La malattia della scomparsa, ecco l'appellativo di una patologia tanto diffusa quanto ignota all'essere umano. La patologia neurodegenerativa per eccellenza che oltre ad interrogare da secoli medici e ricercatori, pone l'uomo di fronte a ad uno dei dilemmi più antichi ed irrisolti della sua natura, quello della soggettività. L’obiettivo di questo articolo non è infatti di indagare le contingenze del possibile insorgere di questa patologia, ma di sbirciare attraverso di essa per toccare con mano la nostra fragilità di "individui" che si scoprono come collezioni di impressioni tenute insieme dall'inconsistenza del tempo e dell'esperienza.
Autoritratti realizzati dal pittore statunitense William Utermoholen dal 1967 fino al 2000, in cui si possono vedere gli evidenti segni del decadimento cognitivo dovuto all’Alzheimer e gli effetti che tale patologia procurò alla salute psicofisica dell’artista.
Descritta per la prima volta dal medico tedesco Alois Alzheimer agli inizi del 900’, l’omonima malattia è il più frequente tipo di demenza diagnosticata e viene descritta come un deterioramento delle funzioni cognitive, quali linguaggio, memoria e ragionamento, causato da un irreversibile processo di danneggiamento delle cellule cerebrali. Nonostante secoli di ricerca e sviluppo nell’ambito medico, molte delle questioni riguardanti tale patologia sono rimaste ancora nell’ombra, mentre i maggiori studi tentano di individuare i segni e le possibili cause dell’insorgere della malattia.
Al giorno d’oggi, infatti, non esiste una vera e propria prevenzione specifica, tantomeno una cura, ma esistono visite specialistiche che spaziano dalla risonanza magnetica alla tomografia, le quali cercano di fornire informazioni utili all’individuazione di campanelli d’allarme. Ciò che emerge da tale malattia, non è soltanto l’ennesima dimostrazione della fragilità umana, ma la prova concreta e tangibile di una delle più importanti problematiche gnoseologiche e ontologiche della filosofia, ovvero la soggettività.
Il problema della soggettività attraversa come un lungo ed ininterrotto filo rosso millenni di storia del pensiero filosofico, da Aristotele fino alla postmodernità di Rorty, passando per Descartes, Hume, Nietzsche, Freud, Heidegger e Dewey, per nominare soltanto alcuni di coloro che si sono cimentati nel tentativo di sciogliere quell’intricato gomitolo chiamato identità. Se nella filosofia aristotelica ravvisiamo una ben delineata struttura del concetto di individuo, grazie al principio di individuazione, che poneva il soggetto in una posizione privilegiata rispetto all’essere, da Descartes in poi il concetto di soggettività è diventato oggetto di non pochi dilemmi. Dal dualismo Cartesiano in poi si sono susseguiti numerosi filosofi che hanno provato a definire i confini di ciò che noi chiamiamo “individuo”, il quale appare in ogni forma possibile men che meno in quella di una struttura atomica a noi tanto familiare.
Secoli di riflessioni filosofiche hanno messo in luce il carattere frammentario e quasi “casuale” del soggetto, che sotto l’attento sguardo indagatore della filosofia, si è rivelato come una densa nube di impressioni ed esperienze in uno stato simile a quello delle fluttuazioni quantistiche.
Ma come si collega tale dilemma ontologico-gnoseologico alla patologia dell’Alzheimer? Per spiegarlo ho deciso di fare riferimento al pensiero di David Hume, ovvero colui che per primo ha portato alle estreme conseguenze la problematica della soggettività, approdando a conclusioni talmente radicali da essere sopravvissute a secoli di storia.
Sin dall’inizio della sua ricerca filosofica Hume si concentra sullo studio della forma e sul fondamento ontologico della mente umana, in quanto fulcro di ogni conoscenza e di ogni realtà esperibile dall’essere umano.
Nel suo Trattato sulla natura umana, il filosofo scozzese parte da due problemi apparentemente distinti che in realtà si rivelano essere fusi l’uno nell’altro, ovvero l’empirismo in quanto fondamento della conoscenza e la soggettività in quanto fondamento della natura umana. Il risultato di questa sua analisi è un soggetto unitario possibile solamente nella pratica, ma costituito ontologicamente soltanto da una collezione di dati. In questo modo l’empirismo di Hume non si risolve in una conoscenza basata sul dato, ma da una conoscenza in cui il dato supera sé stesso attraverso i principi.
I principi, secondo Hume, non sono altro che l’ordine secondo cui vengono creati nessi fra le idee, le quali sono soltanto copie sbiadite di impressioni di sensazione, sconnesse e abbandonate al caos più totale. Come spiega infatti il filosofo francese Gilles Deleuze, nel suo saggio Empirismo e Soggettività in cui analizza il pensiero humiano, la soggettività si costituisce nel dato empirico e dipende da esso, proprio perché il soggetto non è altro che un insieme di impressioni, che chiamiamo mente, la quale viene qualificata a soggetto.
