La morte andrebbe riconcepita, ridefinita come il destino comune a tutti gli umani e, ancor più ampiamente, a tutti gli esseri viventi. Ci si deve incamminare lungo tortuosi percorsi di meditazione per realizzarla, proprio come suggerisce la psicoanalisi a proposito dell’accettazione dell’abbandono della persona amata o di un qualsiasi trauma infantile. È che a volte ci si sente immortali fra le margherite di un campo o al cospetto della luna irremovibile, fra le coperte del sogno. Ci si sente immortali di giorno, fra le strade gremite di storie così distanti fra loro eppure tutte così umane! Ma il nostro linguaggio comune è davvero ben munito per concepire la morte?
di Giusy Bracco
Quale errore più grande e, allo stesso tempo, dolce di questo, lasciarsi illudere dalla giovane età? La musica è una cattedrale per Luca quando di sera respira le tempestose idee wagneriane che si posano, come ragnatele, agli angoli della stanza. E le parole per Carla si fanno profonde come cimiteri senza fine. Lei si spaventa e lui fa una smorfia delusa quando rivengono dal sogno poetico che li aveva rapiti. Anche la fine, pensano i due, va realizzata. La morte andrebbe detta prima del suo accadere, prima di sparire. Ma come dire qualcosa di talmente impermeabile alla parola da sfuggirci dopo che, sprovveduti, avevamo creduto davvero di averla compresa? Pensavamo di aver rubato il suo segreto e aver svelato a chi ci era difronte che essa è solo l’anticamera per l’eternità o, al contrario, la chiusura definitiva del sipario. Per cui ci troviamo a dire all’unisono con Pascal che «Tutto quello che so è che debbo morire; ma quello che ignoro di più è questa stessa morte che non posso evitare». Di una cosa possiamo essere certi, dunque, ma nulla possiamo dire a proposito di essa. La morte c’è e ci sarà, ma che cos’è e com’è e perché siamo destinati a perire? Come, cioè, dire la morte? A patto che essa può essere detta come si può dire la vita, quando d’estate distesi sul telo che sa di mare, ci facciamo bruciare dalla fiamma della nostra esistenza.
In un passo della Terza conferenza del linguaggio, Heidegger coglie quell’indicibile legame che sembra esserci fra il linguaggio e la morte definendolo «essenziale» e capace soltanto di apparire «come in un lampo». Proprio a causa della sua natura complicata, tale relazione rimane ancora impensata, nel senso che il mistero che aleggia attorno ad essa rimane tutt’ora compatto, non ancora svelato ai nostri sensi. Ciò che lega l’una all’altro sembra essere proprio l’essere umano. Nella tradizione filosofica occidentale, infatti, come ricorda Giorgio Agamben ne Il linguaggio e la morte, «l’uomo appare come il mortale e il parlante». Egli, cioè, ha due «facoltà»: quella della morte e quella del linguaggio che gli permettono di distinguersi in maniera evidente dall’animale; gli animali, a differenza degli esseri umani, non sanno dire la e della morte, la ‘’presagiscono’’ per puro istinto proprio come sentono la fame o il pericolo. Nell’uomo invece non troviamo soltanto un limitato presentimento, ma un deliberato desiderio di capire che cosa essa sia e perché c’è, senza alcuna possibilità di sfuggire da questo doloroso destino. Per Giovanni Ramboni questa tormentosa volontà di capire è intrinseca alla poesia, che è appunto uno «strumento di conoscenza integrale della realtà», definizione presente ne L’opera poetica. Ed è per questo che le sue poesie sono tutte rivolte alla morte, come fa un lupo solitario, di notte, appellandosi alla luna che resta immobile e silenziosa. Il linguaggio riesce a farsi carico della morte soltanto in forma poetica, preservandone il silenzio del lutto e l’indefinitezza dei suoi margini. La poesia dice e non dice perché è al di là della parola e del suo più immediato significato. In essa c’è qualcos’altro di più profondo che emana calore: il fuoco ardente del senso ben preservato dalle figure retoriche, che si comportano come dei mantelli che camuffano la forma e le dimensioni delle spalle di un cavaliere. La morte può essere detta solo con la poesia per non scadere nella banalità come accade nella commedia ridicola e, allo stesso tempo, verosimile di Achille Campanile quando, in Visite di condoglianze, i personaggi tentano vanamente di consolare la vedova Teresa. Accontentarsi perciò di sentirsi dire che «siamo nati per soffrire», come dicono superficialmente i visitatori alla addolorata vedova, significa accontentarsi del niente, dell’aver pronunciato parole vuote, di circostanza.
