L’iki di Kuki Shūzō: una filosofia che viaggia dal Giappone all’Europa

 

Kuki Shūzō, filosofo giapponese della prima metà del ‘900, fonde armonicamente nel suo scritto sull’iki i temi distintivi del Giappone di cui è figlio e dell’Europa di quegli anni, tra le cui città principali si sposta, studiando la filosofia di quei luoghi, per quasi tutti gli anni venti.

 

di Giulia Pullano

 

Hashiguchi Goyō, "La Modella Tomi dopo il bagno", 1920
Hashiguchi Goyō, "La Modella Tomi dopo il bagno", 1920

 

«La filosofia vissuta (ikita) deve arrivare a comprendere la realtà. Sappiamo che esiste un fenomeno iki. Quale sarà la sua struttura? Che non sia in fondo un “modo di vivere” (ikikata) peculiare della nostra razza? Questo saggio si propone di cogliere la realtà così com’è e di dare espressione logica a un’esperienza che andrebbe “assaporata”»

 

Con queste righe, che fanno da rapida e incisiva premessa, il filosofo giapponese Kuki Shūzō comincia la trattazione de La struttura dell’Iki, sua opera forse meglio conosciuta in Occidente per via degli influssi ermeneutico-fenomenologici che vi si respirano leggendola. Definire che tipo di trattazione si abbia davanti è forse una velleità ancora troppo legata alle manie occidentali, alla loro tendenza classificante che tutto vuole specificare e categorizzare, necessità di ordine che tranquillizza perché – si pensa – , ciò che ha un nome ci è noto come un porto sicuro. Tuttavia a voler accontentare la nostra brama di sistematizzazione, l’opera di Shūzō può considerarsi un trattatello di “onto-estetica”, intriso di atmosfera giapponese, di riferimenti alla cultura orientale, ai suoi significati etici e spirituali, ai suoi artisti, al mondo tutto nipponico delle geisha, dei samurai, del buddhismo.

 

Del resto, già nella breve premessa sopracitata emerge l’ipotesi – poi ulteriormente indagata nel testo – che l’iki, fenomeno oggetto della riflessione di Shūzō, sia un “modo di vivere” il cui significato sia essenzialmente legato alla natura etnica che lo connota. Idea che sembra immediatamente avvalorata dalla mancanza di un corrispettivo del termine iki in altre lingue, soprattutto in quelle occidentali, i cui termini apparentemente vicini – come il francese raffiné – colgono in realtà al più un aspetto parziale della sua struttura. Insomma, se è tramite la lingua che l’etnia – la «somma dei “noi”» che forma una cultura – si autosvela e manifesta i suoi modi di essere passati e presenti, come Shūzō crede e suggerisce nelle prime pagine del trattato qui citato, allora un termine presente solo nella lingua giapponese non può che essere intriso di una coloritura culturale ben specifica, e dal sapore tutto nipponico.

 

Scrive Shūzō:

 

« Nelle lingue europee vi sono parole soltanto simili a iki, ma non vi si può trovare l’esatto equivalente. Nulla impedisce allora di considerare l’iki una evidente automanifestazione del modo d’essere specifico della cultura orientale o, per meglio dire, della razza Yamato. » (Kuki Shūzō, La Struttura dell’Iki)

 

Se l’iki risulta una automanifestazione dell’esistere tipicamente giapponese, la comprensione della sua struttura deve passare per una «apprensione dell’esistenza concreta, reale e particolare» a partire dalla quale l’iki si svela. Shūzō stesso dissuade da una analisi astratta, eidetica e formalizzata del fenomeno dell’iki, in favore invece di uno studio ermeneutico che parta dall’iki in quanto fenomeno di coscienza per giungere alle sue espressioni artistiche e oggettive.

