Food For Profit e l’importanza della visibilità

 

I consumatori sono tenuti all’oscuro di quanto accade all’interno degli allevamenti, luoghi misteriosi e inaccessibili per motivi che dovrebbero essere evidenti. Ma affinché una qualunque cosa sia evidente (dal latino “evĭdens”, che significa “che non lascia dubbi”) è prima necessario che sia visibile (dal latino tardo “visibĭlis”, ovvero “che può essere visto”). Per rendere evidente cosa vuol dire produrre carne è essenziale che la crudeltà che c’è dietro tale processo sia resa visibile. Cinema, letteratura e scelte personali altrui possono in questo essere fari folgoranti.

Twyla Francois, "Free Me"
Twyla Francois, "Free Me"

 

 

 

Diretto da Giulia Innocenzi e Pablo D'Ambrosi, Food For Profit è il documentario indipendente più discusso degli ultimi mesi. Mantenutosi per svariate settimane nella top 5 italiana dei migliori incassi al botteghino, è stato in grado di uscire dalla bolla degli animalisti e ambientalisti, arrivando ad un pubblico vasto e variegato. Il suo più grande pregio forse sta proprio qui: riuscire a parlare a tutti adottando uno stile vicino al giornalismo televisivo d’inchiesta più in voga in Italia. Il film porta alla luce le criticità a diversi livelli degli – ormai onnipresenti – allevamenti intensivi. Che si parli di benessere animale, di salute umana, di emissione di gas climalteranti o di vere e proprie truffe legalizzate ai danni dei cittadini contribuenti, l’industria zootecnica, per come è strutturata oggi, va osservata da vicino e riformata, se non boicottata. 

 

Allevatori e lobbisti sono concordi nel tenere lontani i consumatori dagli ambienti in cui si attua il processo di trasformazione degli animali non umani in cibo. Lo vediamo chiaramente in Food For Profit, dove le uniche telecamere in grado di accedere ai luoghi di lavoro sono nascoste. Jonathan Safran Foer racconta nel suo Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? di aver scritto, senza ottenere risposta, ben otto volte al colosso statunitense Tyson Foods per chiedere di poter visitare i loro allevamenti. Il giornalista Will Potter alcuni anni dopo dichiara nel documentario Cowspiracy (K. Andersen e K. Kuhn, 2014) che gli attivisti e i giornalisti americani che parlano di quanto accade all’interno delle mura delle aziende zootecniche sono da tempo nel mirino dell’industria e dell’FBI, entrambe interessate alla conservazione dei profitti delle corporazioni. 

 

A ben vedere, l’invisibilizzazione dello sfruttamento degli animali non umani passa anche per le scelte linguistiche cui siamo ormai abituati, attraverso le quali questi diventano – richiamando la teorizzazione fatta da Carol J. Adams – referenti assenti.

 

« La nostra cultura mistifica il termine "carne" con il linguaggio gastronomico, così che a essere evocati non sono animali uccisi e macellati bensì l'arte culinaria. Il linguaggio contribuisce dunque ulteriormente alla scomparsa degli animali. Mentre il significato culturale della carne e del mangiare carne si modifica storicamente, una parte essenziale del significato di carne non muta: non si può mangiare carne senza la morte dell'animale. Gli animali vivi sono quindi i referenti assenti del concetto di carne. » (Carol J. Adams, Carne da macello – La politica sessuale della carne)

 

Quella appena descritta è la maniera “definizionale” attraverso cui gli animali diventano referenti assenti, per la quale, quando li mangiamo, cambiamo il modo di parlarne. Per l’autrice però non è la sola: oltre a quella “letterale”, che vede l’individuo assente in quanto non più in vita, Adams fa riferimento al cosiddetto “modo metaforico”. È di uso comune che gli animali non umani diventino metafore per descrivere esperienze umane e ne è esempio lampante il fenomeno di influenzamento psicologico noto come animalizzazione. Si tratta di un tipo di deumanizzazione, volto a degradare e umiliare una o più persone, partendo dal presupposto specista che non tutti gli organismi viventi appartenenti al regno degli animali siano pari tra loro. Se il termine di paragone all’interno della metafora è un animale cosiddetto “da reddito”, eventualmente ucciso, si manifesta immediatamente il concetto di referente assente. 

 

« Un esempio è quando le donne vittime di stupro o di violenze affermano: “Mi sono sentita come un pezzo di carne”; […] l'uso dell'espressione funziona all'interno di un sistema metaforico del linguaggio. […] Gli animali sono diventati referenti assenti, il loro destino è stato trasformato in una metafora per l'esistenza o il destino di qualcun altro. » (Carol J. Adams, Carne da macello – La politica sessuale della carne)

 

Impiegare dunque una sfera lessicale che pertiene all’ambito dell’uccisione, dello smembramento, della macellazione e del consumo degli animali non umani, senza che a loro si faccia esplicito riferimento, li rende invisibili insieme a tutta la catena di atrocità, oppressione, violenza e sfruttamento che sono costretti a subire. Come asserisce l’accademica Teresa de Lauretis, «nessuno può realmente vedere sé stesso come un oggetto inerte o un corpo morto» (Teresa de Lauretis, Alice Doesn't: Feminism, Semiotics, Cinema) e nessuno può sapere per davvero cosa voglia dire sentirsi come un pezzo di carne. Questo modo di adoperare la lingua è complice dell’imperante normalizzazione degli abusi perpetrati negli allevamenti. Ad esempio, raccontare una reazione violenta delle forze armate come una “mattanza” ribadisce l’illegittimità della sua brutalità, se agita su esseri umani, ma intrinsecamente normalizza l’idea che tale pratica possano subirla dei tonni. Ugualmente, assaporare un piatto di prosciutto senza riferirsi a questo per ciò che è realmente significa scegliere di non guardare in faccia la realtà e ignorare la filiera di sofferenza che ha permesso a quell’animale di finire su un tagliere da portata. Insomma, nel modo in cui parliamo si cela un forte specismo, il quale ha un ruolo fondamentale nel mascherare la gravità di ciò che accade e nel far sentire giustificati i consumatori.

