Svegliarsi con Eraclito. Un percorso terapeutico

 

Secondo Pierre Hadot fare filosofia significa aderire a un certo stile di vita, sforzarsi di assumere determinate disposizioni interiori. Filosofia e bios sono inseparabili. Questo insegnamento ripreso e ampliato dalle riflessioni di Michel Foucault e sviluppato per altre vie da Peter Sloterdijk è alla base del presente contributo, che si propone di leggere il pensiero di Eraclito come una filosofia dell’esercizio. Nel Novecento si sono avvicendate importanti interpretazioni teoretiche e filologiche del pensatore di Efeso. In secondo piano è invece passato l’aspetto legato all’“attitudine” filosofica (cfr. Stéphane Madelrieux, La philosophie comme attitude). L’intento è allora di riattivare questa importante dimensione attraverso un “percorso terapeutico”.     

 

di Salvatore Grandone

 

Hendrik ter Brugghen, "Eraclito", 1628
Hendrik ter Brugghen, "Eraclito", 1628

 

Avvicinarsi al pensiero di Eraclito è come entrare in un’arena. Le molteplici letture dei frammenti del poema Sulla Natura hanno generato nel tempo un vero e proprio campo di tensioni in cui la polarità filosofia-filologia ne delinea le linee di forza. Molteplici le interpretazioni che trattano le sentenze come reperti archeologici da analizzare con strumenti intertestuali e intratestuali e con accurati excursus etimologici attenti a ricollocare l’uso delle parole nel loro contesto storico. Altrettanto numerose le indagini teoretiche, che cercano nel dire eracliteo un nuovo inizio per la filosofia occidentale. Tra questi due estremi si collocano le esegesi che tengono insieme filologia e filosofia, la necessità di pensare Eraclito a partire dal presente senza però forzare i frammenti in griglie concettuali estranee.

 

In questo panorama ampio e complesso sono poco o nulla battuti i percorsi che pongono l’accento sulla valenza “terapeutica”. Sebbene non manchino saggi sull’antropologia e sulla morale di Eraclito, nessuno si è forse spinto fino al punto di mettere al centro l’aspetto medico-curativo. 

 

Eppure questa operazione è sul piano teorico meno azzardata di quanto sembri. Secondo Pierre Hadot la filosofia come terapia dell’anima comincerebbe con Socrate e raggiungerebbe la sua massima fioritura nelle filosofie ellenistiche. Tuttavia, lo stesso Hadot e successivamente diversi altri critici hanno sottolineato come questo atteggiamento sia rintracciabile in molti filosofi delle età medievale, moderna e contemporanea. Per un breve quadro bibliografico rinvio alla parte introduttiva del mio articolo Guarire dall’amor proprio. Il tetrafarmaco di Blaise Pascal. 

 

Anche se con minor frequenza, diversi studiosi anticipano il momento terapeutico rintracciandolo nella scuola pitagorica e in Empedocle (ad esempio cfr. Jean François Balaudé, Le savoir vivre philosophique. Empédocle, Socrate, Platon). Certo, per i primi filosofi è difficile proporre percorsi di questo tipo per la nota carenza di fonti. Ma accanto ai limiti oggettivi, persiste anche il luogo comune storiografico che i filosofi ionici e i fisici pluralisti siano interessati a questioni prevalentemente naturali – vulgata diffusa dagli stessi Platone e Aristotele.

 

Non è questa la sede per soffermarsi su come oggi questa visione sia stata in parte superata dalla critica. Per il nostro scopo è sufficiente fare propria, oltre la lezione hadotiana, l’identificazione di Peter Sloterdijk della filosofia a una forma di antropotecnica. 

 

« L’uomo produce l’uomo attraverso una vita di esercizi. Definisco “esercizio” ogni operazione mediante la quale la qualificazione di chi agisce viene mantenuta o migliorata in vista della successiva esecuzione della medesima operazione, anche qualora essa non venga dichiarata esercizio ». (Peter Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita)

 

Le antropotecniche sono l’insieme delle tecniche inventate dall’uomo per cambiare se stesso. In particolare, la filosofia è storicamente quell’antropotecnica animata da un profondo senso di verticalità. Soprattutto nel mondo antico il filosofo è colui che vuole conoscere se stesso, dominare le proprie passioni, aspirare alla saggezza. Se questo è un orizzonte teorico possibile entro cui attraversare la storia della filosofia, allora una disamina in chiave terapeutica del pensiero di Eraclito, che metta al centro l’esercizio, ossia l’ascesi, è legittima. Del resto in tale ottica si erano già riappropriati del filosofo di Efeso gli stoici e probabilmente anche i cinici (Cfr. Kostas Axelos, Héraclite et la philosophie).   

