Approfittare della differenza? Uno sguardo critico alle terminologie in tendenza

 

Per quanto ironici ed intriganti, tra girl dinner, girl math e simili, i trend di subdola infantilizzazione delle donne stanno riportando alla luce un atteggiamento sospetto che si credeva ormai sepolto insieme ai concetti più tradizionali del sistema patriarcale. La questione ha una stratificazione particolare: se da una parte scherzare su determinate cose è sfizioso e necessario, dall'altra è importante riguardarsi per evitare l’ulteriore estensione di un terreno già troppo fertile che favorisce la diffusione di stereotipi di genere.

 

di Sara Ricci

 

 

Su Dictionary.com, il girl dinner è «un pasto preparato utilizzando tutto ciò che una persona ha a disposizione, compresi gli avanzi. L'uso della parola ragazza nel termine fa riferimento all'associazione stereotipata delle piccole porzioni con le abitudini alimentari di alcune donne». La girl math si riferisce invece a convinzioni matematiche illogiche e prive di senso. «Ad esempio, l’idea che comprare qualcosa in contanti significhi non spendere soldi o la razionalizzazione che tutto ciò che costa meno di cinque euro è sostanzialmente gratuito potrebbe essere soprannominata matematica femminile». Certo, è vero, girls just wanna have fun ed è utile a tutti criticare concetti datati usando il linguaggio come arma a favore, ma dobbiamo anche chiederci: perché queste associazioni di parole, stereotipi e abitudini funzionano ancora così tanto? Si parla di contenuti che arrivano a milioni di visualizzazioni e in cui molte persone riescono a rispecchiarsi facilmente.

 

È importante osservare bene la linea sottile che divide la critica e la perpetuazione – pur tenendo a mente la nota satirica –, perché da lì dobbiamo porci delle domande fondamentali: dalle radici di questi trend si possono estrarre le caratteristiche pungenti di una sottile misoginia? Si può ignorare il campanello di preoccupazione che tintinna istintivamente ogni volta che ad un tipo di rappresentazione femminile viene appioppata una connotazione velatamente negativa? In questo caso possiamo parlare di rivendicazione di concetti e terminologie o è il caso che si presti più attenzione a quello che va in tendenza sul web, soprattutto se si parla di categorie già da sempre oppresse?

 

Quel campanello d’allarme che scatta da piccole tendenze del web fa strada ad altri tipi di contenuti pericolosi. Da girl dinner e girl math si è passati molto velocemente ad un archetipo di stereotipizzazione già più inconfondibilmente misogina: tra le numerosissime tendenze è spopolata anche quella dell'explaining complex things to girlies, ovvero lo "spiegare cose complesse alle ragazze", che semplifica in maniera quasi stupida e decisamente infantile argomenti importanti, come ad esempio il video dell’user Tik Tok nikitadumptruck sul rischio di una terza guerra mondiale. Nel video – che ha raggiunto circa un milione e mezzo di likes – la proprietaria dell’account spiega, indirizzandosi specificatamente alle ragazze, i rapporti tra Ucraina e Russia dall’inizio della guerra, parafrasando e utilizzando terminologie da riviste e trasmissioni televisive pop per rendere meglio il messaggio alle girlies, ritenute così implicitamente incapaci di affrontare discorsi di maggiore intensità senza atteggiamenti ridicolizzanti e svilenti. La tiktoker utilizza lo stesso metodo per spiegare l’inflazione, il conflitto israelo-palestinese ed altre tematiche più dense dedicando in maniera esclusiva il focus dei suoi contenuti alle "femmine", sminuendo e mortificando i concetti affinché risultino più comprensibili per le ragazze. Attenzione: qui non è la semplificazione il problema, perché il fatto che concetti di un certo calibro raggiungano un pubblico più vasto equivale ad una maggiore inclusività nel dialogo collettivo, e questa è essenzialmente una cosa buona. Il problema è che dietro il modesto lavoro di semplificazione – che sicuramente a larghe vedute funziona  – ci sia l’intenzione implicita di svalorizzare le capacità di comprensione di una donna. È davvero ancora così difficile pensare che una "femmina" sia abbastanza competente e tanto fluida da elevarsi al livello di complessità richiesto da una questione di cui si discute?