 

Kuki Shūzō
Kuki Shūzō

 

Prima di approfondire alcuni dei punti nodali e maggiormente suggestivi della trattazione, è importante sottolineare che, se si fossero notate delle somiglianze terminologiche e formali con il pensiero di Heidegger, queste non sono affatto casuali. Shūzō difatti, prima di scrivere La struttura dell’iki – che appare per la prima volta sulla rivista Shisō nel 1930 – trascorre diversi anni in Europa, affascinato dalle intuizioni filosofiche del pensiero fenomenologico ed ermeneutico, e più in generale dalla filosofia occidentale novecentesca: conosce personalmente Bergson, Löwith, Sartre. Legge Baudelaire, Valery, d’Annunzio, mentre segue i corsi di Rickert sulla filosofia da Kant a Nietzsche. Nel 1927 si trova a Friburgo, dove diventa amico di Husserl e conosce Heidegger, con il quale instaurerà un rapporto di amicizia e profondo rispetto, avvicinandosi alle intuizioni contenute in Essere e Tempo, soprattutto con riguardo alla fenomenologia ermeneutica. 

 

Da questa incisiva influenza, mista allo stretto legame con la cultura giapponese che Shūzō non dimentica mai, nasce l’idea di applicare il metodo appreso da Heidegger al fenomeno dell’iki. Questa, insomma, la genesi dell’opera, nonché il motivo della sua – pur moderata – diffusione in occidente, dove il nome di Kuki Shūzō è noto tra gli studiosi di Heidegger anche grazie al saggio del 1953 Da un colloquio nell'ascolto del linguaggio, in cui il filosofo tedesco riporta un dialogo tra sé e un allievo giapponese di Shūzō, ricordando le profonde conversazioni tenute sull’iki.

 

Lo svelamento ermeneutico dell’iki avviene, seguendo Shūzō, sotto forma di fenomeno di coscienza e di espressione artistica. Gli attributi dell’iki che emergono nella automanifestazione sono costitutivi della sua struttura e sono una triade che ben esprime l’essenza giapponese del fenomeno. L’iki è seduzione, apertura all’altro e instaurazione di un possibile rapporto duale. È la possibilità del legame con l’altro «assolutizzata in quanto possibilità», una tensione tra i due sessi mai risolta in un vero avvicinamento, mai estinta: sembrano riecheggiare qui le pagine di Essere e Tempo dedicate alla possibilità estrema dell’Esserci, che l’Esserci assume davvero su di sé solo quando riesca a mantenerla come possibilità indeterminata, cioè possibilità in quanto tale. Il secondo elemento della triade è l’energia spirituale proveniente dall’ideale dell’etica Bushido, codice di condotta adottato dai Samurai, che spiritualizza la seduzione aumentando la tensione tra i due sessi: «le cortigiane non si comprano a suon di denaro, ma si conquistano con l’energia spirituale». L’ultimo elemento della triade è la rinuncia, ideale dell’Irrealtà buddhista, sprezzante consapevolezza del destino che consente di liberarsi dall’attaccamento alle cose del mondo, agli affetti, all’attrazione, rinunciando «a ciò che è impossibile» e abbandonandosi a un amor fati dal sapore nietzschiano.

 

Insomma, l’iki è un fenomeno in cui risuona lo spirito giapponese, strettamente legato al mondo delle geisha: è seduzione che crea la possibilità di un rapporto duale, la cui essenza è mantenuta tale grazie all’energia spirituale che tiene a freno l’apertura all’altro, e ancor di più dalla rinuncia che, impedendo alla seduzione di raggiungere il suo scopo, fa sì che essa rimanga fedele a se stessa e al suo carattere di pura possibilità. Seguendo il tentativo di definizione di Shūzō: «attrattiva erotica (seduzione) capace di sprezzatura (rinuncia) e dotata di tensione (energia spirituale)».