 

L’analisi sarà articolata in base allo schema sintomatologia, diagnosi, eziologia e terapia

 

Sintomatologia 

 

Jan Steen, "Nella lussuria, fa’ attenzione", 1660
Jan Steen, "Nella lussuria, fa’ attenzione", 1660

 

Per Eraclito l’animo umano è turbato dai piaceri e dai desideri. L’uomo che ricerca i piaceri si abbassa alla condizione animale, si accontenta di vivere un’esistenza bestiale. «Se la felicità consistesse nei piaceri corporei, allora dovremmo dire che sono felici i buoi, quando trovano del foraggio da mangiare» (4) (Eraclito, in I Presocratici, a cura di G. Reale). Per l’uomo che ricerca il piacere è indifferente l’oggetto desiderato; l’importante è provare piacere. Il piacere dell’uomo non sarebbe quindi in sé diverso da quello di un bue. 

 

Eraclito tocca un tema che sarà ripreso più volte nel corso della filosofia antica. Si pensi ad esempio al Gorgia di Platone, quando Socrate mostra al sofista Callicle come il piacere sia effimero. Socrate paragona la vita sregolata all’uomo che riempie delle botti forate: per quanto si sforzi, chi ricerca il piacere è condannato a sentirsi sempre vuoto. Considerazioni simili le ritroviamo in Aristotele, che nell’Etica nicomachea amplia le riflessioni del Filebo di Platone e si sofferma sulla distinzione tra i piaceri di tipo gustativo-tattile e quelli che si accompagnano all’agire che eleva. Nel primo caso si tratta di una sensazione di pienezza che deriva dall’aver colmato un vuoto. Chi ricerca questa forma di piacere vuole in modo paradossale anche il dolore, perché il senso di pienezza segue per definizione uno stato di mancanza. Nel secondo il piacere è invece qualcosa che si aggiunge, un’eccedenza che deriva dal dispiegamento della propria potenza di esistere. Nella filosofia antica la questione del piacere come fine ultimo dell’esistenza sarà inoltre centrale nei cirenaici e negli epicurei. 

 

Eraclito si colloca dunque all’origine di un’importante tradizione. Per il filosofo di Efeso la questione del piacere rientra all’interno del problema della dismisura. Comprendiamo meglio questo aspetto con l’esame dell’altra grande causa di turbamenti: i desideri. 

Leggiamo questi tre frammenti. 

 

« Per gli uomini non è la cosa migliore che si realizzino tutte le cose che desiderano » (110);

 

« Difficile è la lotta contro il desiderio, perché ciò che esso vuole lo compera a prezzo dell’anima» (85); 

 

« Si deve spegnere la dismisura più di un incendio » (43).

 

J.M.W. Turner, "L'incendio delle Camere dei Lord e dei Comuni", 1834
J.M.W. Turner, "L'incendio delle Camere dei Lord e dei Comuni", 1834

 

Non è un bene che si realizzino tutti i nostri desideri. Quante volte ci siamo sentiti augurare il contrario dai genitori o dai nostri amici più cari? Per quale motivo la realizzazione dei nostri desideri non sarebbe la “cosa migliore”? La risposta è nelle altre due sentenze. I desideri invadono l’anima, ne occupano ampie porzioni; assediano la nostra cittadella interiore e prendono il possesso di zone nevralgiche. I desideri incarnano i mille volti della hybris che incendia l’anima. Nella visione di Eraclito il desiderio invade il mondo interiore generando squilibrio, e soprattutto una pericolosa stasi. Il desiderio infatti ossessiona, fissa la mente su specifici oggetti, impendendo una rappresentazione veritiera della realtà. Si potrebbe pensare che la realizzazione dei desideri metta fine a questa disarmonia, ma non è così. Il successo alimenta la tracotanza, la presunzione e dunque la dismisura: nuovi desideri divampano. L’incendio dell’anima è più pericoloso di un incendio naturale. Quest’ultimo infatti è pur sempre visibile; si possono prendere delle contromisure per circoscriverlo e spegnerlo. Al contrario, l’incendio dell’anima è spesso invisibile agli altri e perfino a noi stessi; prende forme mutevoli e subdole. La dismisura è allora a valle e a monte dei nostri desideri. 

