Nell'odierno panorama degli studi filosofici, l'ingiustizia epistemica si configura come un argomento di crescente interesse e recente sistematizzazione. Lo dimostrano la letteratura scientifica, i saggi e gli approfondimenti interdisciplinari, che negli ultimi decenni stanno approfondendo il fenomeno: Miranda Fricker, José Medina, Gaile Pohlhaus Jr. sono solo alcuni nomi di studiose e studiosi che hanno contribuito a un’analisi del problema in questione.
Sebbene l’idea di un’ingiustizia di tipo epistemico fosse già presente nel dibattito filosofico del 1900 (si pensi ad esempio agli studi sul postcolonialismo della filosofa indiana Gayatri Chakravorty Spivak), è con il saggio di Miranda Fricker del 2007 Epistemic Injustice: Power and the Ethics of Knowing che ha inizio l’approfondimento e lo studio sistematico del fenomeno, nelle forme che esso assume nella società odierna e nella nostra vita quotidiana.
La filosofa Gaile Pohlhaus Jr., riprendendo i contributi di Kristie Dotson, definisce l’ingiustizia epistemica un fenomeno di discriminazione attuata verso alcuni individui in quanto agenti epistemici – quindi nella loro capacità di partecipare e contribuire alla produzione e condivisione di conoscenza – che agisce «impedendo loro di avere un impatto sul sistema epistemico». (Pohlhaus, Varieties of Epistemic Injustice).
In altri termini, si ha ingiustizia epistemica laddove alcuni soggetti siano esclusi dalla produzione e dalla condivisione di conoscenza e strumenti del sapere, per motivi connessi alla loro identità: pregiudizi legati al genere, al sesso, alla razza o alla condizione sociale ecc.
Alcuni gruppi di knowers – agenti epistemici – avrebbero, dunque, una ridotta accessibilità alla produzione di conoscenza nella società a cui appartengono, finendo vittime di forme di discriminazione che colpiscono la loro capacità contributiva epistemica, la validità delle loro testimonianze, e le forme espressive ed ermeneutiche che questi soggetti usano per interpretare ed esprimere la loro esperienza del mondo.
Basandoci sul saggio di Fricker sopracitato, l’ingiustizia epistemica si esprime in due forme principali: ingiustizia testimoniale e ingiustizia ermeneutica. Quest’ultima è quella che in questo articolo si proverà ad approfondire maggiormente, testando l’ipotesi di un possibile collegamento con il concetto wittgensteiniano di gioco linguistico. José Medina, citando il saggio di Miranda Fricker Epistemic Injustice: Power and the Ethics of Knowing, definisce l’ingiustizia ermeneutica
« un fenomeno che accade quando, a causa di un gap nelle risorse interpretative della collettività, un individuo si trova ingiustamente ostacolato nel dare senso e condividere le sue esperienze sociali con gli altri »
In altri termini, la collettività utilizza un insieme di strumenti linguistici, culturali e performativi che non consentono di comprendere l’esperienza di alcuni individui, i quali posseggono strumenti talvolta diversi, non conosciuti né fatti propri dagli interlocutori a cui si rivolgono.
Un esempio, riportato nel testo qui in analisi di M. Fricker, aiuterà a chiarire di cosa si tratti nel concreto: Carmita Wood, nel 1975, lascia il suo posto di lavoro nel dipartimento di fisica nucleare in cui lavora da otto anni, a seguito di molestie sessuali subite dal suo supervisore, il fisico nucleare Boyce McDaniel. Inizialmente, la Wood cerca di evitare questa difficile e ingiusta decisione, provando a prendere sempre più le distanze da McDaniel. Ma presto lo stress e la tensione psicologica, dovuti alla situazione, si somatizzano in problemi fisici come dolore cronico al collo e alla schiena. Wood chiede un trasferimento e, non riuscendo ad ottenerlo, è costretta a lasciare il lavoro. Quando chiede l’indennità per la disoccupazione le viene chiesto il motivo delle sue dimissioni, ma la donna non possiede i termini e le espressioni necessarie ad esprimere la sua esperienza: la parola inglese per indicare le molestie sessuali, ai tempi, non esiste. Così non le viene concessa nessuna indennità e la Wood vive una situazione che oggi chiameremmo marginalizzazione ermeneutica: né lei, né la collettività a cui deve esprimere la sua esperienza di vita, possiedono i mezzi ermeneutici per rendere dicibile e comprensibile quello che le è successo.
Questo esempio mostra chiaramente cosa si intende quando si parla di ingiustizia ermeneutica: una lacuna negli strumenti interpretativi di una società in un certo momento storico influenza la pensabilità, l’esprimibilità e in ultima analisi la comprensibilità di un avvenimento personale, creando danni alla persona che lo subisce e non sa come parlarne.
J. Medina sottolinea la gravità del fenomeno, dal momento che «la capacità di dare senso alle proprie esperienze e di condividerle con gli altri è cruciale nella formazione della dignità di ogni individuo umano.» (Medina, Varieties of Hermeneutical Injustice)
Data questa breve panoramica sull’ingiustizia ermeneutica, si può forse tentare un collegamento concettuale con l’idea di gioco linguistico sviluppata dal filosofo Ludwing Wittgenstein nella prima metà del 1900. Wittgenstein, nella seconda fase del suo pensiero, sviluppa questo concetto come idea – alternativa alle sue riflessioni precedenti – per comprendere il funzionamento del linguaggio tra i parlanti. Non è qui possibile approfondire in maniera davvero completa le intuizioni di questo importante e complesso filosofo, tuttavia è forse interessante estrapolare alcuni schizzi della sua riflessione filosofica per calarli nel più ampio discorso sull’ingiustizia ermeneutica.