Capire la morte significa, per quanto possibile, accettarla perché essa c’è come c’è la nascita; esplorare la vita, la sua sicura finitezza e maestosa spontaneità per giungere al concetto di morte che, come un sole, irradia luce ovunque, insinuandosi in ogni ambito della nostra vita. Soltanto in questo modo ci si accorgerebbe che la nostra intera esistenza è strutturata sui pilastri della morte, che quest’ultima, cioè, organizza ciascuna delle tappe con le quali concepiamo la vita. Interrogarsi sulla vita significa interrogarsi inevitabilmente anche sulla morte, come Andrea Zanzotto fa ne La beltà con il suo fantasioso linguaggio ‘’sonoro’’ in Che sarà della neve, che sarà di noi?:
«[…] Ma che sarà di noi?
Che sarà della neve, del giardino,
che sarà del libero arbitrio e del destino
e di chi ha perso nella neve il cammino
(e la neve saliva saliva – e lei moriva)?
E che si dice là nella vita?
E che messaggi ha la fonte di messaggi?
Ed esiste la fonte, o non sono
che io-tu-questi-quaggiù
questi cloffete clocchete ch chpiù che incomunicante scomunicato tutti scomunicati?»
Noi, come la neve che si è posata sulle strade e sui ripidi tetti, siamo qui di passaggio lasciando alla fine soltanto chiazze di acqua: le nostre azioni che sul mondo si posano modificandone l’ordine. Passano gli anni e, intanto, «passa ignaro il vero senso della vita» come dice il testo della canzone di Battiato, Di passaggio. Ma il senso può farsi carne attraversi il verbo, nella parola che è il più incredibile segno della nostra umanità. La poesia, a differenza della filosofia, non cerca di dire l’Unità, il Tutto che non si vede ma che soltanto si avverte con la forza dell’immaginazione. Essa canta al contrario la morte, la fine delle cose; la fugacità del fiore e di una melodia, quella di una folla esultante o la breve comparsa di una fiamma su un piccolo mucchio di bastoncini e di paglia. La parola non può attraversare la morte, ma può intuirla e così circumnavigare il suo segreto, e dire di sì alla sua inevitabile presenza. Accettare la morte significa perciò vivere la vita, gettarsi fra le braccia ardenti del presente, nel sospiro indefinito dell’esistenza. Significa creare con i propri passi una storia il cui senso potrà essere compreso soltanto alla fine, da chi si farà carico di essa, ricostruendola e poi narrandola ad alta voce.
Bellezza e Verità sono imparentate, se non addirittura, andrebbero considerate le due facce di una sola cosa per Emily Dickinson, in Morii per la bellezza. E cosa, se non la poesia, è la perfetta commistione fra le due dee, Afrodite e Alétheia?
«Morii per la Bellezza, ma ero appena
composta nella tomba
che un altro, morto per la verità,
fu disteso nello spazio accanto.
Mi chiese sottovoce perché ero morta
gli risposi “Per la Bellezza”.
“E io per la Verità, le due cose sono
una sola. Siamo fratelli” disse.
Così come parenti che si ritrovano
di notte parlammo da una stanza all’altra
finché il muschio raggiunse le labbra
e coprì i nostri nomi».
La poesia dice la morte e la vita del mondo, di ciascuna delle piante e delle pecore al pascolo, dei pesci, dei venti, degli imperi e degli uomini che, un giorno, smetteranno di parlare, ma non per questo non potranno essere detti. Le loro morti verranno annunciate dalla parola e, solo così, si potrà vivere consapevoli della propria e comune umanità. Sì, siamo fatti della stessa sostanza dei sogni che si accendono vibranti di significato, per poi affievolirsi lentamente, finché non si saranno spenti lasciando anche solo una briciola di pane sul terreno fertile della Storia.
12 gennaio 2024