ideale del gruppo che con pochi spiccioli tenta di produrre qualcosa che resti nel tempo. In questo modo si va ad affermare un ritorno al passato e ai grandi progetti di opere monumentali che giustamente devono portare alto il valore artistico tanto del singolo quanto del gruppo.

 

In conclusione, in un’epoca figlia di una società di crisi, la certezza maggiore dovrebbe essere proprio quella di creare un ordine interno, così da far emergere grandi realtà che permettano al nostro secolo, il primo totalmente figlio della libertà di parola e di pensiero, di essere ricordato non come un secolo che ha usato i suoi diritti solo per la critica ma che ha anche prodotto grandi opere fondamentali per la storia e l’immortalità dell’Umanità.

 

 

6 gennaio 2024

 









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