Nell’opera Ricerche Filosofiche, iniziata nel 1941 e pubblicata postuma nel 1953, si trovano in forma di brevi osservazioni alcune osservazioni wittgensteiniane sul linguaggio, sulla psicologia, sulla matematica e sulla filosofia. Si tratta di appunti scritti nel corso di sedici anni, diverso tempo dopo il celebre Tractatus logico-philosophicus (1921) con cui Wittgenstein era convinto di aver risolto i principali problemi della filosofia. Nel corso degli anni, tuttavia, Wittgenstein cambia prospettiva sul linguaggio, sulla sua natura e sul legame tra questo e il mondo, e giunge a delineare la cosiddetta teoria dei giochi linguistici, in opposizione alla visione del linguaggio come specchio del mondo con funzione essenzialmente denotativa, che caratterizzava invece la posizione del Tractatus.
Wittgenstein, in altri termini, sviluppa una concezione secondo cui il significato delle parole non è più riducibile semplicemente all’oggetto che esse denotano, ma corrisponde invece al loro uso.
Le parole significano tutto ciò che si fa con esse, sono strumenti: è celebre l’immagine della cassetta degli attrezzi che si trova in Ricerche Filosofiche par. 11:
« Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili, c'è un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti. – Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. »
Ciò vale anche per le proposizioni: solo una parte di esse ha valore denotativo o descrittivo, come quando si dice “questa è una sedia” indicando una sedia.
Molti altri enunciati svolgono funzioni diverse: ordini, preghiere, invocazioni, lamenti, sono esempi di usi linguistici che diventano chiari all’interno del linguaggio, perché inseriti in un gioco linguistico di cui i parlanti conoscono e condividono le regole.
Le parole e gli enunciati crescono, perciò, su un terreno performativo: il loro significato emerge dall’uso che se ne fa insieme agli altri, e cambia col variare di questo uso nel tempo e nei contesti. È evidente la valenza sociale di una simile idea del linguaggio: non è mai possibile sviluppare un linguaggio solipsistico, tra sé e sé, perché una tale natura performativa richiede la condivisione delle regole del gioco, cioè dell’uso del linguaggio, con gli altri membri della collettività. La condivisione collettiva delle regole del gioco linguistico si fa quindi criterio di validità delle regole stesse, che altrimenti risulterebbero prive di senso, cioè inutilizzabili.
Inoltre, se l’uso crea il significato delle parole, esso forma anche un mondo – inteso come rete di significati – in cui gli individui parlano, si muovono, agiscono: la parola ha quindi una dimensione essenzialmente operativa, fa cose nel mondo, crea orizzonti di possibilità e di realtà. È sempre possibile interrogarsi sull’effetto di una parola, una frase, un discorso o un linguaggio, perché la parola è azione e come tale sortisce effetti concreti nella realtà.
Tenendo a mente questo breve, e sicuramente parziale, schizzo dell’idea di gioco linguistico, è possibile provare ad applicare tale concezione del linguaggio al fenomeno dell’ingiustizia ermeneutica, come mezzo per l’appunto interpretativo del problema, utile a coglierne alcuni aspetti e a immaginare possibili soluzioni.
Se il linguaggio funziona come un gioco “creatore di mondi”, si può forse definire “lacuna ermeneutica” quell’area vuota di un gioco linguistico, ovvero quella zona priva di regole condivise, una specie di isola inesplorata nella mappa degli usi noti fra i parlanti. In Ricerche Filosofiche par. 18 Wittgenstein paragona il linguaggio a una città:
« Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade dritte e regolari, e case uniformi. »
Assumendo questa prospettiva, le lacune ermeneutiche alla base dell’ingiustizia epistemica sarebbero dei sobborghi “non ancora costruiti”, aree di questa città linguistica da bonificare e sulle quali erigere nuovi edifici semantici. Quando la collettività, e in essa alcuni gruppi specifici, sentono il bisogno di allargare i significati – gli usi – del loro vocabolario, perché oppressi da alcune lacune ermeneutiche e semantiche, ecco che quelle zone diventano “cantieri” linguistici: sorgono nuovi termini per indicare esperienze che, seppure forse sempre presenti, è diventato urgente poter esplicitare agli altri. Certamente si tratta di processi di cambiamento faticosi, da affrontare con la volontà di costruire qualcosa di nuovo. Tuttavia, guardare il linguaggio come qualcosa di vivo e dinamico può facilitare l’avvio di processi di evoluzione linguistica, utili ed eticamente necessari, volti a colmare quelle lacune ermeneutiche che opprimono ingiustamente alcuni membri della nostra comunità. Per questo l’utilizzo delle intuizioni del filosofo austriaco può forse aiutare al nostro scopo, e fungere da strumento ermeneutico nel cambiamento di prospettiva sulla natura del linguaggio.
Distaccarsi dall’idea che la lingua che parliamo sia rigidamente statica e determinata, per guardare invece il linguaggio come un insieme di strumenti verbali con cui creare un mondo di relazioni di significato, enfatizza l’idea della responsabilità individuale e collettiva che si ha nel migliorare il nostro linguaggio, rendendolo sempre più in grado di far fronte alle necessità di tutti coloro che lo usano.
(Un ringraziamento speciale va al Professore Paolo Valore dell’Università degli Studi di Milano, per aver dedicato le preziose lezioni del corso di Gnoseologia di quest’anno accademico al tema dell’ingiustizia epistemica e all’analisi di alcuni dei testi qui citati.)
10 giugno 2024