 

La frustrazione di un desiderio potrebbe essere un passo importante per ritrovare la misura. Ecco perché Eraclito sembra augurare saggiamente di non realizzare tutti i desideri: il fallimento è un utile viatico per guardare in prospettiva diversa la propria esistenza. 

 

Ma perché l’uomo ricerca costantemente il piacere e alimenta i suoi desideri se questi portano turbamento? Perché incendia la parte migliore di sé in nome di vane illusioni?

 

Diagnosi ed eziologia

 

La diagnosi di Eraclito è chiara:

 

« Essi, pur ascoltando, non capiscono e sono come sordi; di loro è testimone il detto: pur essendo presenti, sono assenti » (34). 

 

E ancora 

 

« di questo logos che è sempre gli uomini sono incapaci di comprensione né prima di aver sentito parlarne, né dopo aver sentito parlarne la prima volta; e anche se tutte le cose avvengono secondo questo logos, essi si mostrano inesperti, quando si cimentano in parole e in azioni, quali quelle che io presento, distinguendo ciascuna cosa secondo la propria natura, e spiegando come essa è. Ma gli altri uomini non sanno ciò che fanno da svegli, così come dimenticano ciò che fanno dormendo » (1).

 

L’essere schiavi dei desideri e dei piaceri è la conseguenza del vivere come dormienti. Sebbene la ragione – sul concetto di logos si tornerà a breve – sia presente in tutte le cose, l’uomo agisce come un dormiente, da inesperto. Giudica la realtà con superficialità, afferrandone solo alcuni aspetti; ricerca magari la ricchezza senza avvertire – come insegnerà qualche secolo dopo Epicuro – che dietro questo desiderio vi è un’aspirazione irrazionale all’immortalità. 

 

Ma quali sono le cause dell’essere dormiente? Nelle sentenze di Eraclito è reperibile un’acuta eziologia. La ricerca ossessiva del piacere e il posto sempre più ingombrante che occupano i desideri nell’anima derivano da una rappresentazione falsa della realtà. I fattori che inducono in errore sono molteplici. Un primo è l’affidarsi troppo ai sensi: «cattivi testimoni sono occhi e orecchi per gli uomini che hanno anime barbare » (107)

 

Eraclito non condanna in sé la conoscenza sensibile. Afferma infatti anche «io preferisco quelle cose di cui c’è vista, udito, conoscenza» (55). Il problema risiede nel “come” sono usati i sensi. Per un’anima “barbara”, ossia non educata e non guidata dalla ragione, i sensi possono nutrire giudizi falsi. 

 

I sensi – dirà un grande filosofo contemporaneo del divenire – «si limitano di tanto in tanto a fissare delle immagini istantanee, e quindi immobili, del divenire del mondo» (H. Bergson, L’evoluzione creatrice). Essi tendono a immobilizzare quello che in realtà è in continuo mutamento, a vedere sostanze lì dove sono presenti equilibri metastabili. Privi della guida della ragione i sensi non possono che fornire un’immagine statica e quindi mortifera della realtà. 

 

Un secondo fattore che contribuisce allo stato dormiente è il contare troppo su un sapere astratto e nozionistico. «Il sapere molte cose non insegna a pensare in modo retto» (40) (Eraclito, I Presocratici). Non è la testa ben piena ma quella ben fatta (Michel de Montaigne) a doverci condurre. Le nozioni servono a poco; bisogna piuttosto costruire concetti che siano ritagliati sulle sinuosità del reale. 

 

Ancor più pericolose del sapere nozionistico sono le opinioni. Eraclito le caratterizza attraverso due immagini efficaci. Paragona le opinioni al morbo sacro e ai giocattoli dei bambini («le opinioni sono come il morbo sacro» (46); «le opinioni degli uomini sono giocattoli dei bambini» (70)). Le due metafore sembrano in contrasto, ma a un’attenta analisi risultano complementari. L’uomo che si lascia guidare dalle opinioni è paragonato a colui che è posseduto da forze misteriose. Nel mondo antico l’epilessia o morbo sacro era considerata una malattia di origine sovrannaturale. Se ricollocata nel contesto storico di Eraclito, l’associazione opinione-morbo sacro è allora significativa. Le opinioni possiedono e accecano l’anima. Di conseguenza l’essere in balìa delle opinioni non è così diverso dallo stato di follia: chi segue le opinioni sragiona come il folle, si consegna a una logica particolare e ignora quella universale operante in ogni cosa. D’altro canto le opinioni sono anche come i giocattoli dei bambini: sono mutevoli. Come il bambino presto si annoia di un giocattolo e ne vuole un altro, così l’uomo passa da un’opinione a un’altra. Abituato a non ragionare, l’uomo è in permanenza esposto alla fascinazione di quelle opinioni che appaiono più attraenti. 