« Il soggetto, perciò, si scompone in tante impronte quante sono lasciate dai principi nella mente. [...] Resta ugualmente il fatto che, in rapporto alla mente trasformata dall’insieme dei principi, il soggetto in quanto tale è indivisibile, non scomponibile, attivo e globale. » (G. Deleuze, Empirismo e Soggettività, I principi della natura umana)
In questa chiave di lettura i principi appaiono come ciò che ci permette di vivere, seppur in un ordine puramente artificiale privo di qualsiasi fondamento ontologico-metafisico. La stessa identità personale, infatti, è frutto di un processo inferenziale Improprio, che affonda le proprie radici nei principi di associazione quali, causalità, somiglianza, esperienza e abitudine, ma anche nei principi della passione ovvero le affezioni. Insieme, associazione e passione, partendo da una collezione sconnessa di idee, danno forma ad un soggetto capace di credere ed inventare.
« Da questo lato, la memoria non tanto produce, quanto scopre l’identità personale, mostrandoci la relazione di causa ed effetto fra le nostre diverse percezioni. [...] L’identità dipende dalle relazioni delle idee, e queste relazioni producono l’identità mediante il facile passaggio al quale danno luogo. » (D. Hume, Trattato sulla natura umana)
Con la qualifica di soggetto, infatti, la mente umana è capace di “creare” dei principi illegittimi che divengono poi fondativi della soggettività stessa; come nel caso dell’esistenza esterna distinta dei corpi esterni che Hume definisce connessione necessaria, la quale si rivela però essere una mera illusione. Ciò accade poiché la mente, nel rivolgere la natura umana, in quanto insieme di affezioni, a sé stessa cade in un cortocircuito, che Deleuze definisce come uno stato di delirio e demenza, causato da una contraddizione interna, in cui i principi fondativi della mente si scontrano con principi illegittimi creati da quest’ultima, e ormai divenuti anch’essi il fondamento della soggettività stessa.
« Noi non abbiamo, dunque, altra scelta se non fra una ragione falsa e la mancanza di ogni ragione » (D. Hume, Trattato sulla natura umana)
Tale dualismo si risolve in un soggetto manifesto solamente nelle sue affezioni, le quali stabilendo dei fini reali e degli interessi positivi, danno vita a quella che Deleuze definisce una “Finalità intenzionale”, la quale rappresenta l’unico possibile accordo tra la natura umana e la Natura.
« Chiamiamo finalità l’accordo tra la finalità intenzionale e la Natura. Questo accordo può essere soltanto pensato; indubbiamente forse si tratta del pensiero più povero e vuoto. [...] Ciò che facciamo ha i suoi principi; l’Essere può essere colto soltanto come l’oggetto di una relazione sintetica con i principi di ciò che facciamo. » (G. Deleuze, Empirismo e Soggettività)
Questa sconvolgente e dilaniata realtà dell’identità personale, messa in luce da Hume quasi 300 anni fa, non è stata forse mai interiorizzata pienamente dall’essere umano che, come lo stesso filosofo spiega, ha continuato la sua vita proprio nella Natura pratica delle sue relazioni.
« Per mia grande fortuna, se la ragione è incapace di dissipare queste nubi, a ciò pensa la Natura, la quale mi cura e guarisce di questa tristezza e di questo delirio filosofico: la tensione della mente si allenta, mi distraggo, un’impressione vivace dei miei sensi manda in fuga tutte queste chimere. » (D. Hume, Trattato sulla natura umana)
Ma la prova di quanto la nostra identità poggi su di un terreno estremamente fragile sono proprio le patologie neurodegenerative, quali appunto l’Alzheimer, che mettono in luce esattamente quella nube di ricordi ed impressioni, ormai fluttuanti, nell’assenza di un principio ordinativo.
Con ciò ovviamente non asserisco che questa malattia, ancora estremamente ignota alla scienza, possa essere spiegata semplicemente a partire dalla teoria humiana, ma intendo porre l’accento sull’effetto di tale malattia, che porta a quella che potremmo definire una “lenta dissolvenza della soggettività”, proprio a causa dei problemi apportati alla memoria a breve e a lungo termine.
Seppur non ad una morte fisica, l’Alzheimer conduce ad una morte dell’identità personale, proprio a quella fragile e sconnessa collezione di impressioni tenute insieme dalla memoria, la quale rappresenta il filo rosso della soggettività, nonché il principio ordinatore di quest’ultima.
Alla luce di quanto enunciato, la riflessione sulla natura umana di Hume ci si presenta quanto mai attuale e viva, proprio come Deleuze ha voluto sottolineare, capace di mettere in luce ciò su cui forse facciamo più affidamento nel corso della nostra quotidianità, ma su cui non riflettiamo mai abbastanza, ovvero la nostra identità.
Un'identità che sotto la giusta luce, come un prisma, si scompone in differenti colori, ognuno con le sue sottilissime sfumature, spesso difficili da distinguere, ma condensate in un mondo tanto concreto quanto effimero, quello della soggettività, che proprio patologie come l’Alzheimer sgretolano lentamente, disvelando una realtà nuda, lasciata al delirio e alla demenza.
19 giugno 2024