 

Nonostante l’inequivocabile tentativo di celare la verità al mondo esterno, ad oggi è tuttavia inverosimile non riuscire ad immaginare ciò a cui gli animali da allevamento sono costretti. Basti pensare alle numerose interviste, volutamente provocatorie, fatte ai passanti da Giorgio Immesi de Il Vegano Imbruttito, dalle quali emerge come, spesso, pur con la consapevolezza che un problema c’è, si preferisca voltare il capo dall’altro lato così da non sentirsi complici o responsabili di un sistema tanto violento. O ancora, esemplare è il caso della rete televisiva BBC Three che, annunciato nel 2007 un programma incentrato sul funzionamento di un macello, fu sommersa da critiche indignate di genitori inglesi, preoccupati che i propri figli potessero assistere ad una messa in onda di questo tipo. Si pone dunque un dilemma non indifferente: come si può avere paura di guardare delle immagini atroci, riuscendo però a consumare tranquillamente il prodotto del processo in esse rappresentato?

 

Quello in atto è il meccanismo della dissonanza cognitiva, teorizzato da Leon Festinger che a tal proposito scrive: «Quando c’è un conflitto tra pensieri, sentimenti o comportamento, quelli in conflitto cambieranno per minimizzare la contraddizione» (Leon Festinger, Teoria della dissonanza cognitiva). Quindi chi condanna le pratiche violente condotte negli allevamenti, ma al contempo mangia carne, avverte la tensione derivante dallo scontro di questi due assunti, i quali finiscono per essere inconsciamente rimodellati nel tentativo di mantenere una visione selettiva delle cose. Tale visione selettiva è essenziale affinché ci si senta protetti, coerenti e in armonia con le proprie azioni, nonostante il loro originario disaccordo con i valori di cui ci si dice portatori.

 

In tal senso, la parola d’ordine per disinnescare l’immobilità delle persone non può che essere visibilità. Rendere visibili i retroscena delle industrie del settore in tutta la loro marcescenza crea un cortocircuito nella retorica dell’indifferenza e Food For Profit fa esattamente questo. Prodotti così sono fondamentali affinché l’attenzione sul tema sia mantenuta alta e più persone possibili non decidano di aderire al partito del menefreghismo. Sulla stessa scia si colloca l’effetto generato dalla presenza anche di un singolo vegano in un qualunque contesto sociale. La sua importanza in quel momento sta nel mostrare che un’alternativa è possibile e se c’è un’alternativa, forse la nostra non è necessariamente la via migliore. Non a caso la sola esistenza dei vegani mette in crisi l’onnivoro medio, che immediatamente, senza che nessuno gli abbia domandato alcunché, si sente chiamato a giustificarsi della sua alimentazione.

 

 

In un sondaggio italiano condotto nel 2023 da Essere Animali con YouGov, 1100 individui sono stati chiamati a dire la propria riguardo all’allevamento di suini in gabbia. Il 65% si è detto contrario, il 9% favorevole, mentre più del 25% dei rispondenti non si è sentito pronto a esprimere un’opinione. I dati cambiano in modo significativo mostrando agli intervistati le foto degli allevamenti di maiali, al punto che la percentuale di persone che considera le gabbie inaccettabili sale al 74% e scende al 18% quella di chi non sa rispondere al quesito. In questo caso, la presa visione di un dato visivo è in grado di cambiare il posizionamento dell’ago della bilancia, conferendo un enorme potere alle immagini reali.

 

La creatura vegetariana di Frankenstein o il moderno Prometeo di Mary Shelley, in modo diretto e appassionato, cerca visibilità, nella speranza di entrare a far parte del circolo degli umani. La sua voce tuttavia viene silenziata e respinta, esattamente come accade con il vegetarianismo, se si parla di agone patriarcale delle idee. Il premio Pulitzer Alice Walker in un suo breve componimento dal tono sarcastico e provocatorio fa passare la conoscenza (to know) attraverso la vista (to look) di una mucca. 

 

« Guarda

nei

suoi occhi

e sappi:

Lei non pensa

a sé stessa

come

carne. »

 

(Alice Walker, La Vaca)

 

 

 

È ancora una volta lo sguardo, in questo caso rivolto a della carne putrida, a rompere schemi e costituire nuove consapevolezze in Agnes Ryan, caporedattrice del Woman's Journal tra il 1910 e il 1917. Nella sua autobiografia inedita ne parla così:

 

« Le costolette erano andate a male. Ero inorridita. […] Una marea di pensieri terribili e devastanti mi inondò. È incredibile come la vita ti scorra davanti agli occhi nell’arco di pochi secondi. […] Avrei mai potuto mangiare carne se mi fossi concessa di pensare alla creatura vivente deprivata della vita? » (Agnes Ryan, The Heart to Sing, an Autobiography)

 

L’immaginazione dunque non può bastare. È indispensabile, per un consumo consapevole, vedere cosa succede agli animali non umani, ancor di più se c’è qualcuno che vorrebbe che noi distogliessimo lo sguardo. Soltanto dopo aver fatto ciò, potremo dare una risposta tutta nostra al dilemma morale legato a doppio filo con la crudeltà degli allevamenti e compiere così una libera scelta in linea per davvero con ciò in cui crediamo.

 

 

28 giugno 2024

 




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