Il corpo e la sua instabilità come mezzo di liberazione nella prospettiva buddhista pāli

 

All’interno della soteriologia buddhista, la mente ha un ruolo preminente, poiché, se da un lato è ciò che incatena all’esistenza, al divenire e in ultima analisi alla sofferenza, dall’altro, quando opportunamente coltivata, può ben servire da strumento di liberazione. Ciò è possibile non solo per mezzo dell’osservazione della mente stessa, ma altresì per mezzo dell’osservazione del corpo nella sua altamente instabile composizione materiale, data dal flusso causalmente ordinato di entità minime chiamate rūpa–kalāpa. 

 

di Simone Perrone

 

 

È esperienza possibile, a seguito di opportuni training meditativi, l’osservazione della mutevolezza della mente in ogni istante, al punto che nel Paṇihitācchavagga dell’Aṅguttaranikāya il Buddha, dopo aver affermato di non vedere nessun’altra cosa che cambi così velocemente, sostiene che, proprio per questo, non è facile trovare una similitudine adeguata al suo rapidissimo cambiamento.

 

Seppur difficile da imbrigliare, la mente può divenire lo strumento essenziale per l’affrancamento dalla sofferenza esistenziale, nella misura in cui sia resa in grado di produrre una visione chiara e penetrante della realtà condizionata nelle sue tre caratteristiche universali di impermanenza (anicca), frustrazione (dukkha) e impersonalità (anattā). Ciò è attuabile non solo attraverso l’analisi della mente, ma anche attraverso quella del corpo nella sua materialità. Di questo, per sommi capi, il presente contributo s’incarica di parlare.

 

All’interno della letteratura post-canonica, è stata elaborata una particolare dottrina, non meramente teoretica ma con finalità contemplativa e in ultima analisi soteriologica, che concepisce la realtà materiale come composta da entità minime chiamate in lingua pāli rūpa–kalāpa. Quando la concentrazione (samādhisia sviluppata in misura adeguata, diviene possibile osservare direttamente la composizione elementare della materia, a partire dal corpo del praticante. Unità labili più sottili del mondo fisico, i rūpa–kalāpa compongono tutto ciò che di materiale esiste, sia esso animato o inanimato. Dal punto di vista del contemplativo avanzato, dunque, ogni realtà fisica in senso ultimo si mostra come dotata di un’esistenza soltanto istantanea: dura, cioè, per un solo istante, perché tale è la durata dei suoi stessi elementi compositivi.

 

Così, se l’esperienza grossolana e ordinaria appare composta di cose e persone relativamente stabili, la percezione delle medesime in meditazione cambia radicalmente quando si consideri che tanto le une quanto le altre risultano da minimi materiali effimeri, oltreché, per tal cagione, insoddisfacenti e impersonali: insoddisfacenti, poiché non è possibile far affidamento su enti così transeunti per trarre da essi duratura felicità; ma altresì impersonali, poiché essi sfuggono al controllo volontario del soggetto: in questo senso, essi sono “non-sé” (anattā).

 

 

Quella dei rūpa–kalāpa non è una teoria dettata da esigenze speculative, ma la risultante dell’osservazione meditativa della natura della materia, innanzitutto – si diceva – del corpo fisico del contemplativo stesso. Tale corpo, apparentemente una massa solida e fissa, compatta e stabile, è invero costituito da una quantità enorme di rūpa–kalāpa, la cui esistenza, come dice il grande maestro birmano Pa-Auk Sayādaw, si svolge nel tempo di meno di un miliardesimo di secondo, e la cui grandezza, stando a U Ba Khin, è migliaia di volte inferiore a quella di una particella di polvere: anche il più sottile granello di polvere è, infatti, un aggregato di molti rūpa-kalāpa

 

 

Ciò che di primo acchito impedisce l’osservazione dei rūpa–kalāpa – e della materialità ultima (paramattha-rūpa) data dagli elementi (dhātu) che li costituiscono – è l’apparente compattezza del corpo: in prima battuta, infatti, questo si mostra come una sorta di monolite che, entro certi limiti, permane con ravvisabile identità, quella stessa che, peraltro solo superficialmente, permette di riconoscerne l’uguaglianza pur nel trascorrere di anni interi: quella stessa, insomma, che nel guardare una foto di sé infante permette di dire, anche a distanza di decenni, che quel corpo, pur evidentemente modificatosi, è lo stesso di ora, almeno nella misura in cui i tratti somatici permettono di stabilire questa corrispondenza.