 

Infine, altri due elementi favorevoli all’instaurarsi delle condizione dormiente sono le abitudini o i comportamenti appresi con l’educazione familiare («Non bisogna agire come figli dei nostri genitori, ossia, per dirla in maniera semplice, come abbiamo da loro imparato» (74)) e le superstizioni religiose («Si purificano con altro sangue e insieme si contaminano, come se uno, dopo essersi immerso nel fango, si lavasse con il fango stesso» (5)), un sottoinsieme particolarmente nocivo di opinioni.   

 

Date la diagnosi e le cause della malattia come provare a guarire? 

 

La terapia

 

J.M.W. Turner, "L’alba sul mare", 1807
J.M.W. Turner, "L’alba sul mare", 1807

 

Destarsi dalla condizione dormiente non è semplice. Tanti sono gli ostacoli che impediscono il risveglio. Ma il logos è presente ovunque, permea ogni cosa; anche nell’agire dell’uomo dormiente opera la ragione universale. Eraclito è consapevole che molti pensano solo a «saziarsi come le bestie» (29), che «non sanno né ascoltare né parlare» (19), che «cadono in inganno anche nelle cose evidenti» (56). Tuttavia, «bisogna ricordarsi anche di colui che si dimentica dove conduce la strada» (71)

 

Il logos appartiene a tutti e in linea di principio chiunque può svegliarsi, uscire dal mondo particolare in cui si era fino ad allora confinato ed accedere al mondo comune, alla comprensione razionale di sé e della realtà («A tutti gli uomini è data possibilità di conoscere se stessi e di essere saggi» (116); «per coloro che sono svegli esiste un mondo unico e comune, […] invece ciascuno di coloro che dormono torna nel proprio mond» (89)). In che modo? Bisogna giungere a una comprensione tensiva e polare della realtà.

 

« Il Dio è giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame. Egli subisce mutazioni come il fuoco, quando si mescola con gli aromi, ed è chiamato secondo l’aroma di ciascuno. » (67)

 

Su questo frammento sono stati versati fiumi di inchiostro. Tra il fitto groviglio di commenti due si rivelano particolarmente interessanti per il nostro percorso. Il filosofo Marchel Conche, curatore di un’edizione critica in lingua francese dei frammenti di Eraclito, così interpreta la sentenza: 

 

« Non si coglie Dio afferrando da un lato il giorno e dall'altro la notte, da un lato l'inverno e dall'altro l'estate, e così via. Lo si coglie solo afferrando l'unità dei contrari, i contrari nella loro unità. Più precisamente, lo si coglie afferrando non solo l'unità di una coppia di opposti e poi di un'altra, ma l'unità di tutte le coppie, l'unità cosmica. […] L'Uno-dio si differenzia: si dispiega in fenomeni molteplici che costituiscono la diversità e la ricchezza del mondo. Si presenta in mille sfaccettature, sotto mille aspetti nominati con nomi diversi. » (Héraclite, Fragments, a cura di Marcel Conche)

 

Il logos divino non è giorno e notte, inverno ed estate, guerra e pace, sezietà e fame, ma giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame. La complementarietà dei contrari non è avvicendarsi degli opposti, quanto comprensenza, polarità, campo di tensioni.  

 

Un altro filosofo francese, Gilbert Simondon, ha colto ancora meglio questo nucleo del pensiero eracliteo: 

 

« Ogni serie qualitativa è composta dalla tensione tra termini estremi e opposti: malattia e salute, male e bene, fame e sazietà, stanchezza e riposo, primo e ultimo, vita e morte, veglia e sonno, giovinezza e vecchiaia, salita e discesa, secco e umido, acceso e spento, giorno e notte, inverno ed estate, guerra e pace, abbondanza e carestia, freddo e caldo, dispersione e riunione, avanzare e ritirarsi. Ogni coppia di opposti delimita e costituisce un insieme, un tutto, in cui si verifica una sorta di oscillazione, uno scambio, un’operazione di compensazione. I termini estremi sono le fasi opposte di un unico processo che oscilla dall’uno all’altro. Ciò che, per i Fisici ionici (la cui cosmologia Eraclito adotta in gran parte, ma assegnando al fuoco il ruolo di elemento primo) era un’operazione di differenziazione e genesi, diventa in Eraclito un’attività ciclica di scambio, di bilanciamento. […] L'Uno e il Molteplice sono dunque la stessa cosa, perché il reale è unità, o armonia. Ma è importante sottolineare che per Eraclito il movimento non è una fuga indefinita, un flusso incessante, e neanche, di conseguenza, un progresso. […] Il divenire non è un flusso irreversibile, ma un’oscillazione di cambiamenti di fase. » (Gilbert Simondon, Sur la philosophie)