 

Se per secoli si è riconosciuta pubblicamente l’integrità delle lotte femministe per le conquiste della parità di genere, questa maldestra de-escalation di tendenze sta inoltre generando una sua sfumatura ancora più spaventosa. Sempre più ragazze si riprendono sfidando spavaldamente i loro spettatori ponendo loro domande al limite dell’assurdo, come ad esempio "perché mai le donne hanno voluto a tutti i costi lavorare? Il lavoro non è per noi", oppure condividendo constatazioni come "il posto di una donna è in casa, le donne sono state inserite nel mondo del lavoro non per parità, ma per essere usate come ulteriore strumento per il profitto capitalistico", accettando così – in una maniera del tutto paradossale – il ruolo di moglie/madre/donna di casa come massima aspirazione di vita o come estremo atto rivoluzionario. 

 

Carla Lonzi (1931-1982)
Carla Lonzi (1931-1982)

Queste considerazioni mandano in frantumi decenni di studi e di lotte. È da sottolineare come già tra gli anni Sessanta e Settanta in Italia si discuteva non solo della questione dei diritti delle donne in ambito lavorativo, ma si cominciò a prendere in considerazione la questione del ruolo della casalinga come ruolo retribuibile a tutti gli effetti. Più specificatamente, ne La donna clitoridea e la donna vaginale, Carla Lonzi smentisce con argomentazioni dettagliate le assurde considerazioni delle content creator: l’attivista introdusse la rivalutazione del problema del lavoro domestico, criticando il sistema patriarcale che relegava le donne principalmente al lavoro in casa senza riconoscimento economico. La Lonzi cominciò a parlare di cura dei figli, gestione della casa e preparazione dei pasti come mansioni di un ambito lavorativo a sé stante che avrebbe dovuto avere un riconoscimento sociale valido. Si ribellava alla storica e ingiusta esclusione delle donne dal mercato del lavoro, le quali venivano poi costrette a svolgere mansioni domestiche senza ricevere alcun tipo di retribuzione.

 

Ma questo è solo un esempio. Con la Lonzi, anche Dacia Maraini, Lea Melandri, Elvira Banotti e molte altre in Italia contribuirono alla diffusione della consapevolezza di genere, combattendo l’oppressione e spianando di molto la strada alle generazioni successive. Una lotta che, viste le tendenze e l’inaspettato cambio di rotta del pensiero femminile collettivo, si spera non sia stata del tutto vana.

 

Ne Il secondo sesso, Simone de Beauvoir scriveva che il linguaggio ha il potere di influenzare la percezione e la rappresentazione di un gruppo nella società. La nascita e popolarità di questi nuovi linguaggi sembra essere diametralmente opposta al linguaggio intrinsecamente androcentrico criticato dalla filosofa Luce Irigaray, eppure non è del tutto così. La filosofa argomentò in maniera molto articolata sulla questione della riduzione della donna all’altro: nel linguaggio patriarcale, le donne sono spesso rappresentate come "l'altro", una categoria definita in relazione a qualcosa di già sistemicamente determinato anziché come soggetti autonomi. Secondo la filosofa, questa riduzione delle donne a una categoria secondaria contribuisce a mantenere e rafforzare la subordinazione femminile.

 

In conclusione, è ancora attuale l’invito di Carla Lonzi – come quello di Irigaray – ai suoi lettori: approfittiamo della differenza. Ma ad oggi cosa significa? Se partecipiamo alla divulgazione di un linguaggio che “riduce la donna all’altro’’, e questo altro è rappresentato come confusionario, illogico, infantile e incapace di comprensione, non rischiamo anche noi di finire dalla parte dell’oppressore?

 

È chiaro che l’intenzione è il filo sottile che divide il divertimento dalla subordinazione. La creazione di nuovi linguaggi o la riscrittura di parole esistenti può certamente aprire spazi per una rappresentazione più autentica e inclusiva delle esperienze femminili, ed è per queste stesse ragioni che possiamo divertirci, fare satira, ironia e parodie su tutto, senza però dimenticarci che la rivoluzione parte proprio dal nostro modo di comunicare. E ad una cosa tanto sfaldabile come il linguaggio bisogna stare particolarmente attenti perché, se è vero che da lì parte la rivoluzione, neanche una sfumatura di quella malleabilità si può perdere di vista lungo il percorso inevitabile dell’interpretazione personale. 

 

11 marzo 2024

 









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