 

Kitagawa Utamaro, "Takashima Ohisa che usa due specchi per osservare la sua acconciatura"
Kitagawa Utamaro, "Takashima Ohisa che usa due specchi per osservare la sua acconciatura"

 

Se lo svelamento della struttura dell’iki sotto forma di fenomeno di coscienza può apparire disorientante – il che avvalorerebbe l’idea di Shūzō di una sua natura essenzialmente legata all’etnia giapponese – può forse aiutare considerare le manifestazioni oggettive e artistiche che l’iki assume, in natura e nelle arti cosiddette libere. Shūzō dedica la seconda parte del suo trattato alle forme naturali in cui l’iki si automanifesta, con particolare attenzione alle espressioni corporee: la cadenza della voce, i volti affilati, la postura leggermente curva, il trucco leggero delle geisha, così come l’acconciatura non convenzionale e il colletto del chimono che lasci vedere l’attaccatura dei capelli. Sono tutte manifestazioni corporee dell’iki in cui si svelano gli elementi della sua struttura: la seduzione, l’energia spirituale e la rinuncia. Il trucco leggero, ad esempio, è un tocco di seduzione, ma il suo essere appena accennato e non volgare manifesta gli ideali etici e spirituali che tengono a freno il rapporto duale appena innestato. Lo stesso vale per ogni altra manifestazione corporea dell’iki, e forse quella in cui la sua triade si fa più evidente è l’abito di seta, che è

 

« apertura di un varco per l’altro sesso grazie alla trasparenza del tessuto, e chiusura del passaggio per via della sua funzione di coprire. »

 

Hashiguchi Goyo, "Donna che mette il rossetto", 1920
Hashiguchi Goyo, "Donna che mette il rossetto", 1920

 

L’ultima sezione dell’opera è dedicata alle forme espressive che l’iki assume nelle arti libere, cioè le arti decorative, la musica e l’architettura. Limitandoci qui alle prime, Shūzō ricorda che ogni espressione dell’iki deve manifestare la «seduzione come oggettivazione di “energia spirituale” e “rinuncia”», e nulla pare farlo meglio delle rette parallele, le quali:

 

« procedendo eternamente senza mai incontrarsi, rappresentano la più pura oggettivazione visiva della dualità. » 

 

Righe, dunque, che siano sottili ma «non sprovviste di incisività», e meglio ancora se verticali, perché una riga che si lasci cadere mostra la saggezza spirituale racchiusa nell’accettazione della forza di gravità, mentre le linee orizzontali sembrano opporvisi, perciò da esse non emana il giusto senso di spiritualità.

 

Una trattazione teorica e concettuale della struttura dell’iki non può sostituire, Shūzō lo sa bene, l’esperienza di un “fatto iki”. Tuttavia è mediante una analisi di questo tipo che è possibile creare le condizioni di esperibilità dell’iki, mettendo chi ascolta – forse forestiero o forse solo dimentico della cultura giapponese – nella posizione adatta a cogliere il fenomeno per come gli si dà. 

 

Il tutto, a un lettore occidentale poco vicino alle tonalità culturali nipponiche, potrà sembrare legittimamente poco chiaro o addirittura oscuro e confuso; e l’autore stesso non sembra affatto soffrire la specificità del fenomeno dell’iki. Tutt’altro: in conclusione all’opera, e in quel che sembra un moto di rivendicazione dei valori culturali ed etnici giapponesi, Shūzō afferma che l’iki è «QUALCOSA DI NOSTRO», una specificità etnica il cui significato va preservato dall’oblio della cultura spirituale giapponese. Così, memore delle intuizioni occidentali sull’ermeneutica, Shūzō tenta in quest’opera di svelare la verità automanifestantesi dell’iki – come Heidegger aveva tentato pochi anni prima di fare con l’essere – tenendo però ben in mente che:

 

« Solo una nazione che serbi uno sguardo lucido sul destino e sia animata da una struggente aspirazione alla libertà può far assumere alla seduzione il modo dell’iki. » 

 

12 giugno 2024

 









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