 

Il reale è processo e la complementarietà degli opposti va letta come oscillazione e bilanciamento. “Scambio”, “compensazione” generano e regolano il divenire; l’unità è una totalità di equilibri metastabili che si intrecciano. Ecco perché «l’Uno e il Molteplice sono la stessa cosa»: non c’è unità se non nella tensione, nella differenza di polarità dinamiche che si strutturarno e si ristrutturano indefinitamente.

 

Ora, come questa consapevolezza della realtà come unità molteplice di polarità tensive può avere una valenza terapeutica? Come può la comprensione del logos destarci e operare quella che Pierre Hadot chiama la “conversione dello sguardo”? Come può la filosofia di Eraclito trasformarsi in bios, in stile di vita?  

 

Leggere il mondo in chiave eraclitea comporta una vera e propria rivoluzione nel nostro modo di essere nel mondo. Proviamo a mostrare gli aspetti principali.

 

    1) Eraclito invita ad essere amici dell’invisibile: «l’armonia invisibile è migliore di quella visibile» (54), (Eraclito, I Presocratici). Seguire Eraclito significa intraprendere un complesso e lungo cammino per affinare i nostri sensi. Si è visto come una percezione superficiale delle realtà riveli cose morte. Dove è movimento, i sensi vedono immobilità; dove vi sono tensioni, i sensi scorgono sostanze separate. Ma per Eraclito è possibile un’altra percezione, più profonda, del mondo. «Io preferisco quelle cose di cui c’è vista, udito, conoscenza» (55): occorre che l’intelligenza penetri i sensi e i sensi l’intelligenza. Eraclito ci aiuta a pensare al di fuori dei dualismi mente-corpo, intelletto-sensi. 

 

    2) Eraclito invita a investigare noi stessi: «ho investigato me stesso» (101). Tra uomo e natura non vi è uno scarto incolmabile: le polarità tensive presenti nel mondo operano anche in noi. La comprensione della natura illumina la comprensione di noi stessi e viceversa. Questo insegnamento di Eraclito trova forse la sua riformulazione più importante e originale nel pensiero di Henri Bergson. Per il filosofo francese si può scendere nell’io profondo se ci “lasciamo vivere” (Henri Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza). Bisogna pensare l’io sub specie durationis e non sub specie aeternitatis: è questa la strada per arrivare all’io come totalità organica in movimento e per sentirsi parte dello slancio creatore della vita. Questa conversione dello sguardo dall’esteriorità all’interiorità è difficile. Tuttavia, è in grado di cambiare alla radice il nostro rapporto con noi stessi, con gli altri e con il mondo. 

 

    3) Eraclito invita a variare i punti di vista sulla realtà. Si tratta di uno dei punti più noti della sua filosofia, spesso però banalizzato – e in questo hanno contribuito anche filosofi eraclitei (secondo la tradizione antica Cratilo) e lo stesso Platone. La variazione si configura in Eraclito quasi come un esercizio spirituale. Nel filosofo il prospettivismo non è sinonimo di relativismo, ma di educazione dello sguardo alle molteplici implicazioni che costituiscono la complessa trama del reale. 

 

Conclusione 

 

Essere amici dell’invisibile, investigare noi stessi, variare i punti di vista. Il pensiero di Eraclito offre ancora oggi insegnamenti per ripensare il nostro atteggiamento nei confronti dell’esistenza. Certo, non si può essere eraclitei alla “lettera”. Ma è possibile riappropriarsi dello “spirito”, come hanno fatto gli stoici, Montaigne, Bergson, Nietzsche o Simondon. Osserva in un recente libro Stéphane Madelrieux : 

 

« Ogni vera filosofia deve intendersi non solo come un insieme di dottrine e sistemi di idee, ma soprattutto come un modo di condurre la propria vita. Esistono molte dottrine e regole da seguire, ma ciò che conta è l'impegno personale del filosofo in un certo modo di vivere, il suo “sforzo per assumere determinate disposizioni interiori” » (Stéphane Madelrieux, La philosophie comme attitude).

 

E sono proprio queste “disposizioni interiori” che il presente articolo spera di aver messo in luce.  

 

2 luglio 2024

 









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