 

In effetti, risolvendo la compattezza con cui il corpo prima facie si dà all’osservazione, se ne scopre la composizione elementare data da innumerevoli rūpa-kalāpa che sorgono e scompaiono senza che una sostanza materiale permanga da un istante al successivo: un kalāpa, dunque, non ha continuità, poiché appena sorge perisce; perciò, come dice di nuovo Pa-Auk, non c’è tempo perché un kalāpa vada da qualche parte, né di vita in vita, né di secondo in secondo, né di istante in istante.

 

Quanto alla loro estremamente breve durata, Sayalay Susīlā dà un’indicazione che, certo, non è stabilita con strumenti e modi di validazione scientifici, ma è atta a dare un’idea di quanto rapido sia il succedersi di questi minimi materiali, i quali, a suo giudizio, sorgono e cessano molti milioni di volte ogni secondo – così ribadendo, nel senso dell’istantaneità, il fondamentale insegnamento buddhista dell’impermanenza (anicca). Sempre per consentire di formarsi un’idea approssimativa della rapidità del flusso dei kalāpa, U Ba Khin diceva che nel tempo di ammiccamento dell’occhio umano trascorra un trilione di istanti in cui tali elementi materiali esauriscono la loro esistenza.

 

Alla luce di ciò, a un livello d’analisi più profondo, radicale, ultimo, si scopre che tra il corpo dell’infante e quello dell’adulto – per riprendere questo esempio – esiste senz’altro una connessione causale, quella dovuta alla successione ordinata dei rūpa-kalāpa, ma in realtà da allora a ora nulla è rimasto identico a se stesso. C’è continuità causale, ma senza identità ontologica. L’identità, in ultima istanza, è una mera convenzione per scopi pratici, socialmente utile, com’è indubbio, ma a rigore inesistente. Se nella composizione materiale di ogni corpo – sia esso organico o inorganico – tutto scorre inarrestabilmente e a velocità tale da non poter assolutamente fornire un saldo appiglio, allora si rende necessario coltivare un atteggiamento di distacco o, detto altrimenti, di non attaccamento.

 

Così, il senso fondamentale della minuta osservazione dei rūpa-kalāpa è quello di decostruire il senso dell’io e del mio in relazione, in primo luogo, al corpo di cui ciascun soggetto umano mostra di essere dotato – ma non di “possedere”, né di “essere”, poiché questo corpo non è “mio”, né è “io”. Per la precisione, la formula canonica intesa a nutrire l’atteggiamento di distacco è la seguente: «questo non è mio, questo non sono io, questo non è il mio sé» (netaṃ mama, nesohamasmi, na meso attā). La finalità della “teoria” dei rūpa-kalāpa è, pertanto, di ordine soteriologico. Essa non ha pretesa scientifico-naturalistica, ma è volta a costituire un senso – vieppiù profondo man a mano che la pratica procede – di disidentificazione dal corpo.

 

Del resto, se quella dei kalāpa fosse una teoria con pretesa scientifica, oggi si potrebbe a buon diritto ritenerla obsoleta e superata dalle acquisizioni più recenti della fisica, la quale offre modelli di comprensione della materia nettamente più accurati, rigorosi, formalizzati in termini matematici e validati secondo il metodo scientifico. Invece, proprio perché i rūpa-kalāpa sono inseriti in un “programma” di liberazione dal dukkha, è possibile servirsene ancora come strumento soteriologico, sebbene ciò complessivamente non avvenga di frequente, perlomeno in Occidente.

 

 

In conclusione, ancorché non insegnata dal Buddha – perlomeno non dal Buddha che è dato conoscere attraverso i discorsi canonici (sutta) –, questa dottrina, dai risvolti evidentemente pratico-soteriologici, è perfettamente in linea con lo spirito del suo magistero, e pertanto, pur essendo uno sviluppo tardo nella storia della tradizione pāli, meriterebbe maggiore diffusione. A questo scopo, ci si potrebbe servire – tra l’altro – dei contributi di rinomati maestri dell’epoca contemporanea, come U Ba Khin, Goenka e Pa Auk, accomunati dall’aver dato spazio – più o meno ampio –, nei loro insegnamenti, alla “dottrina” dei kalāpa

 

21 giugno 2024

 









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